Il 2020 ha cambiato per sempre l’industria discografica | Rolling Stone Italia
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Il 2020 ha cambiato per sempre l’industria discografica


Dalle hit nate su TikTok ai concerti in realtà virtuale ai live streaming milionari, ecco le 12 novità più dirompenti che hanno permesso al settore di resistere in un anno senza concerti

Il 2020 ha cambiato per sempre l’industria discografica

Foto nell'illustrazione: Beth Garrabrandt (Swift); William Claxton(Dylan); Phone (DPA/AP Images)

Se l’industria discografica potesse scrivere la propria storia da sé, ripeterebbe ogni anno le stesse identiche parole, fino alla nausea: trasformazione, rivoluzione, cambiamenti epocali. Se c’è un anno in cui queste iperboli sembrano appropriate è il 2020.

Senza la possibilità di intraprendere i tour più redditizi e organizzare grandi eventi, l’industria ha imparato a pensare fuori dagli schemi per trovare nuove fonti di reddito e modi inediti di entrare in connessione col pubblico. Come ha detto il capo di Universal Music Lucian Grainge in una e-mail inviata ai dipendenti, «il 2020 sarà un anno da ricordare con tristezza per chi abbiamo perso, ma anche con orgoglio per come abbiamo superato le sfide che siamo stati costretti ad affrontare».

Ecco i 12 modi in cui il 2020 ha cambiato le regole del music business.

1Il boom dei concerti digitali

Il coronavirus ha trasformato i livestreaming. Un tempo erano sostanzialmente considerati forme di intrattenimento scadente. Sono diventato l’ecosistema che ha fatto registrare la crescita più rapida del settore. Con i concerti cancellati e senza luoghi fisici dove condividere la propria musica, artisti d’ogni tipo, dalle superstar ai talenti amatoriali, si sono riversati in rete. Si è cominciato con dirette informali fatte coi telefoni. Nel giro di qualche mese si è passati a blockbuster complessi e sempre più costosi. Quello di Dua Lipa, per esempio, è costato circa 1,5 milioni di dollari. Per lo stravagante concerto di fine anno dei Kiss, in diretta da Dubai, si parla di cifre a otto zeri.

Anche gli show all’interno di videogiochi come Fortnite e Roblox hanno fatto sensazone. Il concerto di Travis Scott ha incassato circa 20 milioni di dollari, per non parlare della risonanza globale che ha ottenuto, mentre Lil Nas X ha attirato 33 milioni di spettatori. Justin Bieber, The Weeknd e J Balvin hanno investito in Wave, che produce concerti animati di questo tipo. Il settore aspetta con ansia il ritorno dei concerti, ma molti manager, agenti di booking e artisti sono convinti che lo streaming, più economico e semplice da tanti punti di vista, sarà centrale nell’era post-Covid. (Ethan Millman)

2Addio marketing tradizionale

C’è stato un tempo in cui il ciclo promozionale legato all’uscita di un disco consisteva in mesi di teaser, copertine di magazine, ospitate nei talk show. A causa della alla confluenza di vari fattori, soprattutto il caos generato dal lockdown globale, la musica più chiacchierata quest’anno è nata da post virali in rete (per esempio: le hit di 15 secondi di TokTok che ci hanno accompagnato per tutta la primavera e l’estate) o da uscite a sorpresa e senza preavviso (vedi i casi di Folklore ed Evermore di Taylor Swift). Potete considerarli colpi da maestro o corse al ribasso, ma le uscite discografiche a sorpresa e senza grandi investimenti continueranno dopo il virus. 

(Amy X. Wang)

3I grandi artisti vendono i loro cataloghi

La decisione di Bob Dylan di vendere il suo intero catalogo a Universal per 400 milioni di dollari è stato un shock per i fan. Non si può dire lo stesso per gli osservatori più attenti dell’industria. Nel 2020 tutti, da Stevie Nicks a Mark Ronson, Imagine Dragons, Calvin Harris, Barry Manilow, RZA e i Killers hanno venduto i diritti delle loro canzoni a società ben finanziate. Il player più spregiudicato del settore, Hipgnosis Song Fund, ha già speso più di un miliardo e non ha alcuna intenzione di fermarsi. Del resto gli autori sono tentati dalle offerte non solo perché sono sostanziose, ma anche perché il 2020 ha azzerato i guadagni derivanti dai tour. C’è anche un altro aspetto, cioè una finestra fiscale vantaggiosa che potrebbe chiudersi con la riforma delle tasse annunciata da Joe Biden. Tutto questo non sparirà nei primi mesi del 2021. 

