I 50 migliori bassisti di tutti i tempi | Rolling Stone Italia
Classifiche e Liste

I 50 migliori bassisti di tutti i tempi

Una grande linea di basso è come un mantra: potrebbe continuare per sempre e diventa sempre più profonda. Dai maestri del funk ai maghi del prog e del jazz, ecco i musicisti che hanno fatto la storia dello strumento

I 50 migliori bassisti di tutti i tempi

Foto nell'illustrazione: AP/Shutterstock; Joseph Okpako/WireImage; Elaine Thompson/AP/Shutterstock

«Il basso è la base», ha detto la leggendaria turnista Carol Kaye, «e con il batterista crei il ritmo. Qualunque cosa suoni, costituirà la cornice intorno al resto della musica». Una grande linea di basso, che si tratti del riff ipnotico di Paul McCartney su Come Together, dell’accompagnamento malizioso di Bootsy Collins su Sex Machine di James Brown o il pulsare minimale di Tina Weymouth su Psycho Killer dei Talking Heads, è come un mantra: suona come se potesse continuare per sempre e diventa più profonda con il passare degli ascolti. Chitarristi, cantanti e fiatisti hanno solitamente i passaggi più vistosi, mentre i batteristi convogliano gran parte dell’energia cinetica, ma il contributo del bassista è fondamentale: è la parte che si ripete all’infinito nella tua testa, molto dopo il concludersi della musica.

I bassisti sono spesso trascurati e sottovalutati, anche tra le fila delle proprie band. «Non era il lavoro più ambito», ha dichiarato una volta McCartney, riflettendo sul momento fatidico in cui ha imbracciato il quattro corde dopo l’uscita dai Beatles di Stu Sutcliffe. «Nessuno voleva suonare il basso, volevano tutti stare in prima linea».

Tuttavia, lo strumento ha una sua orgogliosa tradizione all’interno della popular music. Si spazia dal lavoro magistrale al contrabbasso di Jimmy Blanton nell’orchestra di Duke Ellington e di pionieri del bebop come Oscar Pettiford, fino ad altri geni del jazz come Charles Mingus e Ron Carter; assi delle sale d’incisione come Carol Kaye e James Jamerson; guerrieri rock del calibro di Jack Bruce dei Cream e John Entwistle degli Who; maestri del funk come Bootsy e Larry Graham di Sly and the Family Stone; portenti del prog come Chris Squire degli Yes e Geddy Lee dei Rush; dèi della fusion come Stanley Clarke e Jaco Pastorius; e maestri del punk e del post punk come la Weymouth dei Talking Heads e Mike Watt dei Minutemen. L’epoca alternative ci ha consegnato nuovi eroi dello strumento: dall’istintiva Kim Gordon dei Sonic Youth, fino allo stravagante Les Claypool dei Primus, e più di recente, un nuovo manipolo di icone del basso, tra cui Esperanza Spalding e l’onnipresente Thundercat, che hanno situato le basse frequenze al centro dei propri universi musicali.

Come per la nostra lista dei 100 batteristi più importanti, questo riepilogo dei 50 bassisti migliori di sempre celebra l’intero spettro. Non si tratta di una classifica da intendersi sulla base di abilità oggettive, né prende in esame una serie di criteri come misura di importanza. Al contrario, è un inventario dei bassisti che hanno avuto un impatto diretto e visibile sulla creazione (prendendo in prestito il termine usato da Carol Kaye) delle fondamenta della popular music: dal rock al funk e al country, fino al R&B, la disco, l’hip hop e oltre, nel corso dell’ultimo mezzo secolo, o giù di lì. Troverete i virtuosi indiscutibili, ma anche musicisti la cui concezione minimale dello strumento ha elevato quel che gli accadeva intorno.

