Rolling Stone Italia

A casa di Bruce

Nell'autobiografia "Born To Run" Springsteen non nasconde (quasi) nulla: dai traumi dell'infanzia al futuro della E Street Band. E dice: «Sono nato nel momento giusto»

Bruce Springsteen arriva fischiettando. Regge con cura un paio di giacche di pelle per un servizio fotografico, e sembra un po’ stanco, forse perché solo 36 ore prima era in uno stadio fuori Boston per l’ultimo di una serie di concerti di oltre quattro ore insieme alla E Street Band. Una settimana prima del suo 67esimo compleanno, Springsteen è tornato alla sua fattoria a Monmouth County, New Jersey, in un pomeriggio terso di metà settembre – tanto piacevole da giustificare la lealtà verso il suo spesso bistrattato Stato di origine. Ha un pizzetto leggermente grigio, ed è vestito come ti aspetteresti: maglietta nera col collo slabbrato, jeans scuri e stivaletti.

È appena arrivato da casa allo studio, ospitato in una struttura simile a un garage ricoperta di legno chiaro. Nel complesso, qualcosa di molto diverso dal quattro piste usato per registrare Nebraska.
La sala principale è stracolma di cimeli, la maggior parte dei quali dedicati a Elvis Presley o a Springsteen stesso (un cuscino di Greetings from Asbury Park, N.Y. sul divano e provini di Bruce e Clarence dalla seduta fotografica di Born to Run sul muro). La stanza è stipata di libri, molti dei quali sulla musica: dall’autobiografia di Chuck Berry alla storia del soul scritta da Gerri Hirshey, Nowhere to Run, fino a When We Were Good, uno studio sul folk revival degli anni ’60.
Springsteen ha appena scritto un’aggiunta perfetta alla propria collezione, Born to Run: autobiografia lucida, genuina e ricca di aneddoti. Insieme a storie rock&roll (niente droghe, un po’ di sesso e non più di una chitarra spaccata), offre una ricetta psicologica per creare una superstar masochista: una nonna troppo credente; un papà represso, in realtà affetto da una malattia mentale, sotto la maschera del semplice e caparbio lavoratore edile; e un’instancabile mamma fedele all’ethos “non è un peccato essere felici di essere vivi”.
In un salotto soleggiato, le cui finestre danno sulla distesa verde della proprietà, Springsteen discute la genesi del libro, le sue lotte con la depressione, il futuro della sua carriera e molto altro, tacendo solo su un argomento. Quando accenno al mio orrore alla vista del governatore del New Jersey Chris Christie, sostenitore di Donald Trump, che alza il pugno cantando “poor man wanna be rich, rich man wanna be king” durante un concerto recente a Brooklyn, Springsteen ride a crepapelle. Quando riprende fiato, dice solo: «No comment».

Allora, perché un’autobiografia?
È successo quasi per caso. All’inizio non la pensavo come un libro. Scrivevo di tanto in tanto, e sentivo che, se anche non ne avessi fatto niente, forse sarebbe piaciuta ai miei figli. La prima volta che ho riletto quello che avevo scritto ho pensato: “Non è niente male”. L’ho scritta a mano su alcuni quaderni, che poi ho accantonato per mesi. L’ho dettata a Mary Mac, la mia assistente, per poi riscriverla fino a che non mi è sembrata coerente e concisa. È diventata un progetto come un altro. Quando andavamo in tour, l’accantonavo ogni volta per un anno e mezzo circa. Una volta conclusa quella che è diventata la prima delle tre sezioni, mi sono detto: “Beh, ecco un racconto che potrebbe interessare alla gente”.

Quindi hai scritto in ordine cronologico?
Sì. Ho lasciato decantare un po’ la terza sezione. È stata la più difficile, perché scrivevo della vita che stavo vivendo e delle persone che ne fanno parte. Ci sono tante valutazioni diverse da fare.

