A 33 anni, Amy MacDonald ha già paura di diventare vecchia | Rolling Stone Italia
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A 33 anni, Amy MacDonald ha già paura di diventare vecchia

Ricordate l'hit 'This Is The Life'? Sono passati 12 anni, mode e suoni sono cambiati, ma la cantautrice è rimasta fedele a sé stessa. «Media e discografici pretendono che le donne siano eternamente giovani»

A 33 anni, Amy MacDonald ha già paura di diventare vecchia

Foto: Roger Deckker

Era il 2008 quando Amy MacDonald, con la sua This Is The Life, volava in cima alla classifica dei singoli più venduti in Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Olanda, conquistando la top 10 in diversi altri Paesi, Italia compresa. All’epoca la songwriter scozzese aveva 21 anni: non molto prima aveva firmato il suo primo contratto discografico e d’un tratto si ritrovò alle prese con un successo inaspettato e un album d’esordio intitolato anch’esso This Is The Life, che sulla scia di quell’hit sarebbe finito al numero uno nel Regno Unito e non solo.

Dopo quel fortunato debutto incentrato su un folk-rock dalle venature country, in cui qualcuno aveva sentito echi dei Cranberries di Dolores O’Riordan, qualcun altro dei Travis, di Suzanne Vega e di Sinéad O’Connor, MacDonald ha pubblicato altri tre album e ora rieccola con The Human Demands, la sua quinta prova in uscita il 30 ottobre: dieci tracce prodotte da Jim Abbiss (Arctic Monkeys, Kasabian, Tom Odell, Adele) e caratterizzate da melodie orecchiabili e arrangiamenti pop-rock su cui si staglia la voce corposa della cantante oggi 33enne. «Le ho scritte prima della pandemia, il Covid è arrivato dopo e anche se ci ha costretti a interrompere i lavori sul disco per alcune settimane sono contenta di essere poi riuscita a tornare in studio».

Che cosa significa questo titolo, The Human Demands?
La canzone che dà il nome all’album è una riflessione sulla vita e sul dolore, e in particolare sul fatto che quando non stiamo bene pretendiamo troppo da noi stessi. Vogliamo essere sempre felici, vogliamo andare sempre alla velocità massima, ma forse è troppo: la vita è fatta di alti e bassi, è giusto combattere, ma è altrettanto importante saper accettare i momenti no e soprattutto riconoscere che non siamo perfetti.

Secondo te quest’ossessione per la perfezione da dove arriva?
È da quando sono nel mondo della musica che mi sento giudicata e purtroppo quei giudizi riguardano spesso l’aspetto fisico. Il corpo delle donne viene spesso oggettivato e ovviamente più sei esposto più accade. Detto questo, oggi le critiche colpiscono un po’ tutti, qualsiasi cosa si faccia. Colpa dei social, basta farsi un giro su Instagram per rendersi conto di quanto questa tendenza a giudicare chiunque e qualsiasi cosa sia diffusa e metta sotto pressione i giovani: è come se dovessero sempre, costantemente, adattarsi a degli standard e non credo faccia bene.

Tu hai avuto successo verso i 20 anni: quanto ti senti cambiata rispetto ad allora, come cantautrice?
Ai tempi ero praticamente un’adolescente, dovevo ancora fare esperienza. Sicuramente in tutti questi anni qualcosa è cambiato, ma più per motivi anagrafici e perché con il passare del tempo si cambia modo di vivere, non per altro. A parte questo, quando scrivo scavo sempre nelle emozioni. Certo, avere con me un produttore che ha lavorato a grandi dischi come Jim mi ha stimolata, mi ha dato una grossa spinta, credo che questo disco sia più coraggioso. Ma ripeto, il mio approccio alla scrittura non è così diverso rispetto agli inizi. Del resto, non amo chi cambia per piacere agli altri, il mio obiettivo è essere fedele a me stessa: voglio che le canzoni mi rispecchino, quando faccio musica mi preme essere sincera rispetto a ciò che sono.

Hai 33 anni e canti che hai paura di invecchiare: non è troppo presto?
Il fatto è che sono nel music business da molto tempo. E mai come adesso ogni due secondi salta fuori roba nuova, è come se si fosse costantemente a caccia della next big thing, va tutto così veloce… In più essere donna rende l’idea del trascorrere del tempo ancora più difficile, perché è come se i media e l’industria discografica pretendessero un’eterna giovinezza. Ma insomma, si cresce, la vita è fatta di varie fasi e desidero davvero che i miei dischi riflettano il mio percorso come persona.

