In tour con Don Antonio: leggi un racconto tratto dal libro ‘La bella stagione’ | Rolling Stone Italia
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In tour con Don Antonio: leggi un racconto tratto dal libro ‘La bella stagione’

'La bella stagione' è sia un album di Antonio Gramentieri che uscirà il 16 aprile, sia un libro di cui potete leggere qui un estratto, la descrizione di un concerto del 2019 negli Stati Uniti con Alejandro Escovedo

In tour con Don Antonio: leggi un racconto tratto dal libro ‘La bella stagione’

Antonio Gramentieri

Foto press

La bella stagione è un album di Don Antonio che uscirà il prossimo 16 aprile per Santeria/Audioglobe, ma è anche una raccolta di racconti disponibile da oggi per Gagarin Edizioni. Don Antonio è l’alter ego di Antonio Gramentieri, un americano immaginario per usare un’espressione di Greil Marcus, un musicista italiano titolare fra le altre cose del progetto Sacri Cuori che ha suonato sul palco e in studio con Alejandro Escovedo, Dan Stuart, Hugo Race, Terry Lee Hale e molti altri. La bella stagione è il primo album di canzoni in italiano come Don Antonio.

«Ho raccontato una storia, che è sempre la mia, con due materiali diversi», spiega. «La scrittura e la musica sono stati gli unici mestieri della mia vita, ogni ricordo e ogni storia ha deciso autonomamente se diventare canzone, e in quel caso è finita nel disco, o un racconto. E in quel caso la trovate nel libro».

Il racconto che segue tratto da La bella stagione si intitola Sister Lost Soul e parla di una serata del tour americano 2019 insieme a Escovedo. «I racconti di La bella stagione» spiega Gramentieri «parlano di incontri, o di piccoli accadimenti, in cui si percepisce o si intravede un segno, una cicatrice, una interruzione della continuità. Un punto in cui le cose sono andate diversamente dai piani, e hanno preso altre strade. In cui si è diventati qualcosa di diverso da quello che si pensava. Raramente sono momenti eclatanti, ma a loro modo sono sempre decisivi, hanno una loro luce e un loro mistero. Mi ha sempre incuriosito riconoscerli, esplorarli e raccontarli».

Pedro sta raccontando ancora quella sua vecchia storia. Ogni sera la rispolvera e la infioretta un po’, poi lancia la canzone che parla di tornare in Texas a San Antonio e starsene lì in attesa della pioggia, come ai vecchi tempi. Ci mette dentro scarpe da ballo e illusioni, speranze e lavoro duro: argomenti con una certa presa.
La gente ascolta in silenzio. Una donna all’improvviso perde le staffe.
«Adesso basta, smettila di parlare, suonaci della musica» grida.
La frase le esce aggressiva, in ottava alta, fuori registro, e provoca un istante di imbarazzo e di assoluto silenzio nel locale. Alle pareti ci sono tre affreschi, due rappresentano dei cowboys e uno una coppia che danza. Una cosa del dopoguerra.
Lui sembra disorientato, poi le risponde. Parla al microfono, sorride, la invita a essere paziente e ribadisce a lei e al resto del pubblico – questa sera molto numeroso – che c’è una storia da raccontare e adesso finirà di raccontarla. Applausi. Sinceri scroscianti applausi.
L’incidente ha un rimbalzo, un botta e risposta fra palco e platea. Pedro è risentito, ma sembra avere pudore del suo ruolo, del piedistallo su cui si trova, della sua voce riverberata che esce dalle casse. Con lo sguardo offre alla donna una tregua che salvi la faccia a entrambi. Ma lei è troppo fuori squadra per capirlo e rientrare alla base. Anziché lasciar perdere, risponde. Probabilmente ha esagerato con il bere, o con qualche pillola. Comincia a discutere con la gente seduta intorno a lei. Più la invitano a fare silenzio, più lei grida.
Allora Pedro decide di tagliare il finale del monologo e passa subito al brano successivo in scaletta. La canzone parla di un’America meravigliosa e malata, America dei sogni, America impossibile. America che alla fine svela la sua violenza primitiva, inevitabile, e prende la forma di una pozzanghera di sangue. La canzone viene fuori coi nervi scoperti: Pedro sputa le parole, spinge la chitarra in una zona più spigolosa e tagliente, invita la ritmica a prendere spazio. Suona come uno strappo e a tutti va bene così. 
Applausi.
Intanto la donna non ha ancora finito. Si alza a ballare in mezzo alle sedie, accarezza il suo accompagnatore sul torace, lo lecca in faccia, risponde ad alta voce a chi le dice qualcosa o guarda male.
Il concerto sta andando avanti, eppure qualcosa continua a risuonare, ad amplificarsi nell’eco. Una specie di reazione a catena. Pedro si aggiusta il Borsalino bordeaux e chiede al tecnico di palco più volume nei monitor. La band è distratta, suona fiacca e sconnessa.
Lo staff del locale raggiunge la donna, le chiede di sedersi, di stare in silenzio e di non disturbare il concerto. Applausi. Furiosi.
Lei si inalbera, mostra il dito medio a un ragazzo nero della sicurezza, sputa ad un altro per non farlo avvicinare.