Non hai esitato a includere eventi della tua vita che ridimensionano la tua immagine. Volevi incrinare un po’ la tua aura di santità?
Springsteen Sì, questa parte del mio personaggio mi ha sempre infastidito. È esagerata, e quando posso la intacco volentieri. Non fraintendermi, non l’ho deciso a tavolino, ho solo descritto una vita in tutti i suoi vari aspetti. Ma volevo che fosse soprattutto un libro sulla mia musica, e poi sulla mia vita. Se non mi andava di scrivere di qualcosa, non lo facevo. Non avevo regole, tranne una: volevo che il contenuto del libro si riferisse alla mia musica. Quindi, della mia famiglia e dei miei pensieri più intimi ho rivelato ciò che ritenevo centrale per capire un po’ le origini della mia musica. Non ho scritto tutto di me stesso. Non ho scritto di un sacco di cose.

Durante un concerto del 1990 qualcuno ha gridato: “Ti amiamo!”. E tu hai risposto: “Ma non mi conoscete davvero!”. Questo libro ci aiuta a conoscerti da vicino?
Tenderei a dire di sì. Ma, di nuovo, si tratta di una creazione, di una storia che ho tratto dalla mia storia. È una delle storie che ho tratto dalla mia storia.

Usi la parola “misoginia” per descrivere il tuo atteggiamento giovanile nei confronti delle donne. È un giudizio di sé che colpisce.
Anche se una descrizione di te non ti piace, devi accettarla. Ero carico di rabbia interiore. Quindi ho dovuto ripensare a come mi comportavo da ragazzo, e questo è l’unico modo in cui riesco a descriverlo.

Che cosa sai delle donne oggi, che allora non capivi?
(Ride). Cosa so delle donne che non capivo quando ero ragazzo? Oh, Gesù. (Ride, fa una pausa). Quando la mamma è felice, tutti sono felici. Quando la mamma non è felice, nessuno è felice.

Hai concesso a qualcuno il diritto di veto sulla sezione finale del libro? In particolare a Patti (Scialfa)?
Dovevo rivelare parti della nostra vita. Lei è un’artista e capisce questo aspetto del nostro lavoro. Ma è stato lo stesso molto coraggioso e generoso da parte sua, e le sono profondamente grato. Per tornare alla domanda di prima: quello che so delle donne lo devo a Patti. Quello che stavo cercando era consapevolezza, e lei è entrata nella mia vita e mi ha portato questa immensa dote fatta di visione, amore e sicurezza che prima non avevo. Lei è il mio grande amore.

Ci sono stati altri libri su di te. Cosa ne pensi?
Springsteen Non li ho seguiti da vicino. Chiaramente ho letto il libro di Dave Marsh (Born to Run) tanto tempo fa, negli anni ’70. E quello di Peter Ames Carlin (Bruce) che è uscito da poco. Sono tutti buoni, se sei interessato a diversi aspetti di me e a parti diverse della mia storia.

Mi è sembrato molto divertente che citassi il libro Down Thunder Road di Mike Appel, il tuo primo manager, che è molto negativo.
Beh, se t’interessa, c’è anche quello. Non ho problemi con i miei diversi ritratti.

Mi sono riguardato quel libro. C’è una didascalia: “Bruce nel 1989. Troppo vecchio per il rock”.
(Ride). Fantastica.

Una volta, dal palco, dicevi che tua madre voleva che diventassi uno scrittore. È vero?
Sì. Era quello che desiderava quando ero giovane.

Il tuo talento a scuola non era riconosciuto, quindi come faceva lei a vedere in te un futuro scrittore?
Ho iniziato a scrivere canzoni molto presto. A 15 anni scarabocchiavo già qualcosa, e immagino che per lei essere in qualche modo un autore fosse una cosa rispettabile. Comunque ero abbastanza bravo. Mentre non andavo bene nelle altre materie, in scrittura creativa o quando c’era da scrivere nelle ore d’inglese, me la cavavo eccome.