(Tim Ingham)

4I contratti discografici equi sono possibili (forse)

Il catalogo di un artista in vendita senza la sua approvazione è sempre un brutto spettacolo. Quest’anno è successo a Taylor Swift (per la seconda volta), quando Shamrock Capital ha comprato i suoi master da Scooter Braun per 300 milioni di dollari. Tuttavia, l’attuale contratto di Swift con Universal, firmato nel 2018, anticipa un futuro diverso per l’industria discografica mainstream. Swift possiede i master di tutto quello che ha registrato e pubblicato dopo la firma di quell’accordo – compresi Lover e la coppia Folklore/Evermore. Universal e la sua Republic Records si occupano solo di vendere e distribuire i dischi, ma non li posseggono. La battaglia di Swift per i suoi master è arrivata, per pura coincidenza, mentre la sua vecchia nemesi Kanye West pubblicava su Twitter una serie di attacchi contro Universal e pagine confidenziali dei suoi contratti, dettagli finanziari compresi. La diga è crollata? Gli artisti avranno più potere contrattuale? A giudicare dalle dozzine di artisti che hanno alzato la voce, spinti dalle proteste di West e Swift, sembrerebbe di sì. 

(T.I.)

5Artisti vs streaming

Il crollo delle entrate dai concerti ha reso ancora più evidente il sentimento anti-corporate che serpeggiava da anni nel settore. I servizi di streaming e le major riescono a incassare cifre enormi anche durante la pandemia, ma cosa succede ai player più piccoli, essenziali per la salute di ogni ecosistema musicale? Per l’associazione Union of Musicians and Allied Workers, la pandemia è diventata l’occasione per rilanciare la campagna per aumentare la quota dei guadagni dello streaming riservata agli artisti. «Spotify continua a crescere, eppure ai lavoratori della musica di tutto il mondo toccano le briciole», hanno scritto in un manifesto firmato da 26 mila artisti. 

Questo risentimento ha permesso a Bandcamp di farsi notare come alternativa virtuosa alle piattaforme più grosse, soprattutto grazie ai Bandcamp Friday, le giornate in cui il sito rinunciava alla sua quota di guadagni che hanno raccolto 40 milioni di dollari per artisti ed etichette indipendenti. Volete una prova che l’idea ha funzionato? Sia Apple Music che Spotify hanno firmato assegni importanti per supportare etichette indipendenti e locali, nel tentativo di scrollarsi di dosso l’etichetta da aziende avide e prive di scrupoli. (Simon Vozick-Levinson)

6TikTok rende la musica virale

I nuovi artisti che volevano farsi notare nel 2020 avevano solo un’opzione: diventare virali. La pandemia ha costretto tutti a casa e compromesso il discovery power delle radio. TikTok, che ha indubbiamente dominato la cultura pop del 2020, è diventata la soluzione più ovvia. È la piattaforma perfetta: semplice da usare, con grandi possibilità di video editing e un’immensa libreria musicale a portata di mano. Il tempismo non poteva essere migliore: la app è diventata accessibile a livello globale solo nell’estate del 2018, ma è diventata popolare nel 2019, quando l’azienda cinese ByteDance ha fatto confluire sulla piattaforma gli utenti di Musical.ly. Lo scorso anno gli utenti attivi sono aumentati del 60% – da 500 a 800 milioni –, e i tentativi del governo americano di fermare l’app non hanno fatto altro che aumentarne la popolarità. Secondo TikTok, oltre 70 artisti diventati famosi sulla piattaforma hanno già firmato contratti con major: Claire Rosinkranz, Dixie D’Amelio, Powfu, Priscilla Block, Tai Verdes.

