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A Gianni Togni piacciono Mk.gee, Bon Iver e Iosonouncane

Sorpresi? Il cantautore di ‘Luna’ («che ha un piano tra Bowie e Supertramp») si racconta: il nuovo mix di ‘…E in quel momento’, il prog, la libertà d’artista, Beatles e Nirvana. Sottovalutato? «Non avevo uffici stampa bravi»

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Guardava il mondo da un oblò Gianni Togni quando, nel 1980, ha fatto uscire il disco …e in quel momento, entrando in un teatro vuoto, un pomeriggio vestito di bianco, mi tolgo la giacca, accendo le luci e sul palco m’invento. Pare che l’album dovesse chiamarsi Debutto, secondo Giancarlo Lucariello. Quando Togni, poco convinto, gli ha dato alcuni titoli alternativi, il produttore ha deciso di usarli tutti insieme. E alla fine quel ragazzo romano ha sbancato con la hit Luna.

Quarantacinque anni dopo è un’uscita un’edizione restaurata con un nuovo mix fedele allo spirito originario del progetto. Abbiamo incontrato Togni nel suo studio.

A parte Luna, che è esplosa, c’è una canzone nel disco che è stata un po’ penalizzata e andrebbe rivalutata?
In realtà un po’ tutti i brani sono andati bene. Maggie è diventato un grande successo, come Chissà se mi ritroverai. Secondo me, poi, È bello capirci (senza essere uguali) è interessante: musicalmente si muove in modo atipico rispetto a quello cui eravamo abituati ad ascoltare all’epoca come pop, parte con una ritmica molto serrata, arriva più dal progressive, dalle cose che facevano i Genesis o i King Crimson.

Nient’altro?
Voglia di cantare è un’altra canzone che fotografa bene la musica del tempo: molto più rock, durava tanto (sei minuti, nda). C’era un lungo finale particolare che finiva proprio come se il nastro fosse terminato. Non era la solita sfumata.

Se ti dico Giardini in una tazza di tè?
Quella piace tantissimo. Alcuni la ritengono la canzone più bella dell’album. È vicina alle sonorità dei Fairport Convention, band inglese che univa il folk al progressive.

C’entra anche Proust in questa canzone, giusto?
Sì. Quando io e Guido Morra (autore dei testi, ndr) studiavamo all’università, si parlava di come nascevano i titoli, di quante volte venissero cambiati come esempio Alla ricerca del tempo perduto. All’inizio si intitolava Giardini in una tazza di tè perché ispirato dalle madeleinette. Nel romanzo il personaggio di Odette con questo piccolo dolce ritorna indietro nel tempo: sono i sapori dell’infanzia. Lo abbiamo trattato come tale, un ricordo di quando eravamo bambini. Io sono nato nel 1956. Sono stato bambino nei primi anni ’60. Nei primi dieci anni di vita la realtà è cambiata molto: nel 1966 è arrivata tutta la rivolta giovanile, le università venivano occupate.

Il primo ricordo di quel periodo?
Sentivo tante canzoni, ho cominciato ad ascoltare i Beatles, c’era grande apertura, ma ero troppo giovane per rivolte e occupazioni, avevo 10 anni.

Torniamo alla musica. Ti definisci controcorrente?
Non mi sono mai ripetuto, non ho mai cercato il successo, ho fatto sempre dischi che volevo fare, alcuni più belli, alcuni più brutti. Uso sempre il tennis come esempio.

Cioè?
Per colpire le righe, andare bene nell’angolo, devi sbagliare. Se non sbagli, non prendi le misure. A volte si deve anche tentare e rischiare di fare errori per capire qual è la cosa giusta per te.

Quando hai sbagliato?
Ho toppato due canzoni contenute nell’album Singoli: Adesso non ci sto e Cindy Crawford forse non avrei dovuto scriverle.

Com’è nata Cindy Crawford?
Mi consigliò di scriverla Vincenzo Mollica. All’epoca eravamo molto amici. Mi disse di aver fatto ascoltare un mio brano – non ricordo quale – a Crawford che aveva molto apprezzato. E mi chiese «Perché non le dedichi una canzone?».

Hai avuto molto successo all’estero, sei ancora famoso?
Non credo. Sono stato molto famoso in Spagna, Svizzera, Francia e Germania grazie a Luna. Ho ottenuto un enorme seguito anche in Giappone dove partecipai allo Yamaha Festival con Vivi, secondo posto dietro a Osvaldo Rodríguez. C’erano anche i Toto in quell’edizione. Sono andato molto bene anche in Australia.