Sembra che tu sia stato un autodidatta abbastanza serio e rigoroso. Com’è successo?
È avvenuto molto naturalmente. Non ho mai deciso di dedicarmi ai libri o ad altro. Sono sempre stato curioso, ma a scuola ero troppo giovane per approfittarne, e le cose ci venivano presentate in maniera noiosa. Quando ho incontrato Jon (Landau), lui è stato un ponte verso i film e i libri. Mi sono messo a leggere cose che hanno toccato la mia anima. Molte erano di scrittori noir – James M. Cain, Jim Thompson, Flannery O’Connor. Poi ho iniziato a leggere libri di Storia. Ho letto Storia del popolo americano di Howard Zinn e un libro di Henry Steele Commager (Storia degli Stati Uniti). Una cosa tira l’altra, e in pratica sono diventato autodidatta. In questi giorni mi accorgo di quanto mi manca l’università. Ho perso l’occasione di vivere nel mondo delle idee quando ero abbastanza maturo per trarne profitto. Qualche anno fa, il mio amico Robert Coles ha tenuto un corso su Walker Percy ad Harvard. È stato divertente seguirlo, ed ero davvero a mio agio. Mi ha fatto venire voglia di iscrivermi all’università!

Bruce Springsteen insieme al padre

Quali scrittori hanno formato la voce che hai trovato per il libro?
Tutto quello che ho assorbito ha portato alla scoperta della voce giusta per me. Mi piacciono tutti i libri di Elmore Leonard, per esempio. Ma se si vuole fare qualcosa di originale non si può copiare.

I tuoi nonni paterni occupano uno spazio molto importante nella tua storia, ma su di loro hai scritto solo una canzone, mai pubblicata, Randolph Street (Master of Electricity).
Soltanto quella, è vero. Non credo che la canzone fosse molto buona. Ma catturava un po’ dell’intensità che provavo nei loro confronti. Non mi è venuto in mente di scrivere altre canzoni in proposito. Non decido io di scrivere su un soggetto. Scrivo di quello che, dentro di me, spinge per uscire.

Hai detto che Nebraska si ricollegava alla tua infanzia in maniera quasi spirituale ed emotiva.
Springsteen Direi di sì. Se si cerca un disco legato ai miei nonni, è quello. Rende l’idea di com’era all’epoca la nostra famiglia.

Le emozioni ridestate da Nebraska hanno aperto la porta alla depressione che ti ha colto dopo la sua realizzazione?
Forse. All’epoca avevo 32 anni. Avevo letteralmente appena finito Nebraska. Credo non fosse stato ancora pubblicato. Ed era un disco molto solitario. Potrebbe aver acceso la miccia, o magari il mio orologio biologico stava correndo comunque verso quel punto. Ognuno porta con sé il proprio bagaglio, ma durante il viaggio le valigie si appesantiscono sempre di più. A un certo punto il peso diventa insostenibile, e si cerca di disfare queste valigie in qualche modo. Allora può diventare un bel casino. Ecco cosa mi è successo.

Nelle tue canzoni, dove scorgi il lato deprimente del tuo carattere?
Nelle mie canzoni? Dentro un disco sì e uno no, probabilmente. (Ride). Ovviamente in The Ghost of Tom Joad e Nebraska; ma anche in Tunnel of Love, per esempio nella canzone Two Faces. Ho affrontato questo aspetto del mio carattere mentre mi alternavo tra quelli che si possono considerare dischi di gruppo e i dischi solisti. Se pensi a Darkness on the Edge of Town, anche lì ci sono cose deprimenti.

L’altro lato della medaglia è che il materiale cupo ci aiuta a credere nelle cose più leggere.
Questo fa parte dello scrivere una buona canzone. Deve esserci attrito e tensione, qualcosa a cui ribellarsi. È necessario a ogni scrittore. Credo sia stato Tom Stoppard, una volta, a dire che invidiava Václav Havel.

Esatto, a proposito di ribellarsi.
Quindi, se la parte trionfante della canzone doveva sembrare reale, e non semplicemente inventata, mi serviva qualcosa verso cui ribellarmi. È un equilibrio che ho semplicemente capito. Nasce dalla musica gospel, che è la musica della trascendenza. Volevo che la mia fosse musica della trascendenza.

Forse ti crediamo quando canti, “Credo nella fede che può salvarmi”, perché sembra che venga da qualcuno che potrebbe non averci creduto fino al giorno prima.
Esatto! O magari ci crede semplicemente in quel preciso momento, capito?