TikTok ha anche rivitalizzato i cataloghi dell’era pre-streaming, diventando uno strumento essenziale per il marketing e la promozione della musica. La RCA, per esempio, l’ha utilizzata molto per Tate McRae – che quest’anno ha debuttato come ospite di un talk show, conquistato una nomination ai MTV VMA e ottenuto un enorme successo nelle radio pop americane. In più, alcune aziende che si occupano specificamente di marketing su TikTok hanno cambiato le regole del gioco. Solo nel mese di marzo Against the Grain (ATG), per esempio, ha gestito 160 campagne per artisti ed etichette. Avere un account su TikTok non basta. Il successo sulla piattaforma dipende da contenuti esclusivi, video dietro le quinte, challenge intelligenti e, ovviamente, pubblicazioni costanti nel tempo. Mai smettere di nutrire la bestia. (Samantha Hissong)

7Gli artisti salvati dai brand

Cosa può fare un artista mainstream se all’improvviso non può più contare sulla principale fonte di guadagno, ovvero i concerti? I grandi e ricchi brand globali sono più che felici di venire in soccorso. Varie agenzie hanno confermato a Rolling Stone che quest’anno l’interesse per i contratti con i brand è aumentato vertiginosamente. Travis Scott, l’artista brandizzato per eccellenza, è stato il più prolifico. Ha firmato partnership con Playstation, Nike, Anheuser-Busch e Fortnite, e il suo panino per McDonald’s – il più amato dai memers – è andato a ruba. L’accordo prevedeva anche la vendita di nuovo merchandising. Bad Bunny e Post Malone hanno firmato accordi con Crocs per scarpe orrende ma comode, e Lady Gaga ha annunciato degli Oreo speciali per festeggiare il disco Chromatica. Selena Gomez ha lanciato un nuovo gusto di gelato per promuovere il singolo con le Blackpink. Speriamo che il ritorno dei tour del 2021 possa contribuire a ridurre il numero astronomico di questi accordi. (E.M.)

8La rivincita della musica DIY

Rolling Stone è stato tra i primi a raccontare l’esplosione negli Stati Uniti della musica DIY durante la pandemia, esplosione che ha coinciso con un grande aumento di uscite per servizi come TuneCore e UnitedMasters. Il fenomeno avrà un effetto inevitabile sull’industria discografica globale: la quota di mercato delle major si restringerà e la fetta di torta del mondo indie supererà i due miliardi di dollari. Midia Research, inoltre, stima che più di 14 milioni di persone stanno facendo musica in tutto il mondo, suggerendo l’arrivo di una generazione ancora più grande di artisti DIY. Come reagiranno le major? L’ossessione per le quote di mercato ha guidato per decenni le strategie degli A&R. Risultato: un numero eccessivo di uscite settimanale. Forse con la quotazione in borsa di Warner (e presto anche di Universal) si punterà maggiormente sul rendimento. (T.I.)

9Le major sono ancora più globalizzate

Nel 2015, le etichette indie temevano che la sincronizzazione delle uscite il venerdì avrebbe cancellato le peculiarità locali e confermato l’egemonia del pop americano. Alla fine è successo il contrario: artisti provenienti da Svezia, Francia, Nigeria o Filippine, spesso rapper, stanno godendo un successo in streaming senza precedenti nei loro Paesi. Questo trend non è passato inosservato. Negli ultimi 18 mesi, Universal ha lanciato Def Jam in Africa, Sudest asiatico e Regno Unito, e ha investito in nuovi uffici in Marocco, Israele e altrove. Sony Music, nel frattempo, ha investito in A&R in Africa e lanciato Epic Records in Francia. La lista potrebbe continuare. Le multinazionali sanno qual è regola d’oro del business contemporaneo: non puoi dominare l’industria globale senza dominare quella locale. 

(T.I.)