«Lo afferri, ci passi sopra le mani e lo senti», ha detto Flea dei Red Hot Chili Peppers, a proposito del suo basso signature. «Usi lo slap, lo colpisci, lo pizzichi e strappi le corde, e se sei fortunato finisci in questo stato ipnotico, oltre ogni immaginazione, dove non ti ritrovi a pensare, perché sei soltanto un canale per questo ritmo che proviene da chissà dove, da Dio arriva a te e a questo strumento, per mezzo di un cavo e di un amplificatore».

Onoriamo dunque 50 musicisti che hanno provato quello stesso stato inebriante grazie al basso, e che nel frattempo hanno cambiato il mondo.

50Thundercat

Foto: Rich Fury/Getty Images

Scandagliate i suoni che hanno definito l’avanguardia dell’hip hop, del jazz, del R&B, dell’elettronica e molto altro nello scorso decennio (compresi gli album di Kendrick Lamar, Janelle Monáe, Flying Lotus, Kamasi Washington, Erykah Badu, Childish Gambino) e incapperete nello stesso nome più e più volte: Thundercat. All’anagrafe Stephen Bruner, il bassista è cresciuto in una famiglia di musicisti e ha ottenuto uno dei primi ingaggi con i Suicidal Tendencies, veterani del thrash punk. Da lì, si è trasformato in un eroe musicale fuori dall’ordinario: uno strumentista straordinariamente prolifico che mescola un amore profondo per il funk classico e per la fusion a influenze che spaziano dallo yacht rock fino al nu metal e al neo soul. Che si tratti delle sue canzoni giocosamente eccentriche, o di una delle innumerevoli ospitate, il tipico suono del suo basso a sei corde, rotondo e burroso, ma con tanto mordente, è sempre in evidenza. «Puoi fare qualsiasi cosa con il tuo strumento, al di fuori della sua funzione primaria», ha dichiarato a Interview nel 2013. «Il basso è il mio sostegno, ma è il sostegno migliore di sempre».

49Duff McKagan

Foto: Dana Nalbandian/WireImage

Prima di unirsi ai Guns N’ Roses, Duff McKagan ha a malapena toccato il basso. È un ex chitarrista ed ex batterista, venuto su nella scena punk della Seattle dei primi anni ’80, e il connubio tra le sue origini e un approccio grezzo allo strumento dona ruvidezza a brani dei Guns N’ Roses come It’s So Easy e You Could Be Mine. Per imparare a suonare, McKagan fa incetta delle parti di basso di Prince («Adoravo quel ritmo R&B»), di John Paul Jones dei Led Zeppelin, di Paul Simonon dei Clash, Lemmy Kilmister dei Motörhead e, sorprendentemente, Barry Adamson del gruppo post punk Magazine. «Nei Magazine, le parti di basso erano così prominenti perché usava il chorus», ha detto McKagan, riferendosi al dispositivo che dona allo strumento un suono vitreo, quasi vuoto, «ed è proprio per quello che ho preso il chorus per i Guns». È l’arma segreta che aiuta McKagan a mettere il suo basso in risalto su Appetite for Destruction e Use Your Illusion, eguagliando la musicalità di Slash e l’asprezza di Axl Rose, rendendolo parte integrante del suono della band, e dell’hard rock degli anni ’80 e ’90, sebbene non si renda conto dell’influenza esercitata. «Non so come mi considerano», ha detto una volta. «Non ci faccio caso. In realtà mi concentro semplicemente sul mio mestiere».

48Kim Deal

Foto: Martyn Goodacre/Getty Images

Nel 1986 Kim Deal lavora come segretaria in un ufficio medico, quando legge un annuncio sul Boston Phoenix. Una band cerca un «bassista appassionato di Hüsker Dü e Peter, Paul and Mary». Sarà anche stata l’unica a presentarsi, ma il suo canto zuccherino e le doti punk-rock sul basso l’hanno resa assolutamente adatta ai Pixies. Provate a immaginare Debaser, la traccia d’apertura di Doolittle, senza l’iniziale parte di basso pulsante, oppure Gigantic (una delle poche canzoni dei Pixies scritte da lei) priva della semplice linea ipnotica che la sospinge. Deal attribuisce la sua efficacia come bassista alla caratteristica mancanza di orpelli. «Non tutti riescono a suonarla, soprattutto i “veri” bassisti», ha dichiarato una volta, riflettendo sulla semplicità della sua parte su Where Is My Mind?. «Vogliono sottolineare ogni passaggio, vogliono sentirsi coinvolti. Non si limitano a pedalare dritti».

