Il dream pop in 10 dischi fondamentali | Rolling Stone Italia
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Il dream pop in 10 dischi fondamentali

Contorni sfocati, strade deserte, cieli sconfinati, mondi dolci e allucinati: dai Cocteau Twins ai Beach House, gli album essenziali per tutti i viaggiatori onirici della musica

Il dream pop in 10 dischi fondamentali

I Beach House

Foto: Getty Images

Musica e sogno sono da sempre imparentati. Ma il dream pop sa spingersi anche oltre, in luoghi nei quali le coordinate della realtà sfumano completamente, si fanno indistinte e sfocate. Mosso un passo all’interno del dream pop il mondo si trasfigura, viene a galla la vertigine, l’allucinazione. Diversamente dalla psichedelia però nel dream pop tutto è soffice e dolce. È una musica che riesce in qualche modo a cullare l’ascoltatore immergendolo in una sorta di liquido amniotico, un levitare oltre le incombenze della vita per inoltrarsi in una nuova dimensione.

Dalla notte dei tempi molti compositori indugiano nel sogno; in ambito classico gli esempi si sprecano, anche in una musica molto terrena come il jazz non sono rare le incursioni (vedi il Miles Davis di Get Up With It, quasi un’antologia di atmosfere oniriche). Nell’irruento rock non sono mancati da subito costanti richiami a paesaggi sognanti, dalle languide ballate di Elvis Presley agli esperimenti dei Beatles (il labirinto di A Day In The Life), dei Beach Boys (Pet Sounds, forse il primo vero album dream pop) e dei Velvet Underground (in brani come Sunday Morning, vero manifesto del sogno in musica), fino ai più oscuri United States Of America del folle sperimentatore Joe Byrd, che nel primo omonimo album (1968) scodellano una Cloud Song che contiene già tutti gli stilemi che verranno.

Prendendo le mosse dalla rivoluzione goth della fine dei ’70 e dei primi ’80, il dream pop diventa un genere a sé con la nascita della 4AD, etichetta inglese che da una parte promuove diversi alfieri dark (Bahuaus, Dead Can Dance…), dall’altra si fa carico di scovare band (Cocteau Twins su tutti) che mutano gli aspetti più astratti e romantici del goth in canzoni impalpabili, con ritmi lenti, chitarre riverberate fino a renderle allucinogene e voci femminili dal timbro fatato, immerse anch’esse in ampie folate di echi, per far sì che all’ascoltatore arrivino come provenienti da un’altra dimensione. Il tutto con un carico di decadente romanticismo tipicamente europeo. Negli USA invece il genere non dimentica le radici, a volte si trasfigura in una sorta di ovattato country psichdelico, che lascia immaginare figure evanescenti, strade deserte e cieli sconfinati, colonna sonora per viaggi solitari in preda a un languore visionario.

Dagli anni ’80 ai nostri giorni il dream pop non smetterà di far breccia nei cuori di molti, a volte contaminandosi con l’elettronica, altre tornando al suono dei maestri ispiratori, altre ancora fondendosi con immagini cinematografiche. Tutto ciò è sviscerato nei 10 dischi essenziali che ogni viaggiatore onirico non potrà ignorare.

10.“Drum” Hugo Largo (1989)

Prodotto da Michael Stipe dei R.E.M. e pubblicato dalla Opal di Brian Eno, quello degli americani Hugo Largo è un debutto assolutamente originale. Formazione atipica con due bassi, un violino e la voce versatile di Mimi Goese, gli Hugo Largo lasciano quasi del tutto da parte echi e riverberi e si dedicano a un dream pop essenziale, scheletrico, con le acrobazie vocali della Goese a muoversi su un tappeto sonoro quasi disidratato. Nonostante la scarsa aderenza agli stilemi tipici del genere la loro musica è quanto più vicino al concetto di sogno pop sia mai stato tentato, ciò grazie a un modo unico di trattare gli strumenti e le voci in sede di incisione, complice la mano di Eno. Ascoltare Scream Tall per rendersene conto.

9.“So Tonight That I Might See” Mazzy Star (1993)

Band formata dal chitarrista Dave Roback all’indomani del suo abbandono degli Opal, i Mazzy Star rappresentano la quintessenza del suono dream pop a stelle e strisce. Lente ballate chitarristiche e la voce languida della musa Hope Sandoval a cantare di amori malati tra gli ampi orizzonti americani. La musica del secondo album della band anticipa di molto quella di Lana Del Rey, muovendosi sulle stesse coordinate che faranno la fortuna della diva: un suono narcotico e ipnotico, a tratti spettrale e drogato (vedi Mary of Silence). Il sogno dei Mazzy Star è una lenta discesa nella malinconia.

8.“Birds of Passage” Bel Canto (1989)

Con il secondo album dei norvegesi Bel Canto ci troviamo di fronte a una vera enciclopedia dream pop: ritmi acustici, etnici ed elettronici, momenti estatici alternati ad altri più decisi, tappeti di synth, chitarre, archi, fiati e percussioni, brani che si muovono su atmosfere care a Cocteau Twins, Dead Can Dance, Pink Floyd, Brian Eno. Birds of Passage è una nave scuola per tutto il movimento.