Come gli Abba, praticamente.
Adesso non esageriamo. Però quando ho lavorato in Svezia, a Stoccolma, per lo spettacolo G&G su Greta Garbo sono andato a vedere Kristina från Duvemåla, un musical veramente bello, scritto dagli Abba. Al centro c’era la storia della migrazione svedese in America nell’Ottocento.

A proposito di musical, hai scritto Hollywood – Ritratto di un divo, un enorme successo con Massimo Ranieri e la regia di Giuseppe Patroni Griffi… come nacque?
La CGD non era molto contenta del disco Bersaglio mobile, eravamo andati male, avevamo venduto “solo” tra le 160 e le 200 mila copie.

E tu?
Decisi di togliermi dalle scatole e andare a Londra. Stiamo parlando del 1988.

Che fai a Londra?
Comincio ad assistere a tutti i musical che non avevo mai visto tipo Les Misérables. E impazzisco: una cosa meravigliosa, tutte le arti insieme, coreografie, scenografie. A quel punto mi dico: voglio fare pure io un musical.

Rientri in Italia e…
Con Guido Morra troviamo la storia di John Gilbert, attore del cinema muto, l’unico che si poteva dire fosse stato davvero fidanzato con Greta Garbo. Lei era arrivata lì per caso, mandata dalla Svezia tramite un produttore, e Gilbert la fece entrare alla MGM.

E poi?
Facevo i provini, stavo in sala incisione, ma a un certo punto dico: ma tutta questa roba chi la canta? Pensiamo a Massimo Ranieri, che si era allontanato dalla musica. Lo contattai, andai a Milano e gli lasciai la cassetta. Dopo una ventina di giorni mi chiamò e mi disse: «È bellissimo. Mi dai il copione?». Noi non ce l’avevamo, il copione!

Ma come?
Perché era tutto nella nostra testa (ride, nda).

Però immagino fosse un bel periodo, pieno di creatività.
Una mattina squilla il telefono di casa, stavo dormendo, erano le 8 e mezza. Rispondo: «Sì?». Dall’altro capo del telefono: «Ciao, sono Pietro Garinei». Gli faccio: «Sì, e io sono Gesù Cristo». Riattacco (ride, ndr).

Cosa?
Pensavo fosse uno scherzo.

Immagino tu abbia capito che non si trattava di una burla.
Esatto. Garinei mi richiama e mi fa: «Che dici, riesci a venire qui subito?». Ancora mezzo addormentato, mi faccio una doccia e corro. Arrivo al Teatro Sistina e Garinei in persona mi fa: «Sai quanti ci mandano musical? Migliaia. Sai a quanti ho telefonato? Nessuno. Sei il primo».

Una bella soddisfazione.
Mi ringraziò, però disse: «Per fare questo spettacolo dovete inventarvi un servo comico, un servitore dell’attore protagonista». Gli dissi: «Maestro, non si può fare. Lo spirito dello spettacolo è un altro». E quindi con lui non si fece. Poi però con lo spettacolo al Sistina ci andammo. Un altro produttore di Napoli non volle produrlo salvo poi, anni dopo, pentirsi amaramente.

Mi parlavi di G&G, il musical su Greta Garbo.
Sì, l’ho scritto commissionato dallo Stadsteatern di Stoccolma. Il direttore era venuto in Italia a vedere Hollywood e mi ha chiamato per fare un musical sulla Garbo. È stato in scena un anno e mezzo.

E tu sei stato lì?
Ho dovuto vivere tanto a Stoccolma, ma loro lavoravano molto poco.

In che senso?
Abbiamo fatto quattro mesi e mezzo di prove. Un’enormità. Quando lo dissi a Peppino Patroni Griffi rispose: «L’arte non si fa la mattina».

Ma perché, come funzionava?
Si cominciava alle 10, alle 11 e mezza pausa caffè. Poi all’una e mezza pausa pranzo. Alle 3 tutti via: dovevano andare a prendere i bambini a scuola per poi mangiare insieme e tornare a casa. Ovviamente sabato e domenica pausa. Anche starci nel weekend era complicatissimo, si ubriacavano tutti. Quindi decisi di tornare a Roma nel fine settimana.

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Come hai vissuto quando il successo è venuto meno?
Il problema, se vuoi sapere la verità…

Sono qui per questo.
Tutto è accaduto quando mi sono sposato con una ragazza di Firenze. Il mio errore è stato pensare: «Tanto, se vivo a Roma o a Firenze è uguale: ovunque sto io sono Gianni Togni».

Non era così?
No, una volta spostato, dopo due anni che stavo a Firenze, ho capito la grande differenza: se non stai in quel mondo, perdi i contatti, perdi un po’ tutto. Fai un’altra vita, e cambia.