10La Cina diventa una nuova potenza musicale

Nel 2020 Tencent ha acquistato il 10% di Universal Music Group, percentuale che è arrivata al 20% nelle ultime settimane. Ha acquistato una quota di minoranza di Warner Music Group e aumentato le quote di Gaana, il rivale indiano di Spotify, fino al 34%. In ottobre ha confermato l’acquisto di una quota di minoranza di Instrumental, azienda del Regno Unito che grazie ai suoi strumenti A&R guidati dall’intelligenza artificiale trova gli artisti più forti in streaming (così che le etichette, e ora Tencent, possano ingaggiarli in anticipo). Nel frattempo, Tencent ha anche il 9% di Spotify e il 40% di Epic Games, lo studio che sviluppa Fortnite che, e non è una coincidenza, ha iniziato a ospitare concerti di superstar come Travis Scott. (T.I.)

11La musica dal vivo sale di livello

Conoscete qualcuno a cui sono davvero piaciuti quei concerti con l’audio non mixato e il video pieno di latenza girati con l’iPhone? All’inizio dei lockdown, l’idea degli show in streaming sembrava più una necessità che parte integrante dell’industria discografica. Col passare dei mesi la situazione si è ribaltata. Molte aziende che si occupano di streaming – come Patreon e Maestro – sono fiorenti. La seconda è passata da 50 eventi a pagamento al mese a quasi 200. Creare un’esperienza di grande qualità è molto costoso, ma oggi ne vale la pena. I costi di produzione per lo show virtuale di Dua Lipa, un concerto messo a punto dopo mesi di lavoro, sono arrivati a 1,5 milioni di dollari. Ma con 284 mila biglietti venduti a 10 dollari l’uno, la star ci ha guadagnato. I BTS hanno registrato cifre ancora più impressionanti: 20 milioni di dollari con un solo evento, il Bang Bang Con. Questo, però, non è un fenomeno riservato alle superstar pop millennial, artisti già famosi in rete. Anche i veterani del country, gente abituata a stare in tour più che sui social, hanno iniziato a raccogliere i frutti del fenomeno: Melissa Etheridge, che si esibiva in streaming cinque giorni a settimana con Maestro, ha guadagnato 600 mila dollari in un anno.

Lo stesso vale per locali e arene chiuse da mesi per la pandemia. Il Poisson Rouge di New York, per esempio, ha lanciato un servizio in abbonamento a settembre. Oggi sembra che tutti siano ansiosi di lavorare alla monetizzazione degli streaming. Per guardare gli show su Twitch del duo elettronico Bob Moses, per esempio, bisogna sottoscrivere abbonamenti mensili che vanno da 4,99 dollari a 24,99. Ma tutto questo sarà sostenibile nel mondo post-pandemia? Considerando quanto questi servizi sono accessibili in tutto il mondo, sembra di sì. Quello che non sappiamo, però, è chi vincerà tra gli abbonamenti mensili e i pagamenti una tantum. (S.H.)

12L’alba di un nuovo mainstream

Nell’ultimo decennio, le startup tecnologiche hanno attirato clienti lontano dai vecchi ecosistemi dei media con idee avveniristiche come musica gratuita in abbondanza o abbonamenti economici per vedere film e serie tv in qualunque momento. Adesso, però, tutti pagano mensilmente molte piattaforme diverse e le aziende che hanno dato il via alla rivoluzione si stanno unendo per farne un’altra: unire tutte queste piattaforme in un’unica gigantesca torre di Jenga.

Spotify ha dato il via alle danze acquistando aziende che producono podcast e lanciando una partnership con Hulu. Lo scorso ottobre Apple ha seguito l’esempio lanciando abbonamenti che comprendevano più servizi: Apple Music, Apple News+ e Apple Tv+. Nel frattempo, Google possiede YouTube TV e YouTube Music, Disney lavora a un universo di contenuti in continua espansione e Facebook, un gigante dei media travestito da parco giochi per adulti traboccante di foto di gattini, sperimenta con imitazioni di TikTok (i Reels di Instagram) e con la nuova app di produzione musicale Facebook Collab.

Qual è il punto? In breve: è finita l’era delle singole app venute fuori dal nulla. Le aziende della tecnologia ora sono mainstream e conquisteranno tutto. Sono la nuova corte regnante nel castello dell’intrattenimento. Ah, c’è un’altra cosetta: sanno tutto di noi. (A.X.W.)

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.