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Il dibattito sull’appropriazione culturale sta dividendo il nuovo post punk inglese

È giusto che artisti agiati cantino di povertà e immigrazione? O forse mettersi sul piedistallo è sbagliato e non funziona? Se lo chiedono (litigando) i musicisti di Fat White Family, Idles e Sleaford Mods

Foto: Sarah Piantadosi

C’è un dibattito in corso nella scena alternative rock e post punk britannica che sta riportando a galla una domanda non da poco: se è ormai evidente che la musica non fa (più?) la rivoluzione, quando una band o un artista che fonda il proprio percorso anche sull’impegno politico e sociale può considerarsi credibile? Interrogativo da un milione di dollari. Lo hanno sollevato recentemente nel Regno Unito gli Sleaford Mods e con loro i Fat White Family a proposito degli Idles, accendendo un confronto dialettico che nel mondo del rock sembrava sepolto da tempo o perlomeno ridotto a materiale da circuiti underground con ridotta capacità di attecchire sulla cultura di massa.

Questa volta la faccenda è un po’ diversa, per vari motivi. In primis, si parla di band che in Italia sono molto (purtroppo) di nicchia, ma che nel Regno Unito godono di un grande seguito, al punto da essere finite tutte e tre nella classifica dei dischi più venduti in UK e tutt’altro che in basso: con l’album del 2019 Eton Live gli Sleaford Mods – duo di Nottingham composto da Jason Williamson e Andrew Fearn – hanno raggiunto la posizione numero 9; sempre nel 2019, con la loro terza prova Serfs Up!, i londinesi Fat White Family hanno conquistato il 17esimo posto; quanto agli Idles, gruppo di Bristol capitanato da Joe Talbot, il loro Ultra Mono, uscito il 25 settembre, è schizzato nientemeno che lassù in cima, accaparrandosi il primo gradino del podio.

Questo giusto per inquadrare la vicenda. Che inizia così: un giorno, ormai più di un anno fa, Jason Williamson degli Sleaford Mods accusa pubblicamente gli Idles di appropriazione della voce della working class e ci va giù pesante, arrivando a definire la musica dei colleghi un’accozzaglia di retorica paternalistica e di prediche sloganistiche piene zeppe di cliché. Il tutto partendo da un dato di fatto: nei loro dischi Talbot e soci sputano su un sistema turbo-capitalistico che sta schiacciando i più poveri e i meno fortunati, si schierano dalla parte dei migranti, attaccano il machismo e la xenofobia, il tutto, però, da esponenti della classe media; in particolare, Talbot, gallese di origine, è cresciuto a Exeter, in Inghilterra, ed è lì, al college, che ha incontrato il bassista degli Idles Adam Devonshire prima di trasferirsi con lui a Bristol per studiare al St. Matthias Campus della University of the West of England e decidere, infine, di mettere su una band (e riaprire il defunto Bat-Cave Night Club).

Idles. Foto: Tom Ham

Ok e allora? Allora secondo Williamson, uno che da ragazzo ha fatto domanda d’iscrizione al Grantham College – così ha raccontato – salvo sentirsi dire dal padre che non era il caso e ritrovarsi a lavorare per un anno in una fabbrica di polli poi definita «una palestra di vita brutale», Talbot non può permettersi di parlare di ciò che non conosce e che non ha vissuto sulla sua pelle. Accusa cui il diretto interessato ha risposto affermando di non avere mai detto di appartenere al proletariato, che critiche come quella di Williamson «svalutano quanto infernale fosse l’educazione di due dei nostri compagni di band appartenenti, sì, alla classe operaia» e rivendicando di potersi schierare dalla parte dei più deboli e contro le ingiustizie: «Non mi sto nascondendo dietro nessun tipo di stronzata surreale, questo è semplicemente ciò in cui credo». Il che si è tradotto in una serie di botta e risposta via social e per mezzo di interviste in cui si è infilato, a un certo punto, Lias Saoudi dei Fat White Family, band dallo spirito radicale e dissacratore nata in uno squat in un sobborgo di South London, che si diverte a sbeffeggiare non solo fascisti e simili, ma anche il conformismo dell’anticonformismo.

Ebbene, pure lui ha attaccato gli Idles: «L’ultima cosa di cui la nostra cultura sempre più puritana ha bisogno è un mucchio di coglioni auto-castranti della classe media che ci dicono di essere gentili con gli immigrati; potresti chiamarla arte, io la chiamo pedanteria sentenziosa». Ma senza risparmiare una stoccata agli Sleaford Mods: «Per quanto tempo continueranno a parlare di salari di merda e kebab?». E non si è limitato a questo, Saoudi, il quale tornato sull’argomento poco più di un mese fa sul sito The Social con una lunga riflessione chiarificatrice da non prendere sotto gamba, perché ciò che ne risulta ha molto, moltissimo a che fare con un conflitto oggi particolarmente acceso, legato alla discussione su discriminazioni e disuguaglianze e alla rivendicazione, da parte di chi di quelle discriminazioni e disuguaglianze è vittima, che solo la parte lesa possa discettare dei propri problemi e proporre una strada per risolverli. Questione annosa.