Curiosamente, uno dei pochi concerti che descrivi nei dettagli è il troppo reclamizzato concerto all’Hammersmith Odeon del 1975, che per te è stato molto difficile. Era il tuo primo viaggio in Inghilterra.
Qualcosa di opprimente a cui ribellarsi. È stato un incubo così sconvolgente che me lo sono trascinato per molto tempo. La sicurezza che credo di avere adesso quando salgo sul palco è dovuta ai molti anni che ho alle spalle. Ogni sera provo a cercare quel luogo, quel momento in cui improvvisamente sono solo con il pubblico; come se tutto il resto non ci fosse più, né il tempo, né lo spazio. Certe sere è più facile di altre. Ma ci riesco quasi sempre. E mi trovo in questo stato molto bello in cui comunico davvero. Ma è qualcosa che devo fare notte per notte. Anche dopo tutti questi anni.

Parli della capacità di controllare il tempo quando sei sul palco. Come la descriveresti?
Faccio un sacco di cose. Concentro tempo nella musica. Concentro anni in momenti, un’enorme quantità di esperienza in pochi minuti. Salto dalla giovinezza alla maturità, al punto che il tempo si distorce e si avvita continuamente nel corso di una serata. Il tempo è sospeso all’interno di ogni opera creativa. Crea il proprio tempo e spazio.

La depressione di cui dici di avere sofferto durante i primi anni ’60 ha influenzato la tua vita lavorativa?
Non molto. Non saprei dirti perché. Ma a volte mi sentivo completamente isolato e poi entravo in studio e semplicemente mi mettevo a lavorare. Scrivevo dischi.

Quante volte sei stato in tour in questo stato?
A volte è capitato durante i tour. E di solito non influenza né me quando sono sul palco, né le scelte che compio, ma può influenzarmi un po’ lontano dal palco. A volte posso sentirmi giù o confuso. È molto raro, dato che essere in tour è emotivamente e fisicamente molto catartico. Se ti sforzi al punto da essere fisicamente quasi esausto, sei troppo stanco per essere depresso, e questo potrebbe essere uno dei motivi per cui lo faccio da sempre. La testa non lavora freneticamente; non ha l’energia per mettersi a scavare nei dettagli. Anzi, è un’esperienza che libera la mente e dà equilibrio, senza lasciare quel vuoto in cui prospera la depressione.

In quei lunghi concerti c’era una sorta di elemento autopunitivo.
Ero un bravo ragazzo cattolico. Quindi c’era qualcosa del rituale purificatore.

Ma oggi sei arrivato al punto di fare le stesse cose da una posizione più sana?
Non ne sono tanto sicuro (Ride). Perché qualcuno dovrebbe suonare per quattro ore ogni sera? Mi verrebbe da dire che dipende ancora da quegli impulsi originali, e dal fatto che devo sempre dare tutto.

Nel libro c’è un passaggio in cui descrivi una cena con la famiglia di tua madre quasi come fosse uno dei tuoi concerti.
C’era spesso un grado d’isteria, forse tipico delle famiglie italiane, e di sicuro la mia non faceva eccezione. Gente che urlava e gridava. Ma anche un’incredibile quantità di allegria e questa straordinaria gioia di vivere. Una gioia a proposito di niente, se non della vita stessa.

Accenni a un sogno in cui dici a tuo padre: “Quel ragazzo sul palco, ecco come ti vedo”. Che cosa significa?
Dicono che emuliamo le persone alle quali non riusciamo ad avvicinarci. Quindi, fondamentalmente, ero un fannullone che, a parte strimpellare la chitarra, non lavorava mai. Ma quando andavo a lavorare, indossavo gli abiti di mio padre e per molti versi mi calavo nella sua parte, per poter essergli vicino, per comprenderlo. Ho capito questa cosa solo più avanti. Quindi, in quel sogno ero soltanto io che provavo a spiegare a mio padre: “Guarda, ecco dove ci ha condotto tutto questo, ecco dove mi hai portato, ed è così che ti vedo nel più profondo del cuore”.