47Leland Sklar

Foto: Rob Verhorst/Redferns/Getty Images

La musica dei cantautori anni ’70 esige strumentisti in grado di padroneggiare ballad e mid-tempo rockeggianti senza rubare la scena al cantante. Con in mente un tale obiettivo, gente come James Taylor, Jackson Browne, Carole King, David Crosby e Graham Nash si rivolge regolarmente a Leland Sklar. «Il nostro ruolo era supportarli e accompagnarli», dice Sklar, riferendosi ai turnisti di Los Angeles dell’epoca. «Non eravamo lì per metterci in mostra, ma abbiamo comunque forgiato un’identità». Il basso elegante, poco vistoso ma melodico di Sklar è apprezzabile in molti dei classici di Taylor (You’ve Got a Friend, Handy Man, Your Smiling Face) come pure in Doctor My Eyes e in tutto il disco Running on Empty di Jackson Browne, e sul classico di culto No Other di Gene Clark. Negli anni ’80 il suo basso ricorre sugli album di Phil Collins, comparendo su Don’t Lose My Number e altre canzoni, e Sklar si cimenta anche con il funk, sull’inno dance-club It’s Raining Men del duo Weather Girls. Non c’è da stupirsi che Crosby l’abbia definito «il miglior bassista del mondo».

46Peter Hook

Foto: Martyn Goodacre/Getty Images

Sebbene i due provengano da contesti e generazioni diverse, Peter Hook è sempre stato il Keith Richards del basso elettrico: un maestro del groove, che sciorina i riff definitivi della sua epoca con una forte aura da ragazzaccio. Nei Joy Division e nei New Order ha ridefinito il ruolo dello strumento nel post punk degli anni ’70 e ’80, e generazioni di giovani artistoidi hanno provato a emulare il suo pulsare melodico su She’s Lost Control, per non parlare della sua postura strafottente. Come tanti musicisti di Manchester, Hook vede i Sex Pistols e decide di formare subito un gruppo punk. Il suo basso diventa lo strumento principale nei Joy Division e sospinge classici quasi doom come Transmission e No Love Lost. Attribuisce al cantante Ian Curtis il merito del suo caratteristico suono e di averlo fatto suonare in alto sul manico: «La scusa che avevo per suonare le note alte era che non riuscivo a sentirmi quando suonavo le note basse (i nostri amplificatori facevano davvero schifo), ma a Ian piaceva». Quando i Joy Division mutano in New Order, con successi ballabili come Age of Consent, diventa il bassista più imitato del periodo. Come ha detto Colin Greenwood dei Radiohead, «Hooky suonava un sacco di note molto in alto, e tirava fuori timbri fantastici da quel registro. Perciò sono sempre stato uno che si muove parecchio su e giù per il manico». Da sempre pieno di vita, Hook ha scritto tre autobiografie esilaranti e (forse non a caso) non è più in contatto con gli altri membri dei New Order.