Qual è stato il momento più difficile all’epoca del successo di This Is The Life?
Sai, è successo tutto così rapidamente ed ero così giovane che non ho nemmeno avuto il tempo, all’epoca, di farmi chissà quali domande o di riflettere. Nessuno ti spiega e nessuno può spiegarti cosa accade quando diventi famoso, quindi non si è mai preparati, figuriamoci a quell’età. Quando sei una teenager o poco più e all’improvviso ti ritrovi sui giornali, in tv, alla radio e tutto il resto naturalmente sei contenta, ma ciò non toglie che non sia facile: ti senti sotto osservazione. Però penso di essere stata fortunata, attorno a me ho sempre avuto persone di cui potevo fidarmi e questo ha fatto la differenza.

In questo tuo quinto album c’è un pezzo, Fire, che hai dedicato a tuo marito, il calciatore Richard Foster: quanto è difficile fidarsi, in amore, se si è personaggi pubblici?
Non si può vivere pensando se puoi fidarti o meno di qualcuno e mio marito ha fatto in modo che mi fidassi. Con il matrimonio, due anni fa, la mia vita è cambiata, è stata una svolta importante: quando ti sposi cambiano le priorità e acquisisci sicurezza, anche per questo oggi mi sento più a mio agio col mio percorso musicale.

E del singolo The Hudson cosa puoi raccontare?
Ho scritto quel pezzo pensando ai racconti di mio padre ambientati negli anni ’70, quando lui e mia madre erano giovani e viaggiavano molto, con l’incoscienza tipica di quando hai tutta la vita davanti e non sai cosa ti aspetta. Una volta sono andati in aeroporto e hanno preso un volo per New York, così, senza programmi, senza aver pianificato nulla, e immaginarli fare cose del genere, oltre a divertirmi, mi ha ispirata. Dopodiché la canzone parla anche di quei momenti in cui, una volta adulto, ti guardi indietro e ti chiedi se hai preso la strada giusta, che cosa saresti diventato se le cose fossero andate diversamente. Sono domande che viene naturale porsi quando si pensa al proprio passato, mi capita spesso di chiedermi per esempio come sarebbe stata la mia vita senza la musica. Naturalmente non ci sono risposte.

Qual è il ricordo musicale più significativo della tua infanzia?
Ne ho tanti, per fortuna. Ma direi il primo concerto cui ho assistito: una tappa del Dangerous Tour di Michael Jackson allo stadio di Wembley, era il 1992.

E le tue maggiori influenze?
Una molto importante è Bruce Springsteen. L’ho amato sin dalla prima volta che ho ascoltato Born in ihe U.S.A.: è uno dei migliori storyteller al mondo e un performer incredibile, adoro vederlo sul palco, ascoltare i suoi dischi, quando ho bisogno di tirarmi su di morale la sua Waitin’ on a Sunny Day è l’ideale.

Parlando di ascolti hai dichiarato di amare anche Libertines, Arctic Monkeys, Oasis, Travis. Non c’è una donna che consideri una sorta di modello?
È che le donne hanno avuto meno spazio per diventare grandi nomi ed è seccante. Però sceglierei Annie Lennox e Debbie Harry dei Blondie, donne che sono riuscite a conquistare la scena quando farsi ascoltare era indubbiamente meno semplice di adesso.

Hai tanti tatuaggi: cuori, rose, teschi, stelle. Ne hai fatto qualcun altro di recente?
Sì, ne ho uno nuovo dedicato al mio cane, il mio piccolo schnauzer di nome Arnold che purtroppo è morto di recente, alla fine di agosto.

E adesso qual è la sfida più grande?
Data la pandemia, non abbattersi. Anche se non è possibile fare programmi con la certezza di poterli realizzare: è questo l’aspetto più difficile. Avrei potuto rimandare la pubblicazione di The Human Demands, ma sono sempre in contatto con i miei fan via social e questo mi ha spinto ad andare avanti con ciò che avevo in programma: c’è sempre bisogno di musica.