Hai scelto di rendere universale la storia di tuo padre trasformandola in qualcosa d’altro. La realtà era troppo incasinata per un pezzo rock?
Springsteen Forse. O forse ero troppo influenzato da La valle dell’Eden e da questo genere di archetipi, e ho proiettato noi due in quei ruoli. Ecco perché nel libro dico che non sono stato molto corretto con mio padre, perché le nostre vite erano molto più complicate.

Scrivi che eri come traumatizzato da quello che succedeva a casa.
Springsteen si trattava solo di quello che faceva mio padre. Era la natura del mio rapporto con i miei nonni, molto intensa, forse ansiogena all’inverosimile. Non avevo nessuna valvola di sfogo per quella. Quindi, mi mangiavo le unghie fino alle ossa, o sbattevo le palpebre nervosamente.

Descrivi te stesso a 8 anni come una “femminuccia” e un tipo “strambo”.
Proprio così.

Come hai compiuto il viaggio da quel bambino “strambo” fino a essere la tipica rockstar molto virile, soprattutto negli anni ’80?
Credo sia stata una reazione alla mia infanzia; e ripensandoci mi sembra ovvio. Mio padre mi appariva come il tipico uomo molto mascolino. Faceva un lavoro manuale. Era il tipo di persona grossa e robusta. E, di nuovo, lo emulavo. Credo sia andata così. Ma anche lui aveva questa dicotomia. Credo che da giovane fosse simile a me. Intimamente debole. E negli anni ’40 e ’50 non si poteva sopravvivere così. Da bambino non gli era stata trasmessa la necessaria fiducia in se stesso per essere pienamente virile, e non intendo in senso ovvio o convenzionale. Per cui dovevo io stesso trovare un ordine in tutto questo, e quindi per farlo ho usato la mia musica e fatto del mio meglio.

Cosa hai provato a insegnare ai tuoi figli sul significato dell’essere un uomo?
Ho cercato di accentuare il mio lato più debole, mostrando che non bisogna vergognarsi di questo lato di se stessi e nemmeno temere di venir fraintesi. Proprio come bisogna sentirsi a proprio agio con l’altro lato.

Ci sono state tante volte in cui sei stato vicino al totale fallimento. Esiste un universo in cui torni nel New Jersey e diventi soltanto il leader della più grande band da bar mai vista?
Springsteen Si può essere davvero bravi e non farcela ugualmente. Immagino però uno scenario in cui questo avrebbe potuto succedere? No. (Ride). O forse, semplicemente, preferisco non pensarci. Ero un leone a caccia della preda. E, andando in giro, non ho trovato molte persone più brave di me. Ne ho viste un po’, sia chiaro. Anche se all’epoca ero molto isolato nel New Jersey. A volte, qualche rockstar di serie B passava in città, vedeva la band, diceva “Wow”, ma poi non succedeva niente.

E a volte, pare, andava a letto con la tua ragazza.
Sfortunatamente, sì. Anche quella parte è vera. (Ride). Per cui sapevo bene cosa volesse dire non farcela.

La canzone Backstreets sembra catturare quel periodo della tua vita. Che origine ha?
Solo la giovinezza, la spiaggia, la notte, le amicizie, la sensazione di essere emarginati e di vivere molto lontani dalle cose in questo piccolo avamposto del New Jersey. Parla anche di un mio rifugio personale. Non c’è nessun’altra cosa o relazione particolare dietro la canzone.

L’altra sera in concerto hai accennato alle elezioni. Che cosa hai capito del fenomeno Trump?
In pratica, la Repubblica è sotto l’assedio di un imbecille. Senza esagerazioni, è una tragedia per la nostra democrazia. Quando s’inizia a parlare di elezioni manipolate, si spinge la gente oltre un confine democratico. Una volta liberati, questi geni non ritornano così facilmente nella lampada. Se ci tornano. Le idee che Trump sta diffondendo tra gli americani sono tutte molto pericolose: il nazionalismo bianco, la destra alternativa. Sta facendo cose che per ogni precedente candidato politico sarebbero state di un’indecenza lampante. La loro candidatura sarebbe stata affossata all’istante. Credo che stiamo pagando il prezzo per non avere affrontato i costi reali della deindustrializzazione e della globalizzazione subìti dagli Stati Uniti negli ultimi 35-40 anni, né il modo in cui hanno segnato profondamente la vita delle persone, al punto da far desiderare qualcuno che prometta di avere una soluzione. E il fenomeno Trump è fatto di risposte semplici a problemi molto complessi. Risposte fallaci. E la cosa può essere molto attraente.