45Esperanza Spalding

Foto: Elaine Thompson/AP/Shutterstock

Prendete una qualsiasi delle performance di Esperanza Spalding e molto probabilmente ascolterete solo una parte di quello che sa fare: dal crooning di standard old school fino all’esecuzione di audaci inediti futuristici che si rifanno in egual misura al R&B più morbido e al miglior prog rock. Il suo approccio virtuosistico e infinitamente versatile è il motore che muove ogni cosa. È un raro esemplare di musicista in grado di tirar fuori una cover super funky di Prince, suo compianto amico; di capitanare una band con le sue flessuose parti di basso elettrico; o di saper tenere testa a mostri sacri dell’improvvisazione come Wayne Shorter, Terri Lynne Carrington, Jack DeJohnette e Joe Lovano. Inizialmente un portento del violino, la Spalding diventa bassista per caso, alle superiori. «È come svegliarsi un giorno e capire di essere innamorata di un collega», ha detto, riguardo alla scelta dello strumento. Da allora, si è trasformata in una delle ambasciatrici del basso più in vista del ventunesimo secolo, aggiudicandosi strada facendo quattro Grammy Awards. In un’intervista del 2018, la Carrington, batterista e collaboratrice della Spalding, riflette sul perché sia ingiusto fare un confronto tra Esperanza e i bassisti jazz virtuosi del passato. «Introdurre un’estetica maggiormente femminile nella musica è obbligatorio, a questo punto. Perché leggende anni ’50 e ’60 come Paul Chambers non si misuravano con lo strumento come fa lei», ha detto la Carrington. «Non pesta forte a quel modo, gli dona un certo tipo di emozione fugace, che è meravigliosa».

44Joseph Makwela

Detto in poche parole: Joseph Makwela ha inventato il basso sudafricano. È stato il cuore pulsante della Makgona Tshole Band, la versione di Johannesburg dei Funk Brothers della Motown o della Wrecking Crew di Los Angeles: la house band che ha suonato su innumerevoli successi degli anni ’60 e ’70, concependo il sound del mbaqanga. Makwela è stato il primo possessore di un basso elettrico in Sud Africa: lo acquista da un uomo bianco, che lo ha importato dopo aver visto gli Shadows suonare dal vivo. Durante le oppressioni razziste dell’apartheid, Makwela compra quel basso di seconda mano e reinventa completamente la musica sudafricana. Ha ispirato musicisti come Bakithi Kumalo, che ha suonato su Graceland di Paul Simon. «Joseph Makwela è stata la prima persona che ho visto suonare il basso elettrico», ha detto Kumalo a Bass Player nel 2016. «Suonava melodie nel registro alto, che mi hanno molto influenzato quando ho imbracciato il basso fretless». Il suo stile aggressivo ma fluttuante ha definito il groove mbaqanga su classici come Umculo Kawupheli delle Mahotella Queens e Ngicabange Ngaqeda di Mahlathini. La Makgona Tshole Band si è riunita negli anni ’80, quando il mondo ha finalmente scoperto il mbaqanga attraverso Graceland e la fondamentale compilation The Indestructible Beat of Soweto.

43Mike Watt

Foto: Karjean Levine/Getty Images

Pochi musicisti, in ogni genere, hanno infuso teorie radicali nella pratica musicale allo stesso modo di Mike Watt, che ha fondato i Minuteman a Sen Pedro, California, nei tardi anni ’70 con il cantante e chitarrista D. Boon e il batterista George Hurley. «Voleva il basso molto prominente, e anche la batteria», ha detto Watt riferendosi a Boon. «La intendeva come una ridistribuzione della ricchezza e questa cosa a me piaceva. Mi ha messo in testa l’idea per la quale ogni volta che ti ritrovi a suonare in un ensemble insieme a più di una persona cerchi di intrattenere una conversazione, di quelle interessanti». Prendendo a cuore tale massima democratica, Watt ha contribuito a ripensare la musica punk dalle basi, creando canzoni brevi, affilate, che inglobano funk, jazz, folk, blues e addirittura rap. Watt ha tenuto testa a qualsiasi colosso della scena hardcore: ascoltate l’attacco al fulmicotone che apre Bob Dylan Wrote Propaganda Songs del 1982. Come dimostrato non soltanto nei Minutemen, ma anche con i Firehose, la successiva band di Watt e Hurley; i Dos, un duo contemplativo con la collega, pioniera del basso punk e un tempo sua moglie Kira Roessler; nella reunion degli Stooges; e con le inquiete formazioni che lo hanno portato ai giorni nostri, Watt ha sempre fatto del suo meglio per mettere il basso in evidenza (in maniera molto simile a uno dei suoi primi eroi, Jack Bruce dei Cream), suonando parti gioiose, frenetiche, che rispecchiano la personalità di uno dei più instancabili eterni evangelisti del punk.