7.“Sounds of the Satellites” Laika (1997)

I Laika di Sounds of the Satellites portano il dream pop nello spazio. Tutta una serie di arrangiamenti e suoni sono infatti creati appositamente per evocare le profondità del cosmo. Un cosmo retro-futurista che viene ricreato con l’ausilio di ritmi del trip hop, raffiche di sintetizzatori non distanti da quelli della Kosmische Musik tedesca degli anni ’70 (Klaus Schulze, Tangerine Dream) e ritmi spesso ricercati, in alternativa al solito 4/4. Analizzando ogni brano della formazione inglese è incredibile il grande ammasso di suoni stratificati all’interno di canzoni che all’orecchio arrivano leggere e ariose. Una grande prova di genialità.

6.“Reading, Writing and Arithmetic” The Sundays (1990)

Si torna sulla terra e si spazzano via tutte le sovrastrutture elettroniche per un sound diretto e semplice: chitarra-basso-batteria-voce. I giovanissimi Sundays sono musicisti assai misurati e la chitarra di David Gavurin non esagera mai con effetti lisergici, si mantiene anzi pulita e lineare, spesso debitrice del jingle-jangle dei Byrds o del lavoro di Johnny Marr (The Smiths). Nonostante ciò il suono generale è un vero sogno, complice la voce incantata di Harriet Wheeler e le suadenti melodie di brani come Here’s Where the Story Ends o Can’t Be Sure che connotano i Sundays come sorta di Cocteau Twins più terreni, ma non per questo meno fascinosi.

5.“Teen Dream” Beach House (2010)

Gli americani Beach House traghettano il dream pop nel 2000, diventandone in breve i principali esponenti moderni. La ricetta del duo (Victoria Legrand e Alex Scally) è semplice: strati di chitarre e tastiere evanescenti, batterie acustiche ed elettroniche, tocchi di soul e gospel e la voce versatile della Legrand che si insinua tra la moltitudine di cori estatici offerti dal socio Scally. Ciò che rende grandi i Beach House è però l’innata capacità nel songwriting e Teen Dream di grandi canzoni è pieno, iniziando con il singolo Zebra, sorta di Velvet Underground in acido (e ciò è tutto dire), spingendosi attraverso la notturna Silver Soul, la sospesa Real Love e il surreale valzer finale di Take Care.

4.“The Noise Made by People” Broadcast (2000)

Retrofuturismo à gogo nel fenomenale esordio dei Broadcast della compianta Trish Keenan, che con la sua voce assente e disincantata offre 12 gemme tra gli Stereolab più astratti e i Pink Floyd barrettiani, il tutto con un sapiente uso di elettronica vintage e i riverberi al posto giusto. The Noise Made by People ha due punte di diamante: Come On Let’s Go e You Can’t Fall, brani caposaldo di tutto il movimento pop-sognante, canzoni perfette in ogni aspetto. Non mancano inoltre momenti più tenebrosi e metafisici come Echo’s Answer e Minus One, piccole colonne sonore di film sperimentali mai realizzati.

3.“Ultraviolence” Lana Del Rey (2014)

Un vero scrigno di tesori, l’album dream pop più bello e importante degli ultimi anni. Un dream pop fatto di atmosfere cinematografiche a tinte noir mischiate a momenti più solari che creano un gustoso mix tra i Cocteau Twins e David Lynch. Sul tutto la suadente Lana a farsi interprete di storie di uomini e donne che si consumano di struggimento tra scenari ipnagogici. Un coacervo di canzoni fantastiche, in fila una dietro l’altra. In Utraviolence non c’è un elemento fuori posto, non c’è brano da segnalare come più riuscito di altri, perché qui non c’è nulla che sia meno che stupendo.

2.“Floating Into the Night” Julee Cruise (1989)

C’è una canzone in questo album, si chiama I Rememeber, mettetela su e chiudete gli occhi. È un trip-jazz lento e notturno, con la voce da sirena della protagonista a trascinarvi oltre i reami del sogno, fino a una ben precisa soglia che è oltre. Quella che arriva a 1:53. Qui si spalancano gli abissi di un’altra realtà, forse di un incubo. Da un fumoso club siamo catapultati all’interno di Diagonal-Symphonie, film dadaista di Viking Eggeling (1923), in un cambio così straniante da lasciare senza fiato. Questo brano è l’essenza stessa del dream pop più avventuroso, così come lo è il resto del disco, una lenta discesa verso le profondità dell’irreale. Dimenticavo, Floating Into the Night contiene anche Falling, memorabile sigla di Twin Peaks. Penso abbiate capito.

1.“Treasure” Cocteau Twins (1984)

I Cocteau Twins hanno imposto il dream pop come genere preciso. E lo hanno fatto con un album che da sempre è segnalato come l’espressione più alta della musica sognante. Treasure è esso stesso un sogno, decidete voi se a occhi aperti o chiusi, l’importante è prepararsi a smarrire la propria volontà dentro 10 canzoni (ogni brano è titolato con un nome di uomo o donna) dalle melodie perfette (una su tutte: Pandora). E parlo di melodie al plurale non a caso, sono infatti molteplici le parti vocali sovraincise dalla divina Liz Fraser e ognuna di esse è una scheggia di forte emozione. Voci che vorticano intorno a chi ascolta e non cantano normali testi, ma un linguaggio inventato che scaturisce diretto dall’anima al microfono. Il linguaggio del sogno. Appunto.

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