Cosa pensi di Black Lives Matter?
Beh, tutti i nodi vengono al pettine. Ci sono questioni ignorate o nascoste che vengono in superficie grazie alla moderna tecnologia, alla diffusione degli smartphone e ai video postati di continuo. Black Lives Matter è una reazione e una risposta naturale alle ingiustizie che avvengono da molto tempo negli Stati Uniti.

RS Perché è così difficile per i bianchi affrontare la questione? Perché c’è questa reazione violenta?
A nessuno piace sentirsi dire che sbaglia.

Negli anni ’80 hai provato a dissociarti da Reagan. Ma rispetto a quanto hai fatto in seguito, era un tentativo molto timido. Perché?
Forse non avevo la sicurezza necessaria.

Hai scelto di non fare niente per queste elezioni. Hai perso fiducia nella possibilità da parte tua di influenzare queste cose?
Non saprei. Credo che un intrattenitore, attore o musicista abbia un impatto limitato. Valeva la pena fare quello che ho fatto, all’epoca sentivo che il Paese era in crisi, proprio come adesso. Non so se siamo stati avvicinati o meno per fare qualcosa, al momento. Se sì, prenderei la cosa in considerazione, per vedere dove porta. No, non ho per niente perso la fede nel potere del rock, ma oggi credo che sia comunque limitato. Non penso che le persone seguano i musicisti per le loro idee politiche. Sono convinto che il proprio punto di vista dipenda dalle circostanze e da come una persona è stata educata e cresciuta. Ma vale la pena di provarci sempre, è l’unica cosa che puoi fare.

Allora forse non sei abbastanza convinto che Hillary sia all’altezza del compito?
No. Mi piace Hillary. Penso che potrebbe essere una presidente davvero brava.

Qual è per te l’età massima per suonare dal vivo? Paul McCartney, per esempio, di anni ne ha quanti? 76?
74.

74. E fa ancora concerti di tre ore. E tu, come fai a continuare?
Alla mia età non puoi che vivere alla giornata. Dipende da come ti senti fisicamente e spiritualmente: che cosa sei pronto a fare? Che tipo di sforzo e d’impegno vuoi ancora mettere in quello che stai facendo? Sto andando ancora al massimo, sono totalmente impegnato come quando avevo 16 o 21 anni. Posso ancora farlo senza problemi. Ma invecchiando capisci che c’è un senso del limite. E questo cambia la tua esperienza di ogni concerto. Puoi guardare in avanti e dire: “Ok, ho 67 anni. Tra 10 anni saranno 77. Cioè, ho ancora quattro o cinque tour, forse”. Puoi fare ipotesi, ma niente di più.

Sul palco hai detto che più invecchi, più tutto acquista senso, per te. È quello il senso del limite?
Springsteen È quello. È l’intensità che adesso il pubblico porta ai concerti; anche loro percepiscono questo limite. Lo puoi apprezzare maggiormente, e l’intera esperienza ne risente, in meglio.

Parliamo dei prossimi anni: l’idea è semplicemente quella di muoverti tra le tue varie modalità – E Street, solista, materiale d’archivio?
Sì. A questo punto, il mio piano è di continuare a fare tutto quello che faccio, con diversi intervalli. Mi piacerebbe tornare in tour da solo. E non vedo l’ora di suonare ancora con la band. Questo inverno andremo in Australia. Non ho nessun piano di lungo periodo, eccetto, semplicemente, continuare la mia vita lavorativa.