42Tony Levin

Foto: Koh Hasebe/Shinko Music/Getty Images

Tony Levin ha contribuito con il suo stile inconfondibile alla musica di tantissimi artisti, da John Lennon a David Bowie fino a Cher. Ma è noto soprattutto per il suo lavoro nei King Crimson e con Peter Gabriel, che lo definisce «l’imperatore delle basse frequenze». Levin ha contribuito più di tutti nel dare fama al Chapman Stick, suonando lo strumento, fondato sulla tecnica del tapping, in alcuni dei successi di Gabriel come Shock the Monkey. L’imperatore ha iniziato come turnista negli anni ’70: c’è lui sul brano numero uno in classifica di Paul Simon, 50 Ways to Leave Your Lover. Conosce Gabriel subito dopo l’abbandono dei Genesis da parte del cantante e da allora rimane parte integrante della sua musica: sarebbe difficile immaginare Big Time o Sledgehammer senza il suo basso. Quando Robert Fripp è in procinto di dare nuova vita ai King Crimson, dopo una pausa di sette anni, recluta Levin per la formazione leggendaria degli anni ’80, che registra Discipline (detiene un record, in quanto bassista rimasto più a lungo in seno ai Crimson). Levin suona con grande passione su due delle più straordinarie ballad del Bowie più recente, Slip Away e Where Are We Now?. Ha inventato le Funk Fingers, delle mini-bacchette da applicare alle dita della mano destra, pensate per il suo approccio percussivo. Continua, inoltre, a esplorare lo Stick con il suo progetto Stick Men, in brani come Not Just Another Pretty Bass. «Oserei dire che il modo in cui Oscar Pettiford suonava il basso nel jazz è simile alla maniera in cui io, molto più tardi, avrei provato a comporre parti rock e pop», ha detto Levin nel 2013, riflettendo sulle origini del suo stile inusuale. «Non è facile descrivere esattamente cosa sia ma, per farla breve, si tratta di trovare le note giuste e suonarle con la giusta emozione».

41George Porter

Foto: Tim Mosenfelder/ImageDirect/Getty Images

Non c’è niente che esemplifica il groove tanto quanto l’interplay ritmico tra il bassista George Porter Jr. e il batterista Zigaboo Modeliste dei Meters, un rapporto che richiede una compattezza estrema, atta ad evocare la rilassata atmosfera festaiola della loro New Orleans. Grazie alla lunga militanza in uno dei gruppi più funk della popular music, Porter ha sostenuto le basse frequenze di classici come Cissy Strut, Funky Miracle, Just Kissed My Baby e Hand Clapping Song, fornendo riff rotondi, fluidi, che hanno l’incedere di una Second Line, tradizionale parata di New Orleans, e che fanno vibrare le casse con la loro aggressività. Ascoltate il modo in cui tesse il tipico andamento sincopato negli spazi ristretti di Pungee, dal secondo disco della band (pressoché perfetto) Look-A Py Py. Il lavoro di Porter in seno ai Meters è diventato una delle strutture portanti dell’hip hop, con numerosi artisti del calibro di A Tribe Called Quest, Cypress Hill, N.W.A. e Public Enemy che hanno campionato brani della band; il bassista compare anche in diverse registrazioni pop di artisti come Labelle, Dr. John, Robert Palmer, Lee Dorsey ed Ernie K-Doe, essendo uno dei turnisti preferiti del produttore Allen Toussaint. Porter attribuisce l’unicità del suo stile a un background musicale variegato. «Vedi, dato che avevo studiato chitarra classica, conoscevo le formule del basso, sebbene le canzoni suonate durante le lezioni fossero country & western», ha detto di recente. «Ma ho imparato a suonare le parti di basso e gli accordi contemporaneamente. Quindi, capisci, è stata una cosa naturale, che è transitata dalla chitarra una volta arrivato il momento».