E allora?
Sono ritornato. Ho firmato con la CGD e ho tirato fuori Cari amori miei. Tornai nei primi posti delle classifiche e quel brano mi ha ridato tutto.

Nella tua carriera c’era qualcosa che stava per succedere e poi non è successa?
Moroder si era innamorato di Segui il tuo cuore e ne voleva fare una versione sua, venne in CGD, ma la major non gli ha dato il permesso di farla. Non ne ho mai saputo il motivo.

Se ti chiamassero a Sanremo come superospite, ci andresti?
Come ospite, sì. In gara, no.

Neanche con un duetto o qualcosa di nuovo?
Non mi piacciono le gare.

A Sanremo, forse, più della gara conta dare risalto a un progetto forte.
Al festival ci dovrebbero andare quelli più giovani. Noi dobbiamo fare altro: cercare di dare qualità, di profondità a certe cose, perché purtroppo a volte i giovani non hanno la possibilità di farlo.

Perché non gliela danno?
Secondo me ci sono artisti molti bravi, ma se vuoi sopravvivere in un mondo così veloce, devi conquistare l’ascoltatore. Io lo dico sempre: se oggi uscisse Luna, non avrebbe lo stesso successo.

Come mai?
È una canzone atipica. Adesso è ancora un grande successo, come lo sono Semplice, Giulia, Segui il tuo cuore, Cari amori miei, pezzi un po’ atipici… vivono ancora perché arrivano dal passato, come Bohemian Rhapsody, no? Era una canzone atipica. Forse, se uscisse oggi, non avrebbe lo stesso successo.

Perché?
Perché osare è complicato. Dobbiamo farlo noi che siamo indipendenti, abbiamo successi alle spalle. E possiamo permetterci di andare fuori dalle righe e prendere altre strade. Per seguire il proprio istinto e dare sempre qualcosa di nuovo a chi ci segue.

Non per rintuzzare, ma al festival ci sei stato una volta…
Come autore e produttore di Ti parlerò d’amore, il brano con cui Massimo Ranieri gareggiò nel 1997.

Ti hanno chiesto di gareggiare?
Me l’hanno chiesto, ma non vado.

Chi te l’ha chiesto?
Non c’è stato un momento preciso, ma avrei potuto partecipare sicuramente, se avessi presentato un brano.

Però un pezzo lo presentasti a Pippo Baudo che ti disse di no.
Lì fu un’altra cosa: avevo un contratto con un’etichetta discografica che non esiste proprio più, la DSB, che era della Germania dell’Est. Loro mi volevano portare a tutti i costi al festival e ho detto: «Sentite, fate come vi pare». Baudo, per fortuna, non prese il brano.

Negli anni ’90 hai provato a partecipare?
Il contratto con la CGD si chiuse alla fine degli anni ’90, proprio perché loro volevano che io partecipassi a Sanremo. Dopo Cari amori miei volevano andassi all’Ariston perché mi avrebbero preso, ma dissi chiaramente che io, alla manifestazione, non volevo andare.

Faresti il giudice in un talent?
Sì, forse sì.

Pure quella è una gara.
Sì, ma per far uscire qualcosa di nuovo.

Hai iniziato come supporter di Amanda Lear, dei Rockets, di Cocciante. E soprattutto dei Pooh che descrivi come molto precisi.
Il problema era questo: Stefano D’Orazio era veramente un preciso pazzesco sul palcoscenico: non ci doveva essere nulla fuori posto e mi ha insegnato molto da questo punto di vista.

Hai un aneddoto a riguardo…
All’epoca la scritta “Pooh” saliva alla fine del concerto ed era tirata su con delle manovelle da due tecnici che dovevano andare a tempo insieme per farla salire esatta, molte volte risultava storta, ma un bel po’ storta.

E allora?
Stefano mi pregò di scendere in sala alla fine di ogni live – io studiavo in camerino per l’università – per controllare che la scritta “Pooh” salisse nel modo corretto. Avevo paura che, se avessi detto la verità, sarebbe stato mandato via qualcuno, dicevo sempre che era tutto ok. Stefano allora rispondeva «A me sembrava storta». Rispondevo che la guardava da un’angolazione diversa (ride, nda).

Chi potrebbe essere il tuo erede?
Diodato mi piace molto, scrive bene, mi sembra faccia delle cose interessanti. E mi pare attento agli altri in un mondo pieno di «esisto solo io».

C’è stato un momento nella tua carriera in cui hai pensato di smettere con la musica?
Mai. Però mi ero stufato di essere Gianni Togni, di fare sempre il cantante.

