Il film de Lo Stato Sociale trasforma il gruppo nelle Sardine della musica italiana | Rolling Stone Italia
Musica

Il film de Lo Stato Sociale trasforma il gruppo nelle Sardine della musica italiana

"La piazza della mia città - Bologna e Lo Stato Sociale" dovrebbe essere il documentario di un concerto, invece sembra un'opera di propaganda uscita da un regime totalitario indie

Il film de Lo Stato Sociale trasforma il gruppo nelle Sardine della musica italiana

È stata un’esperienza quantomeno singolare la visione de La piazza della mia città – Bologna e Lo Stato Sociale, il documentario diretto da Paolo Santamaria che uscirà nelle sale il 17 settembre e che, dato l’assolutamente inattesa e immodesta rappresentazione del gruppo contenutavi, avrebbe potuto anche sottotitolarsi “Bologna è Lo Stato Sociale”.

Il film intervalla stralci del concerto tenutosi sul Crescentone di Piazza Maggiore il 12 giugno 2018 e testimonianze di vari notabili della cultura bolognese che, a turno, omaggiano lo Stato Sociale e la cultura bolognese. Il problema principale del film è che, per struttura, è concepito come una partita alla Holly e Benji: fra una canzone e l’altra, come prima di un tiro in porta, può succedere di tutto.

Dopo i primi sbalordimenti sembra quasi che il documentario non abbia per protagonisti un gruppo musicale e la piazza che lo ha ospitato, in una pur gloriosa occasione, separandone e approfondendone le rispettive e differenti storie. Bensì, con molta nonchalance e discreti effetti comici, il montato rischia di presentare lo Stato Sociale come metaforizzazione della piazza stessa, a tratti come crocevia (e, a tratti, ancora più pericolosamente, come punto di arrivo) di qualunque individuo, collettivo o fatto socio-culturalmente rilevante abbia toccato Bologna dal secondo dopoguerra in poi, inclusi la Resistenza e Lucio Dalla, le lotte studentesche e Luca Carboni e chi più ne ha più ne metta, passando per Guccini nel ricordo di Gianni Morandi e per lo youtuber locale Luis Sal nel ricordo di se stesso.

Conoscendo le proverbiali mansuetudine e affabilità del gruppo fondato da Alberto Cazzola, Lodo Guenzi e Alberto Guidetti, con la successiva inclusione di Enrico Roberto e Francesco Draicchio, e avendo presente la loro poetica — sciorinare in modo smaliziato luoghi comuni, tramutandosi nel luogo comune della persona smaliziata che si fa gioco dei luoghi comuni — l’ultima cosa che ti saresti aspettato dallo Stato Sociale sarebbe stato un documentario così assurdamente autocelebrativo. Grande produttore di immagini di sé stesso, neppure Silvio Berlusconi avrebbe avuto l’ardire di candidarsi a personificare lo spirito di una piazza, e dunque l’anima di una città, fosse anche Piazza Martiri della Libertà ad Arcore, con tanta sicumera.

L’impressione è che, dal momento che le pareva brutto o vanaglorioso fare uscire nelle sale un documentario tutto incentrato sul loro concerto, peraltro a scoppio di ritardato di due anni circa, la produzione ne abbia tirato fuori uno in cui, maldestramente, si paragonano alla piazza stessa in quanto tessuto connettivo tra più generazioni e classi sociali.

Le testimonianze dei vari ospiti interpellati, con l’attuale assessore alla cultura di Bologna che si meraviglia di come gli uffici della Soprintendenza avessero potuto rallentare la realizzazione del concerto, preceduto dai racconti di Lodo Guenzi sulla meraviglia riscontrata nelle maestranze quando, poco prima dell’inizio della serata, lo videro arrivare in bicicletta, finiscono per avere un effetto straniante.

Ci auguriamo che il risultato raggiunto dal film non sia quello sperato. Forse è semplicemente l’ennesima riprova di come l’indie difficilmente riesca a fare i conti con gli elementi della grammatica mainstream come, ad esempio, le produzioni cinematografiche; al punto che certe immagini di La piazza della mia città ci potrebbero mostrare, per assurdo, cosa accadrebbe se un giorno vincesse l’indie e diventasse un piccolo, delirante regime, facendo la parodia in chiave propagandistica e massimalista di sé stesso.

Questo, nella peggiore delle ipotesi. Altrimenti, nella migliore, le immagini del montato sembrano elementi eclettici messi insieme per riempire un’ora e mezza di documentario in cui Lo Stato Sociale si racconterebbe con le migliori intenzioni per poi finire, involontariamente, nello stupendo regionalismo emiliano riportato alle luci della ribalta da chef Bruno Barbieri: un mappazzone di cose da dire o far dire sulla bolognesità, con il collante narrativo di una tesina da terza media di una volta, di quelle con ipertesto caricato sul dischetto floppy (quelle sì che erano indie).

Spiace che a fare le spese di questo bizzarro settaggio sia proprio l’indie dello Stato Sociale. Il quale, a onor del vero, sembrava aver superato indenne anche lo straordinario successo di Una vita in vacanza in una dimensione convintamente, beatamente stupita della magia di essere finalmente sulla bocca di tutti, senza alcuna mitizzazione e neppure, al contrario, alcuna concessione alla reductio ad Calcuttam.

Se le premesse ideologiche da cui parte il film sono di per sé un grattacapo, è ancora più dubbio quale possa essere stato il target di pubblico a cui voleva destinarsi. Chi potrebbe vederlo con effettiva soddisfazione? I fan hardcore ci vedrebbero tutto sommato poco concerto. Per tutti gli altri ci sarebbe, comunque, decisamente troppo concerto.

Delle due, l’una: o Lo Stato Sociale si è convinto, a scoppio ritardato, di rappresentare le Sardine del sistema musicale e culturale italiano, e di averle anticipate di almeno un anno e mezzo, nella stessa piazza della stessa città, e ha deciso di rivendicare questa paternità politica a scoppio ritardatissimo e con altrettanto scarsa efficacia, oppure la produzione del documentario non ha semplicemente fatto un buon servizio al gruppo e, purtroppo, di conseguenza, anche alla città.