40Bill Black

Foto: Michael Ochs Archives/Getty Images

Bill Black: il bassista del primo Elvis Presley, membro dei Blue Moon Boys, il celebre trio formato dal cantante con il chitarrista Scotty Moore, non è mai stato considerato uno strumentistiadallo stile appariscente, nemmeno per il suo tempo, eppure la sua innovativa tecnica slap ha rappresentato la pietra angolare della rivoluzione rock’n’roll di Presley. «Bill era uno dei bassisti peggiori del mondo», ha detto una volta Sam Phillips, proprietario della Sun Records, «però, amico, quanto ci dava dentro con lo slap!». Il suono propulsivo di Black sul contrabbasso dona alle prime canzoni di Presley come Heartbreak Hotel e That’s All Right l’entusiasmante spinta di una sezione ritmica completa, nonostante la totale assenza della batteria. Negli anni ’70, Paul McCartney è talmente ossessionato dalle parti di Black, in particolare quella su Heartbreak Hotel, che sua moglie Linda recupera il contrabbasso originale usato durante le sessioni e glielo regala. Moore ricorda il ruolo di Black durante la registrazione del classico country di Presley, Blue Moon of Kentucky, la prima B-side del cantante: «Bill è balzato in piedi, ha afferrato il basso e ha cominciato a slappare, cantando in falsetto. Era Bill al suo meglio. La canzone è stata registrata sotto forma di ballad, ma Bill la cantava veloce, con la linea di basso a martellare freneticamente. Ad Elvis è piaciuta tantissimo».

39Kim Gordon

Foto: David Corio/Redferns/Getty Images

Negli anni in cui erano il punto di riferimento della scena alternative, i Sonic Youth non avevano niente di ordinario, a partire dai loro video creativi fino agli strati lerci di chitarre, accordate in maniera bizzarra; come pure le parti di basso. Kim Gordon non ha mai suonato il basso prima di co-fondare la band nei primi anni ’80 e, per sua stessa ammissione, le sue abilità non hanno mai raggiunto livelli virtuosistici. Ma il suo stile primordiale è adatto a un gruppo che predilige in primis l’atipicità, tanto da utilizzare chitarre rotte e ricostruite. «Il mio stile al basso ha sempre funzionato alla grande, perché era minimale», ha detto. «C’erano alcune canzoni in cui Thurston [Moore] aveva una melodia per il pezzo, perciò voleva che suonassi le note fondamentali, ma sentivo che il mio compito era non diventare una brava bassista». Il suono inconfondibile della Gordon, un groove gutturale che ricorda un treno della metro in arrivo, può essere apprezzato nell’arco dell’intera discografia della band: dai primi, oscuri fragori in Brave Men Run (In My Family) fino alle tracce di Dirty, loro apice commerciale degli anni ’90 (Youth Against Fascism, Sugar Kane), e più avanti, in prove più letargiche come Jams Run Free.