Hai detto di avere pronto un disco influenzato dalle collaborazioni di Glen Campbell e Jimmy Webb.
Springsteen Non voglio sottolineare troppo le influenze, perché la gente poi potrebbe sentirlo e invece dire: “Che cosa c’entra con loro?”. Alla fine si tratta di una specie di spazio dove ho trovato l’ispirazione.

Cosa avresti detto a Elvis quando hai scavalcato il recinto di Graceland negli anni ’70, se lo avessi incontrato?
Avrei probabilmente provato a vendergli una canzone, Fire. A parte questo, non ho proprio idea. Non sono nemmeno sicuro di cosa stessi cercando.

L’Elvis ingrassato ti ha ossessionato? Magari rappresentava l’esempio preciso di quello che non volevi diventare?
Ho visto Elvis poco prima che morisse e ricordo che il concerto mi era piaciuto moltissimo. Ognuno disegna la propria mappa, e le persone guarderanno alla mia e troveranno cose che approveranno e altre che non vorranno seguire. Ho avuto così tanto da Elvis in termini d’ispirazione! E ammiro ancora oggi quella voce così intimamente giusta fino all’ultimo. Nessuno ha una vita facile.

Allo stesso tempo, segui una specie di contro-filosofia del genere: “Mantieniti forte, affamato e vivo”.
Ci sono un sacco di distrazioni lungo la strada, e molti luoghi dove perdersi. Ne sono stato consapevole grazie a quelli che sono venuti prima di me. Ho lavorato davvero duro per evitare alcune di queste trappole, e sto ancora molto attento.

Hai scritto che la E Street Band ha dato il suo meglio in studio con The River. Ma dopo un altro album insieme, hai atteso 18 anni per il successivo. Non è un po’ strano?
È il modo in cui suonavamo. Credo che con The River avessimo finalmente imparato a registrare un disco, anche se ne è venuto fuori una specie di casino. Ma stavamo ottenendo il suono che volevamo, e la cosa è proseguita fino a Born in the U.S.A. Quest’ultimo ha rappresentato un tale evento di rottura, che dopo non sapevo esattamente dove andare con la band. Allora ho preso un’altra direzione. Inoltre volevo ridimensionare subito le cose, perché non mi piace giocare a: “Devi fare sempre meglio e vendere sempre di più”. Non voglio diventare quel genere di artista.

Ciò detto, cosa pensi delle basse vendite di Human Touch e Lucky Town nel 1992, che si sono scontrati direttamente con il grunge?
Mi pare che i Nirvana siano esplosi nel momento dell’uscita di quei dischi. Ricordo che all’epoca Jon era nervoso perché i dischi non andavano come speravamo. Abbiamo parlato: “Jon, non è il nostro momento, tutto qui. Ci rifaremo un’altra volta”. E se vivi a lungo, anche dal punto di vista lavorativo, queste cose capitano. A volte, semplicemente, non è il tuo momento, ma quello di qualcun altro.

Parli di The Ghost of Tom Joad del 1995 come di un punto cardinale per tornare a descrivere un mondo più ampio. Perché hai evitato l’attualità per così tanti anni?
Se fai quello che faccio io – o comunque sei una persona creativa – sei sempre dentro una scatola: sei un artista dell’evasione, punto. Costruisci la tua scatola e poi scappi. Ne costruisci un’altra, e scappi anche da quella. È un continuo. A un certo punto, ti ritrovi di nuovo dentro alla prima e ti dici: “Ehi, non pensavo di avere altro da dire in proposito e invece… aspetta… Sì, ho molto altro da dire!”.

Come trovi l’equilibrio tra la magia che si sprigiona quando sei con la E Street Band e la realtà quotidiana dell’essere il Boss?
Si deve accettare il fatto che con il passare del tempo diventa un lavoro. Se non lo si accetta, andrà tutto a farsi fottere nel peggiore dei modi. Quindi, è un bene per tutti riconoscere che si tratta di un aspetto del rapporto reciproco, e relazionarsi di volta in volta da amici e da persone adulte.

