“Il Pianeta” come festival per reimparare ad ascoltare | Rolling Stone Italia
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“Il Pianeta” come festival per reimparare ad ascoltare

Il Pianeta, il festival di quattro giorni ideato da Threes (Terraforma) e MMT Creative Lab presentato lo scorso weekend a Milano, ci insegna che il punto di partenza è la presenza, la condivisione, la comunicazione reciproca

“Il Pianeta” come festival per reimparare ad ascoltare

Foto di Stefania Zanetti

Presti attenzione ai suoni che ti circondano? Sai come suona la tua città, la via di casa tua, il tuo appartamento? Cosa c’è oltre a quello che molti definiscono rumore? Scendi sotto casa e prova a camminare con il telefono in mano. Registra quello che accade senza pensarci troppo. Inizia con l’intero ecosistema della tua via, a cielo aperto, con le macchine che sfrecciano, le persone che parlano, il vento che soffia. Quando senti un suono che ti colpisce, qualcosa che esce fuori dal magma, avvicinati, dagli la tua attenzione e registralo. Vedrai come la tua mente inizierà a selezionare i suoni che spuntano attorno e che prima si perdevano nella disattenzione, facendoti focalizzare solo dove la tua attenzione vuole posarsi, senza più il bisogno di seguire una linea geometrica o qualche impostazione sociale. Il mondo ti si aprirà nella sua bellezza particolare. Ora la tua via è uno stage, la città un concerto, il pianeta un festival.

È questa una delle piccole lezioni che ci ha lasciato Soydivision, collettivo indonesiano con base a Berlino che, in collaborazione con il centro di ricerca per la cultura Standards e l’etichetta indipendente Artetetra, ha curato due giorni di soundwalks all’interno de Il Pianeta, il festival di quattro giorni ideato da Threes (Terraforma) e MMT Creative Lab presentato lo scorso weekend a Milano. Una rassegna artistica e culturale divisa tra eventi, mostre, concerti e passeggiate sonore che reinterpreta Il Pianeta come Festival di Ettore Sottsass, la serie che il designer e architetto pubblicò nel 1972 sul periodico Casabella in cui – attraverso disegni e testi – raffigurava un pianeta in cui l’umanità era libera dal lavoro e dal condizionamento sociale, in cui la tecnologia sarebbe stata utilizzata – una volta risvegliata la coscienza – per aumentare l’autocoscienza rendendo la vita in armonia con la natura. Un futuro utopico in quale ogni essere umano era un uomo-artista.

Foto di Stefania Zanetti

Scrive Sottsass a lato della sua serie, “la libertà non viene da nessuna altra parte se non dalla possibilità della consapevolezza che ognuno di noi può avere che sta vivendo e anche che sta, piano piano, morendo”. Una delle soluzioni che più torna nelle indagini e nelle ricerche promosse da Il Pianeta è che – per vivere (e piano piano morire) – bisogna re-imparare ad ascoltare. Non solo ascoltare le strade, le voci, la città sotto i nostri piedi, ma ascoltarsi nella comunicazione, nella creazione, nella contaminazione reciproca. Ascoltare è, infondo, prendersi cura dell’altro e della comunità. Ne è un esempio eclatante la performance di Alvin Curran e Walter Prati, due maestri della free improvisation, in concerto venerdì alla Fabbrica del Vapore (in collaborazione con Parade électronique) con Community Garden, un progetto discografico nato dalla riflessione sull’importanza di poter utilizzare spazi urbani. Come un giardino urbano condiviso che ha bisogno della collaborazione di chi lo frequenta, Curran e Prati comunicano reciprocamente tra pianoforte preparato, violoncello elettrico, loop, sample, macchine e computer, focalizzando la performance sull’ascolto reciproco, lasciando lo spazio necessario per l’espressione dell’altro alla ricerca della costruzione di un feedback virtuoso tra ascolto e produzione sonora. Una lezione sull’ascolto, sulla percezione e accettazione dell’altro per una creazione comune.

“I pensieri involuti sulle città non hanno fatto che tramandare finora l’idea folle e pericolosa, l’idea malata e aggressiva che gli uomini “devono” vivere soltanto per lavorare e devono lavorare per “produrre” e poi consumare. Ho progettato immaginando che qualcuno si sia spostato col pensiero e con le azioni dalla morale dell’uomo “lavoratore produttivo” e si sia avviato a pensare che gli uomini possono vivere per vivere e possono lavorare, se vogliono – caso mai – per sapere con il corpo, con la psiche e con il sesso che stanno vivendo”, scrive ancora Sottsass nei testi del suo Il Pianeta come Festival, evidenziando – in epoca non sospetta – questa violenta deriva ulta-capitalista e ultra-materialista che ha spogliato gli uomini dalla propria capacità di percepire attraverso il proprio corpo e la propria mente, e quindi della capacità di vivere al di fuori del ciclo lavoro-produzione. A partire da questo spunto, gli artisti coinvolti in Il Pianeta si sono posti l’obiettivo di generare nuovi spazi ambientali attraverso esperimenti visuali e sonici, come evidenzia la mostra a cielo aperto fino al 28 ottobre in cui poter vedere i lavori della videoartista italo-australiana Rebecca Salvadori, dello studio di design Formafantasma, dell’artista visivo Giulio Scalisi e della compositrice e produttrice italo-olandese Grand River, tre manifesti e una sonorizzazione presenti all’inaugurazione del festival in Spazio Maiocchi insieme al live dei londinesi Still House Plants, un misto di improvvisazione e decostruzione, di no wave.

Foto di Stefania Zanetti

Cosa ci lascia un festival come Il Pianeta? Cosa possiamo davvero imparare da questi eventi, concerti, incontri? Prima di tutto che il punto di partenza è la presenza, la condivisione, la comunicazione reciproca. Creare spazi di pensiero, di pensiero alternativo, di percezione della realtà naturale. Di aggregazione culturale. E poi, ascoltare. Come possiamo pensare al pianeta quando non riusciamo nemmeno ad ascoltare quello che accade a pochi passi da noi? Come possiamo prenderci cura del pianeta e, dunque, dell’uomo e della comunità, se veniamo risucchiati ciechi nel tritacarne del capitale? Piccole lezioni, in piccoli momenti, possono creare via di fughe gigantesche. Soluzioni reali. Gli indonesiani utilizzano un concetto, ramé-ramé, per riferirsi al partecipare comunamente a qualcosa senza uno scopo specifico, come quando, senza metterci d’accordo, ci ritroviamo a ballare in un club condividendo quella presenza con degli estranei. Noi – da parte nostra – non possiamo che continuare a far accadere questi momenti per trovare possibilità inedite di risveglio della coscienza, così come ci chiedeva Sottsass cinquant’anni fa.