38Pino Palladino

Foto: Elma Okic/Shutterstock

Alla morte improvvisa di John Entwistle, nel 2002, gli Who avrebbero potuto rivolgersi a qualsiasi bassista sulla faccia della Terra per rimpiazzarlo. Hanno scelto Pino Palladino. Il musicista gallese ha suonato con chiunque, da Jeff Beck a Elton John, passando per John Mayer, Don Henley e B. B. King. Ma il suo vero punto di forza è l’R&B e gran parte delle sue incisioni più significative sono su album come Voodoo, capolavoro di D’Angelo uscito nel 2000, e Mama’s Gun di Erykah Badu, dello stesso anno. In entrambi i dischi, Palladino sciorina groove levigati, sincopati, un po’ come fatto da James Jamerson, uno dei suoi eroi, sugli album Motown degli anni ’60. Il coinvolgimento negli Who è uno degli apici della carriera in termini di esposizione. In seguito è stato in tour con Nine Inch Nails e Simon & Garfunkel. «Quando ho ricevuto la chiamata per suonare con gli Who, stavo lavorando con Erykah Badu e D’Angelo, e ho dovuto cambiare totalmente il mio stile», ha detto. «Il manager mi ha detto: “John [Entwistle] è morto. Puoi fare un concerto all’Hollywood Bowl tra tre giorni?”. Non declini un’offerta del genere. Ho pensato alle conseguenze soltanto dopo. Le istruzioni di Pete Townshend sono state: “Suona quello che ti pare, basta che suoni forte”».

37John McVie

Foto: Fin Costello/Redferns/Getty Images

Nel bel mezzo della tempesta di emozioni dei Fleetwood Mac, l’empatico, solido John McVie ha mescolato la robustezza del rock old school con la morbidezza californiana, gettando le basi per il suono della band nell’arco di cinque impareggiabili decenni. McVie ha iniziato con John Mayall & the Bluesbreakers a metà anni ’60 e ha trasferito quel substrato rock ai Fleetwood Mac (il nome della band viene in parte da lui), formando un legame incrollabile con il collega Mick Fleetwood durante il periodo jam oriented con Peter Green, poi proseguito con il successo dell’epoca Buckingham-Nicks. Classici come Go Your Own Way e Rhiannon sono potenti e affilati, diversi dai pezzi dei colleghi più soft di Los Angeles: «Sei un mostro, John», esclama Fleetwood ascoltando un playback delle parti di basso di McVie su Go Your Own Way, nel documentario della serie Classic Albums dedicato a Rumours, ed è impossibile pensare a The Chain senza che il break del basso di McVie ti rimanga in testa. «Cerco sempre di procedere insieme alla cassa della batteria», ha detto una volta McVie. «Mick sa dove vado a parare, e io so dove va a parare lui, dunque tutto torna: lo spero, almeno».

36Les Claypool

Foto: Paul Natkin/WireImage

Nei tardi anni ’80 avreste potuto lanciare un sasso in un punto a caso della Bay Area e centrare un bassista thrash funk. Tuttavia, nella legione di strumentisti dediti allo slap più aggressivo c’è chi si distingueva: Les Claypool. L’allampanato leader dei Primus pensa al basso come uno strumento solista, piuttosto che ritmico, sospingendo canzoni che contengono di tutto: da una tecnica iperattiva sul manico, con la mano sinistra (il quasi-codice Morse dell’introduzione di Jerry Was a Race Car Driver), fino allo strumming fulmineo (Pudding Time). «Una delle cose più importanti che ho deciso di fare agli inizi è stata suonare utilizzando tre dita. Un sacco di bassisti usano due dita, così ho pensato che, se ne avessi usate tre, sarei andato più veloce». Claypool ha un pollice formidabile e uno stile che trae ispirazione tanto da Captain Beefheart quanto da Bootsy Collins, con un suono eclettico che completa quelle che chiama «canzoncine piratesche» incentrate su gatti alfa, pescatori leggendari e montanari assassini. Nel suo modo di suonare ha inglobato qualsiasi cosa, dai riff metal (ascoltatevi le terzine di The Toys Go Winding Down) fino ai raga mediorientali; nei progetti collaterali, jam band super come Oysterhead e Colonel Claypool’s Bucket of Bernie Brains, ha maturato incredibili capacità d’improvvisazione; e l’attuale collaborazione con Sean Lennon gli consente di deviare in lidi prog-psichedelici, arrivando dalle parti dei Grateful Dead. Più di ogni altra cosa, Claypool ha liberato il basso dal semplice ruolo di supporto nelle basse frequenze. «Godevo sul serio nell’osservare il modo in cui si approcciava allo strumento», ha detto Geddy Lee, bassista dei Rush, che è stato in tour con Claypool negli anni ’90. «Era solito dirmi: “Hai avuto una grande influenza su di me”, però ha maturato uno stile personale. Ha un senso del ritmo davvero interessante».