Dieci minuti dopo Pedro e la band sembrano avere ripreso il filo della serata.
Adesso stanno suonando una ballata mid-tempo, una vecchia canzone fra le preferite dai fans. C’è una sospensione, verso tre quarti del brano, in cui Pedro canta una strofa in maniera delicata, su un tappeto di sassofoni, col ritmo appena accennato. La canzone parla di cose perdute, cose di cui abbiamo avuto bisogno, cose che nessuno sa dove siano andate a finire. E di persone che restano attaccate a quelle cose, e si perdono con loro.
La donna all’improvviso riprende a gridare.
A quel punto tutta la sicurezza del locale interviene e prova ad accompagnarla fuori. Lei scalcia e impreca e non se ne vuole andare, cosicché in pratica la portano via di peso. La gente applaude e urla. Per un minuto buono pare di vedere solo bocche aperte, facce deformate e occhi pieni di rabbia.

Ora la ballata va verso la conclusione: la batteria ricomincia a marcare il terreno dietro le chitarre, il ritmo prende quota per i ritornelli finali in un crescendo esplosivo. C’è un tremendo boato della folla in esatta corrispondenza dell’assolo finale, e quello è anche il momento in cui la donna, con tre uomini della sicurezza per parte, esce senza toccare terra dalla corsia centrale, fra i due blocchi principali di poltroncine.
C’è qualcosa che si intravede nella scena, non è facile dire cosa. Qualcosa che sanguina. Qualche rappresentazione rituale. Qualcosa di antichissimo e pauroso. Pedro si gira verso la band ma non guarda negli occhi nessuno.
Poi succede un’altra cosa strana. L’uomo che prima ballava con la donna non si sposta mai dalla sua poltrona e continua a guardare verso il palco, come se seguisse il concerto senza accorgersi di nulla. Non dice niente, si lascia scivolare tutta la scena addosso, fissa la band e non muove un dito. Gli uomini della sicurezza tornano dentro al locale per avvertirlo che, se non esce, saranno costretti a chiamare la polizia per prendersi cura della donna. Lui esce dopo mezz’ora buona, quando la volante è già arrivata e gli agenti hanno già cominciato a fare domande.
La donna non smette di sbraitare, ma intanto dentro la sala tutto è tornato al proprio posto.

A fine concerto il pubblico resta in fila per gli autografi e le foto e intanto i tecnici cominciano a caricare gli amplificatori sul bus. Il tour manager passa una mano sulla spalla di Pedro, si complimenta per lo show, poi gli chiede se per caso conoscesse quella donna mezza svitata o magari l’avesse già vista prima.
Pedro non guarda negli occhi nessuno, fa uno strano gesto con la testa e poi dice «Scusate ma si è fatta ora di andare» e non si capisce se lo dice a se stesso o a un altro.

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