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I nuovi incubi dei Placebo fanno sembrare quelli vecchi uno scherzo

Cantavano di frustrazioni e vuoto esistenziale. Ora raccontano la crisi climatica e un’umanità soverchiata da un Grande Fratello. Stai a vedere che si era felici quando si pensava d'essere infelici

Foto: Mads Perch

Mi è difficile separare i Placebo dal concetto di spleen adolescenziale. È impossibile trovare un’altra band pop e dal successo planetario che abbia saputo incarnare così bene la sbilenca educazione sessuale, il rapporto superficiale con le sostanze e gli psicofarmaci, il vuoto esistenziale, la frustrazione e le angosce di almeno due generazioni, con l’ambiguità e la sensualità androgina tipica dell’iconografia degli anni a cavallo tra ’90 e 2000. Un’estetica che oggi risulta un po’ derivativa e un po’ naïf per il modo in cui pretendeva di essere scandalosa e al tempo stesso guardava al futuro con malcelato ottimismo, nonostante tutto.

Qualche giorno fa ho visto uno di quei tanti meme che evidenziano i bug della nostra percezione del tempo. Il sillogismo del meme in questione era più o meno il seguente: La vita è un sogno, il film cult di Richard Linklater con dei giovanissimi Matthew McConaughey e Ben Affleck uscito nel 1993 e ambientato nel 1976, romanticizzava la coolness di quel glorioso decennio di camicie sgargianti e capelli lunghi. Se uscisse nel 2022, sarebbe ambientato nel 2005, che di glorioso invece non ha un bel niente, al massimo dei ragazzetti emo con il piercing al labbro. Nonostante la nostalgia sia il sentimento dominante nella nostra società, nessuno rimpiange veramente gli anni Zero, di cui non ci ricordiamo niente di culturalmente significativo o rilevante, niente da imitare né da rimpiangere, persino la moda che vive costantemente di revival sta facendo una fatica enorme a riproporre tendenze oggettivamente difficili da riciclare, tanto che il ritorno dei pantaloni a vita bassa è vissuta più che altro come la minaccia di un olocausto nucleare.

Quando il pop-rock che aveva prosperato negli anni ’90 è entrato progressivamente in crisi negli anni Zero, un periodo vacuo e di riflusso, le nostre adolescenze stavano finendo, subentravano nuove distrazioni e nuove esigenze, nuove estetiche e nuovi modi di fruire prodotti culturali, alimentati da nuove piattaforme digitali. Probabilmente è per questo che non ci siamo praticamente accorti del pressoché totale silenzio dei Placebo per quasi dieci anni, complici un paio di passaggi a vuoto dal 2006 in poi, a conferma di quanto fosse irrimediabilmente finita e compromessa quella stagione, dalla quale sono usciti completamente integri in pochissimi.

Oggi che siamo di fronte a una nuova momento di cesura e ci apprestiamo a vivere una nuova epoca di passaggio culturale, evidentemente si stanno creando delle crepe nella realtà, sovrapposizioni dello spazio-tempo che fanno sì, per esempio, che a 30 anni abbondantemente incassati io abbia un’improvvisa voglia di fumare un sacco di erba e di trascorrere tutto il pomeriggio a deprimermi e imparanoiarmi sul divano, ascoltando il nuovo disco di una band che non ascoltavo dai tempi del liceo e che ho trovato in forma smagliante.

Sulla copertina di ‘Never Le Me Go’ c’è una foto di Glass Beach, in California

Con Never Let Me Go i Placebo hanno ripreso il filo del discorso interrotto da Meds in poi, rispolverando i vecchi ferri del mestiere – il sound, fatta eccezione per l’utilizzo leggermente più corposo dei synth, è assolutamente invariato e non ha la benché minima pretesa di rinnovarsi, sarebbe stato patetico e per fortuna non è successo – per azzardare una chiave di lettura del nuovo mondo che ci si è materializzato attorno a scatti e glitch, gli stessi della copertina, con un’estetica vecchia di quindici anni e per questo motivo adorabile, mentre eravamo impegnati a fare altro, anche se non sapevamo bene cosa stessimo facendo.

Le 13 tracce sono attraversate da un costante senso di inquietudine e claustrofobia, dissonanze e cacofonie, acuti metallici e psicosi, senza una tregua, musicalmente rappresentata in genere da un pezzo acustico, da un afflato vagamente romantico al quale eravamo stati abituati e che qui manca del tutto. Al contrario, l’atmosfera che si respira dall’inizio alla fine è ancora più spaventosa e perversa che in passato, semplicemente perché quest’epoca è costituita da fenomeni apocalittici e fuori dal nostro controllo, con i quali abbiamo imparato a convivere mostrando un cinismo e uno spirito di sopravvivenza disumani.

La versione dei Placebo del 2022 prevede ancora tutto il corollario di fantasmi interiori, abuso di farmaci, visioni demoniache, autolesionismo e perdizione, seguendo gli schemi arcinoti che a tratti sfiorano l’autocelebrazione, che, per inciso, è esattamente ciò che cerchiamo. A questo si aggiunge l’analisi della realtà circostante, che non ha certo bisogno di essere alterata per risultare spaventosa e quanto mai apocalittica. Abbiamo la crisi climatica e l’umanità che lotta per la sopravvivenza, bevendo acqua radioattiva dalle pozzanghere, in un più ampio contesto nel quale si denunciano le nuove forme di controllo e assoggettamento collettivo al capitalismo della sorveglianza. Nello scenario descritto dalla voce di Brian Molko – che fa il suo lavoro come se il tempo si fosse fermato – un potere nascosto fa il suo porco comodo riversandosi su una popolazione anestetizzata e inetta, nel quale agiscono i paranoici protagonisti di questo romanzo cyberpunk, affetti da dipendenze e incubi che riaffiorano con forza brutale, in fuga dalla repressione ma senza una vera meta, un piano o uno scopo.

Sembrano passati secoli dalla sbornia degli anni ’90 o dal vuoto pneumatico degli anni Zero. È difficile oggi accettare che quelli, visti i tempi che corrono, sono stati gli ultimi anni felici.

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