Ma dicevamo: il cantante dei Fat White Family, nato a Southampton da padre algerino e madre minatrice dello Yorkshire e cresciuto tra Scozia e Irlanda del Nord in un contesto che ha descritto più volte come violento e razzista, sceglie di entrare nella disputa e lo fa, da un lato, scagliando un’arringa intelligentemente argomentata contro quelli che in Italia siamo soliti chiamare radical chic, dall’altro suggerendo una sorta di conciliazione. Innanzitutto, punta il dito contro «tutto ciò che c’è di sbagliato nelle teorie sulla giustizia sociale importate dagli Stati Uniti», ossia (parafrasando) contro l’arroganza, la spocchia e il senso di superiorità travestiti da solidarietà di quelli che – proprio come a parer suo farebbe Talbot degli Idles – predicano senza sapere di che parlano, oltretutto guardando dall’alto in basso la violenza di certa periferia: «Quando cresci economicamente oppresso in un mondo che ti offre prospettive sempre più ridotte, un mondo in cui la violenza e l’abuso sono la norma, prima o poi la disperazione di tutto ciò ha buone possibilità di trasformarsi in odio: etichettare queste persone come feccia non è progressista, è decadente. Direi che equivale a incolpare lo schiavo per le sue catene». E qui, tanto per guardare nel nostro orticello e non solo in quello altrui, tanti dopo l’omicidio di Willy Monteiro Duarte hanno reagito dando la colpa alla mancanza di cultura ed educazione di un intero sobborgo romano (senza magari averci mai messo piede), di fatto aderendo acriticamente agli «ideali da middle class metropolitana» messi alla berlina da Saoudi nel suo scritto.

In secondo luogo, la voce dei Fat White Family si spinge oltre precisando che «qualsiasi sinistra che non pone la questione della classe al centro è un tradimento delle persone che pretende di rappresentare». E anche in questo caso come dargli torto? È da tempo che l’unica cosa che le classi dirigenti della cosiddetta sinistra, non importa si tratti dei Democratici americani o del PD nostrano, portano avanti un’unica strategia consistente nel ripetere che quelli dell’altra parte non sono altro che stupidi e ignoranti. Non si propone una vera alternativa ed è esattamente per questo che quella sinistra che in teoria dovrebbe rappresentare i più deboli e lottare per l’uguaglianza sta fallendo un po’ ovunque.

Ma tornando alla polemica con gli Idles, c’è l’altra faccia della medaglia: «Non ho alcun interesse a litigare con questo gruppo di individui», aggiunge Saoudi. «Quando li ho visti suonare in un piccolo locale in Francia alcuni anni fa, appena prima che esplodessero, era ovvio che stavano riversando ogni fibra del loro essere nella performance. Chiunque sia disposto a sudare su un palco in quel modo, indipendentemente dal messaggio sottostante, merita rispetto».

Sleaford Mods. Foto: Simon Parfrement

E ovviamente c’è la replica di Talbot a tanto fervore scaraventato da più parti addosso alla sua band: dopo aver fatto notare come nel pop mainstream domini un impegno politico insignificante in quanto vago e fumoso, che quindi crea la necessità di un contraltare, il frontman degli Idles asserisce: «Il nostro governo odia i poveri, altrimenti non li tratterebbe così male. C’è una guerra di classe in questo Paese, volevo solo dirlo nel modo più chiaro possibile». E ancora: «Non chiederò scusa per il mio sesso, la mia razza, la mia classe. Tutto quello che posso fare è usare il mio privilegio nel modo più produttivo, bello e amorevole possibile». Voilà, la lotta di classe è servita.

È innegabile che questa baruffa tra musicisti sia lo specchio del conflitto e della tensione sociale che da tempo stanno ribollendo nel sottosuolo dell’Occidente e che ora (complice anche la pandemia con le sue conseguenze economiche) sembrano sul punto di esplodere. E quella baruffa si fonda su quesiti strettamente connessi alla domanda indicata all’inizio di questo articolo: è giusto che artisti/autori bianchi e privilegiati affrontino nelle loro opere il tema della povertà e dell’immigrazione? E che artisti/autori uomini si occupino di femminismo? E che artisti/autori eterosessuali discutano di omofobia? O si tratta di appropriazione culturale? Interrogativi da un milione di dollari, appunto. Forse, per cominciare, varrebbe la pena esigere onestà intellettuale da parte degli altri e di noi stessi, e per arrivarci servono profondi esami di coscienza e faticosi processi di autocritica. Dopodiché sarebbe meglio per tutti se il concetto di appropriazione culturale non divenisse il principio indiscutibile di ogni dibattito su disuguaglianze e discriminazioni, e dunque un dogma, un assioma. Perché a quel punto nessuno potrebbe davvero più sostenere nulla senza essere colpevolizzato com’è accaduto a Joe Talbot, che a dirla tutta non si è mai presentato come l’attivista militante salvatore della patria, ma si è limitato a trasformare in musica le sue preoccupazioni rispetto a un sistema capitalistico-finanziario che sta svuotando le democrazie occidentali.

Ad ogni modo, il punto non sono né gli Idles, né gli Sleaford Mods, né i Fat White Family; il punto siamo noi con le nostre più o meno evidenti ipocrisie, quando ci mettiamo su un piedistallo per pontificare su ogni battaglia per i diritti di tutti. Quanto siamo realmente disposti a cedere della nostra fetta di benessere, non conta se grande o piccola, affinché quel benessere arrivi a tutti? Quanto siamo realmente disposti a riconoscere che se apriamo bocca da un pulpito sorretto da privilegi, piccoli o enormi che siano, sarebbe il caso lo facessimo non spacciando utopie belle a parole che non possono che risultare intrise di buonismo, ma mettendo in discussione non solo il famigerato sistema, ma anche il nostro ruolo e operato in quel sistema? Sul fallimento della sinistra aveva già detto tutto Nanni Moretti in Palombella Rossa. Pensiamoci, almeno; contiamo fino a 10 (mila) prima di vendere fedi pregne di ideologia come fossero soluzioni. Perché non sarà semplice confessarlo, ma se l’autocensura alimentata dalla continua invocazione del politicamente corretto non è qualcosa di auspicabile, è pur vero che non basta dormire bene la notte per essere del tutto innocenti.

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