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‘Il concerto ritrovato’ di Fabrizio De André & PFM è un film sulle macerie degli anni ’70

Il documentario di Walter Veltroni, al cinema il 17, 18 e 19 febbraio, mostra per la prima volta lo show di Genova del gennaio 1979 e racconta un’epoca passata per sempre

Foto: Gino Lazzaroni

Il Padiglione C della Fiera di Genova che il 3 gennaio 1979 ospitò il concerto di Fabrizio De André con la PFM è in rovina. La camera ci entra per poche decine di secondi e rivela un deposito fatiscente di cassonetti della raccolta dell’immondizia. Del mercato ortofrutticolo dov’è ambientata l’intervista con il tastierista Flavio Premoli non resta che uno scheletro diroccato che sembra uscito da un bombardamento. Ruderi, rovine, desolazione. Il concerto ritrovato, documentario che mostra per la prima volta le immagini del tour del 1978-79 del cantautore e della band, non è solo la celebrazione di un momento importante nella storia della musica pop italiana. È un film sulle macerie che quella musica ci ha lasciato.

C’è qualcosa di più del fascino che il regista Walter Veltroni prova per i luoghi abbandonati. Dei posti che vediamo non restano che calcinacci e detriti, dello stile musicalmente ricco della PFM e dei testi taglienti e raffinati di De André resta ben poco. È un mondo sparito. Che ci piaccia o no, la cultura pop non gira più attorno al talento di musicisti come quelli della PFM, né è ricettiva verso raffinatezze di un intellettuale come De André. Ben poco possono i quattordicenni che – dice Franz Di Ciccio, motore dell’operazione – cantano a memoria le canzoni di quel concerto quando la PFM le porta in tour. Lo sguardo di Veltroni è sereno e a tratti divertito. De André appare sul palco rilassato. La PFM suona da dio. Ma è impossibile non pensare che di tutto ciò resta ben poco.

 

Foto: Franco Oberto

Fabrizio De André & PFM. Il concerto ritrovato, nei cinema il 17, 18 e 19 febbraio, è un film diviso in due. La prima parte racconta un ideale viaggio di avvicinamento a quel che accadde quel 3 gennaio 1979. A bordo di un vecchio treno che sfreccia per le colline di Genova, Veltroni filma i ricordi di Dori Ghezzi, di Franz Di Cioccio e Patrick Djivas della PFM, di David Riondino. Quest’ultimo aprì i concerti presentandosi non come cantante, ma come presentatore per accattivarsi la simpatia di un pubblico piuttosto turbolento e abituato a lanciare oggetti verso i supporter. Quel tour, si racconta, fu l’incontro fra due diversità musicali. In fondo, negli Stati Uniti l’avevano fatto Bob Dylan e The Band. PFM e De André provarono in un teatrino parrocchiale di Corsico. E una volta sulla strada contribuirono a demolire il muro che allora separava cantautorato e progressive. “In Italia non c’era una sola persona favorevole all’operazione”, afferma Djivas. Più dicevano a De André che quei concerti sarebbero stati un errore e più lui si convinceva. “È pericoloso? Belìn, allora lo faccio”.

Si racconta degli oggetti lanciati sul palco, degli autoriduttori di Napoli e dei contestatori di Roma, del ragazzo incontrato per caso che offrì da bere a De André mettendo dell’acido nel bicchiere. Allucinato senza sapere perché, il cantautore cercò di buttarsi giù da un’auto in corsa, per poi correre come un pazzo per un campo inseguito dalla moglie e dall’autista. De André scolava whisky, cadeva dalla sedia durante i concerti, fingeva che fosse un numero preparato. “Goliardia e scarsa disciplina”, ricorda il fotografo Guido Harari che scattò una foto memorabile del cantante, febbricitante e sdraiato vicino a un calorifero. “Col culo esposto a un radiatore s’era assopito il cantautore”, scrisse De André quando vide la fotografia, parafrasando sé stesso.

De André e la PFM a Genova nel 1979

La seconda parte del film è la più corposa, mostra le immagini del concerto che si tenne nell’orribile padiglione della fiera. Prezzo del biglietto: 2500 lire. Il suono proveniente dalle piste analogiche di un registratore Sony U-Matic è stato restaurato e seppur con certi limiti restituisce le performance vivaci del gruppo e l’eloquio di De André sempre esatto, ispirato, lucido. Il titolo Il concerto ritrovato fa pensare a un rinvenimento recente di immagini che si credevano perdute. Non è così. Piero Frattari, che le girò, le ha custodite per quarant’anni nel suo archivio. Ha sempre saputo di averle e la ha riprese in mano all’incirca quindici anni fa quando ha digitalizzato tutte le sue cassette. “Non mi ero reso conto del loro valore”.

Quel 3 gennaio Frattari si presentò a Genova con altre due persone: un fonico e una seconda camera. De André aveva acconsentito a registrare in modo professionale l’audio dei concerti, da cui vennero tratti due celebri dischi dal vivo, ma non voleva tra i piedi una troupe cinematografica. “Dovevamo essere invisibili”, spiega Frattari. Delle due camere, una fissa e una a mano, per qualche motivo sono state tenute solo le riprese della prima. Le immagini sono inferiori a ogni standard odierno, tant’è che tre canzoni del concerto sono state tagliate per la scarsa qualità. Sul palco c’è poca luce, la camera a volte inquadra il buio, ci sono sbalzi di colore e luminosità. De André suona seduto di fronte a un leggio fiocamente illuminato. S’indovinano al suo fianco i profili degli altri musicisti. Di Cioccio alla batteria non appare mai, se non quando si alza e offre al pubblico uno spiegone della “situazione”, il senso del concerto cioè. Per riempire lo schermo il regista inserisce spesso i testi delle canzoni nelle versioni autografe di De André. Dori Grezzi ha detto che è un bootleg visivo ed è una buona definizione.

Non fu uno dei concerti migliori del tour, spiega il chitarrista Franco Mussida. Il Padiglione C era un postaccio con l’acustica peggiore d’Italia, rincara la dose Premoli. E insomma fu una serata qualunque, non come quelle che vennero registrate di Bologna e soprattutto Firenze, e nemmeno come quelle drammatiche di Roma e Napoli. Ma anche in una serata così emerge nitidamente l’ampiezza di significati musicali e letterari delle canzoni. Di questo modo di fare musica non resta granché. Il concerto ritrovato è una festa, ma fa pensare alla morte: di un genere musicale, di uno stile, di un’epoca. Ogni tanto la camera fa bruschi movimenti per passare da un musicista all’altro. A volte, spostandosi repentinamente di lato finisce per inquadrare involontariamente il buio del palco. Per una frazione di secondo, in quel nero resta impressa la sagoma luminosa di De André e dei suoi musicisti. È una specie di alone. È un fantasma.

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