Scrivi che all’inizio ti servivano discepoli piuttosto che collaboratori. Nel senso di una dedizione totale?
Proprio così. Io avevo delle pretese assurde e quindi, forse, in cambio, si pretendevano cose assurde da me. (Ride). Ma è così che eravamo allora. Io ero un giovane insicuro. Quindi il mio bisogno di dedizione totale dalle persone con cui lavoravo era davvero molto grande. Queste cose si sono attenuate nel tempo. Ora ci poniamo dei sani limiti, che da giovani non avevamo.

In studio contrapponevi deliberatamente Steve Van Zandt a Jon. Da dove veniva l’istinto di fare qualcosa di tanto…
…di tanto subdolo? (Ride).

In realtà, stavo per dire: sofisticato, machiavellico. Ma mettiamola pure così.
Derivava molto naturalmente da quella parte di me che è spietata nella ricerca della mia canzone. Comunque poi loro hanno fatto squadra, impegnandosi completamente, e alla fine, sai che c’è? Siamo tutti adulti e vaccinati!

Dici che tu e Clarence Clemons non potevate frequentarvi, perché ti avrebbe rovinato la vita.
Clarence aveva uno stile di vita vita sfrenato, ed era fantastico. Ma non era roba per tutti. Lui era un’anima grande.

Quindi hai amicizie intime che non si traducono in frequentazioni costanti?
Certo. Quando s’invecchia si è presi dalla famiglia. È una gioia immensa quando sono con Steve, per esempio. Ma non ci vediamo spesso. Ed era una gran gioia stare con Clarence. Era una delle persone più divertenti sul pianeta. E poi, quello che si faceva insieme era così profondo. Quindi non mettevamo mai in dubbio la nostra amicizia o la lealtà reciproca. Ciò non significa che bisogna cenare assieme ogni sera.

Scrivi che l’opinione di Steve poteva essere destabilizzante all’interno del gruppo.
È un uomo forte, quindi le sue opinioni hanno molto peso. È anche molto più sfacciato di me. Se sei a capo di un’organizzazione, una personalità forte può esser dirompente. Ma questo fa parte da sempre del nostro rapporto. Io ho bisogno di qualcuno così, e credo di aver avuto lo stesso ruolo nella sua vita.

Ti aspettavi più successo da Wrecking Ball e ne hai dedotto che le persone non guardano più al rock per questo genere di prese di posizione.
Il rock, al momento, non è il veicolo principale per comunicare queste particolari idee. Le radio sono dominate da una specie d’incrocio tra pop e hip hop che è il veicolo attuale per fare discorsi culturali.

E questo come ti fa sentire?
Così stanno le cose. Il pop si muove e si trasforma in continuazione. C’è ottima musica adesso. Kanye West fa dei dischi stupendi. Kendrick Lamar è incredibile. Ma, in questo momento, in un garage c’è qualcuno con una chitarra che probabilmente sta immaginando qualche altro modo per reinventare il rock, un altro posto dove portarlo. È sempre stato così.

Con il senno di poi, perché il rock&roll ha rappresentato una forza di trasformazione così potente nella tua vita? E nel mondo in generale?
Tutto è nato con l’esplosione di ciò che fino a quel momento era stato represso. Quindi, quando Little Richard, Chuck Berry, Elvis e Jerry Lee Lewis hanno fatto la loro comparsa, questa cosa che era stata trattenuta di colpo si è sparsa nell’etere, in tutto il mondo, permettendo alle persone di vivere con parti del corpo e dello spirito prima impossibili. Tutto questo, in un periodo in cui la religione veniva messa in dubbio. C’era quindi un aspetto secolare-spirituale, fondato sulla beatitudine, sulla gioia, sul personale trascendere dalle circostanze. Il rock&roll è arrivato nel momento in cui il sogno americano, il mito del successo e del realizzare se stessi stavano morendo. È stato una forza potente, che si è presentata quando la Storia ne ha avuto bisogno.

E anche quando tu ne avevi bisogno.
Sono nato al momento giusto.

L’intervista è stata pubblicata su Rolling Stone di novembre.
Potete leggere l’edizione digitale della rivista,
basta cliccare sulle icone che trovi qui sotto.

 

Iscriviti