Addirittura.
Mi sento un artista che può fare il musical, le colonne sonore dei film – ne ho fatte diverse, ho avuto anche un premio al Montecarlo Film Festival per la pellicola E guardo il mondo da un oblò – cose così. Mi piace stare dietro le quinte. Volevo abbandonare un po’ l’immagine di Gianni Togni, non sono una popstar.

Fa strano sentirlo.
Sì, ma come vedi vado poco in televisione, perché devo andare a cantare sempre le stesse canzoni.

Però adesso hai rifatto un disco di canzoni già edite.
Sì, ma l’ho fatto solo per un motivo: ho imparato qualcosa rilavorando sui nastri originali.

Durante un incontro con la stampa hai detto che Luna è influenzata da Bowie…
Be’ sì, se la vai a sentire, quel pianoforte… è tra Bowie e Supertramp, quel mondo lì che alla fine degli anni ’70 ci aveva colpito tutti. Gli Yes, i Toto, Crosby Stills Nash & Young rappresentavano una cosa importante musicalmente. Amavo anche i Beatles, ma dopo il loro ultimo disco, nel 1970, mi sono appassionato al progressive, soprattutto quello inglese: Genesis, King Crimson, Van der Graaf Generator, Hatfield and the North.

Un artista moderno che ti influenza?
Bon Iver. Tutti i suoi dischi li studio a memoria. Spero non smetta: riesce ad avere grandi melodie e innovazione. Un altro che ho scoperto da poco è il chitarrista Mk.gee: fa cose veramente particolari.

Tra gli italiani?
Lucio Corsi scrive dei testi molto belli, anche Iosonouncane mi piace molto.

Sei molto attento.
Guarda, ti racconto una cosa di tanti, tanti anni fa che mi è venuta in mente: alla PolyGram, mi chiesero: «Qual è l’artista che melodicamente ti piace di più?». Feci il nome dei Nirvana. Mi risposero «Ma che stai a dire?». Dissi loro di non guardare l’arrangiamento, ma il senso delle canzoni. Dopo qualche anno esce l’unplugged per MTV.

E…?
A quel punto li chiamo e dico: «Lo avete sentito il disco dei Nirvana?». Mi diedero ragione.

Cosa non ti piace della musica italiana?
Sono sincero, secondo me c’è gente che potrebbe essere artisticamente più elevata, ma fanno questi rap un po’ tutti uguali. Sembra veramente che si passino le basi anche se poi ci montano qualcosa di diverso. Il rap nasce negli Stati Uniti dalla gente povera che non poteva permettersi uno strumento per suonare, faceva ritmi coi bidoni della spazzatura, declamando i testi. Chiamare rap quello che fanno oggi mi sembra un po’ stravagante.

Ma qualche rapper italiano ti piace?
Uno bravo, che credo che sia nato da lì, è Achille Lauro.

Ti sei mai sentito sottovalutato dall’ambiente discografico?
Quando è uscito Bersaglio mobile, secondo me un grandissimo disco. Però siccome io ero Gianni Togni, quel progetto non lo potevo fare. Lì ho capito quanto è difficile. E non so come ci siano riusciti – e li apprezzo moltissimo – Jovanotti, che era partito con Gimme Five o Zucchero, che ha cominciato con le canzoncine e poi è passato al blues. Io non sono stato accettato dalla critica.

Ti sei mai chiesto perché?
Probabilmente non avevo uffici stampa abbastanza bravi.

Un amico nel mondo della musica?
Massimo Ranieri. Non lavoriamo più insieme, ma ci sentiamo in continuazione, parliamo di tutto.

Un dispiacere legato a qualche collega?
Ho perso un po’ di vista i Pooh e mi è dispiaciuto. Ho rivisto Stefano prima che morisse, a una festa di amici, ogni tanto ho risentito Red, ma sono quelle cose che finiscono… non so come mai.

È bello capirci (senza essere uguali) fa subito pensare alla situazione mondiale fatta di guerre e disaccordi.
Non riesco a capire come un mondo che doveva diventare sempre più democratico, aperto, attento agli altri, improvvisamente – con questi stramiliardari che potrebbero comprarsi il pianeta intero – stia diventando una lotta senza confini. C’è un egoismo folle, un ritorno a volere il potere a tutti i costi senza capire il prossimo e le sue esigenze.

Oggi che artista sei?
Molto libero. Ho avuto la fortunata idea di un’etichetta mia all’inizio degli anni 2000: avevo capito che stava cambiando qualcosa.

Cosa?
Le multinazionali cominciavano ad accorparsi, infatti sono rimaste tre.

Se ti guardi indietro?
Mi sento molto bene, sono contento del mio passato, ma sono altrettanto contento del mio presente, credo di aver fatto degli album interessanti, rispecchiano il mio modo di essere.

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