Il rap e la trap italiani hanno un problema con la N-word | Rolling Stone Italia
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Il rap e la trap italiani hanno un problema con la N-word

Negli ultimi anni la parola è stata utilizzata da un sacco di artisti, più per ignoranza che per razzismo. Ma oggi gli eventi negli Stati Uniti ci costringono a riflettere sul suo peso e la leggerezza con cui la si pronuncia

Il rap e la trap italiani hanno un problema con la N-word

Jerry Holt/Star Tribune via Getty Images

Quello che è successo a Minneapolis il 25 maggio è entrato sotto la pelle più di quanto abbia fatto il virus di questa pandemia. Per quanto però sia possibile pensare, nel breve futuro, ad un mondo senza Covid-19, sembra impossibile riuscire ad immaginare un mondo senza razzismo; una tragica storia lunga un’umanità.

Troppo spesso la questione razziale è stata vissuta, nel nostro paese, come un problema localizzato in un altrove. Schermati dal mantra “non potrebbe mai succedere qui”, abbiamo lasciato scorrere sui nostri schermi le news che hanno portato alla nascita di movimenti come Black Lives Matter e Antifa. Negli ultimi anni, però, questa nostra schermatura sembra essersi assottigliata, per non dire frantumata, sotto i colpi subiti della narrativa anti-immigrati portata avanti con ardore dalle forze politiche razziste che hanno invaso il pensiero collettivo italiano. Il razzismo in Italia è diventato oramai argomento del giorno (e di elezioni). 

Nel tran tran social di questi giorni sono stato messo in contatto con Tommy Kuti, rapper bresciano di origini afro-italiane. Il suo punto di vista sulla situazione è molto esplicativo, “In Italia le cose sono diverse rispetto agli USA, non c’è quell’odio viscerale che c’è là, qui c’è più ignoranza. Siamo in una posizione ancora più arretrata perché non abbiamo esempi di neri di successo. Non abbiamo avuto gli Obama, i Martin Luther e nemmeno i Michael Jordan. La storia degli africani di successo non ci viene insegnata”. Kuti mi ha inoltre fatto notare come nel mondo rap e trap, culture di origine afro-americana che abbiamo importato e di cui ci siamo appropriati, l’utilizzo della n-word (nell’eccezione italiana, quanto in quella americana) stia continuando senza condanne.

Negli anni, la parola è stata utilizzata da pesi massimi come Fabri Fibra, Massimo Pericolo (ben due volte), Emis Killa, Bassi Maestro (che però si è scusato), Roshelle (in una cover) sia, in maniera più diffusa e preoccupante, da esponenti della nuova wave come Thb Kirua, tutta la FSK Satellite, Comagatte, Gallagher e Traffik. Come suggerito da Kuti, non c’è sempre una diretta connessione tra n-word e razzismo. Spesso l’emulazione, o peggio ancora l’ignoranza, portano questa parola nei dizionari dei rapper svuotata di ogni significato. Questo però non toglie responsabilità: l’ignoranza è una scusante entro certi limiti. L’utilizzo della n-word è un retaggio razzista e dispregiativo (fatico a credere che qualcuno non lo sappia) che porta dentro sé il sangue del popolo nero estirpato dalla propria terra madre per utilizzo e beneficio del popolo bianco conquistatore. La n-word non è solo un’espressione razzista fine a se stessa, come spesso ci raccontiamo qui in Italia, ma un resoconto vivo dell’orrore della diaspora e del colonialismo. È un peso psicologico di cui noi bianchi non abbiamo alcuna idea. Per questo non abbiamo diritto ad usare quella parola, nemmeno a scopo emulativo di una cultura che, comunque, non conosciamo e non tentiamo di conoscere, né tantomeno proviamo a supportare. 

Marco Bianchessi ha recentemente scritto un interessante passaggio su Soundwall, “Quando si parla di questioni razziali in Italia mancano proprio le fondamenta sulle quali poggiare una discussione. Da qui l’utilizzo in libertà della n-word, il cui peso sfugge alla comprensione comune delle persone, perché mancante degli strumenti di base per decodificare la realtà. Chiaramente, questo discorso non vale per tutti: non mi riferisco a razzisti conclamati che fingono di non esserlo, o che si nascondono dietro la bandiera del partito X o Y per gettare odio insensato contro lo straniero; mi riferisco invece a tutta quella fetta di persone (e in Italia non sono poche, considerando il tasso di analfabetismo funzionale) che non vedono alcuna differenza tra dire “nero” e “ne*ro”.

Se interrogassimo questi rapper, ci risponderebbero all’unisono di non aver pronunciato la n-word con enfasi razziale, ma di averne fatto uso per leggerezza e emulazione della trap americana o, nei peggiori dei casi, avvalendosi della libertà di parola. Davvero non possiamo farne a meno in un pezzo trap? È così difficile per noi bianchi accettare che una parola non ci sia più concessa? Questa leggerezza è l’emblema del white privilege. E il fatto di non rendersi nemmeno conto di questo privilegio dice molto sulla nostra considerazione degli altri. C’è sempre un altrove. Non è mai colpa nostra. Non esiste nessun privilegio. Come cantava ironicamente Chance The Rapper, first world problems that ****** make up.

Le rivolte negli Stati Uniti, le manifestazioni programmate in tutto il mondo, l’attivismo social del #blackouttuesday non sono piccoli segnali di nervosismo, ma istantanee di un paesaggio ammalato. Il razzismo c’è, ogni giorno, in ogni luogo. Artist* italian* del rap e della trap (e addett* al settore) dovrebbero iniziare a dare il loro contributo condannando ogni singolo utilizzo della n-word, cercando di aprire un dialogo con la cultura afro-americana da cui pescano a piene mani. Quando l’hip-hop è arrivato in Italia, ha portato con sé un concetto fondamentale: il rispetto. Ora è il momento di ricordarsi cosa significa.

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