35Louis Johnson

Foto: Echoes/Redferns/Getty Images

Se Louis Johnson non avesse fatto altro nella carriera che suonare l’inarrestabile, trascinante parte di basso che forma e muove Billie Jean di Michael Jackson, avrebbe comunque meritato di essere incluso in questa lista. Ma essendo uno dei turnisti prediletti di Quincy Jones, Johnson ha suonato su un mucchio di successi dei tardi anni ’70 e primi anni ’80, contribuendo alla realizzazione di parte del pop maggiormente sofisticato e propulsivo della storia. È stato un maestro nel maneggiare l’innovazione melodica operata da James Jamerson: ascoltate il passaggio in Off the Wall di Michael Jackson in cui suona una linea leggiadra che eguaglia in raffinatezza e precisione la voce energica del cantante. Ma Johnson aveva anche compreso il valore della potentissima tecnica thumpin’ and pluckin’ di Larry Graham, roba da far vibrare i vetri. Eccolo di nuovo su I Keep Forgettin’ (Every Time You’re Near) di Michael McDonald, questa volta a suonare parti basse (quante note infila nel riff a circa dieci secondi dall’inizio?) che hanno ispirato una generazione di produttori hip hop.«Gli ho insegnato a suonare usando il meglio della mia competenza in base a quel che avevo ascoltato all’epoca», ha detto il fratello e compagno d’avventura di Johnson, George. Lui era soprannominato Lightinin’ Licks (riff fulminanti), Louis invece Thunder Thumbs (pollici tonanti). «Mi sono sentito come un bravo quarterback che passa la palla. Louis era appassionatissimo. Ha preso la palla e si è messo a correre per fare touchdown».

34Richard Davis

Foto: Tom Copi/Michael Ochs Archives/Getty Images

Nel curriculum degli anni ’60 di Richard Davis compaiono alcune delle espressioni musicali più entusiasmanti e durature del decennio: da punti di riferimento del progressive-jazz come Out to Lunch! di Eric Dolphy e Point of Departure di Andrew Hill, ad Astral Weeks, capolavoro free folk di Van Morrison. Ed è soltanto una parte della sua produzione: negli ultimi sessant’anni, ha impreziosito le band, le sessioni in studio e le esibizioni di giganti come Sarah Vaughan, Paul Simon e Igor Stravinsky. Davis dà il meglio di sé in contesti intimi, nei quali risalta il suo modo di suonare profondamente empatico: sia quando suona con l’archetto, in duetto con Dolphy su Come Sunday di Duke Ellington, sia quando fornisce un comodo sostegno ritmico al racconto di piccola delinquenza di Bruce Springsteen Meeting Across the River, o evocando fraseggi incredibilmente toccanti che incorniciano la poetica di Morrison su Beside You. «È Richard che dà carattere all’album», ha dichiarato il produttore di Astral Weeks Lewis Merenstein. «È l’anima del disco».

33Lemmy

Foto: Fin Costello/Redferns/Getty Images

La canzone più celebre dei Motörhead, Ace of Spades, si apre con Lemmy Kilmister che esegue una linea solista saltellante, per poi sfociare in una melodia, che suona come se il suo Rickenbacker puntasse dritto all’inferno, e intanto canta sul sentirsi “nato per perdere”. Sia nella poetica, sia nell’approccio al basso, l’estetica di Kilmister ha a che fare con la sconsideratezza. Prima di formare i Motörhead, era un chitarrista ritmico. È passato al basso per unirsi agli Hawkwind. «Suonare il basso è come suonare la chitarra, senza le due corde più alte», ha detto una volta. «Ho semplicemente suonato gli accordi con le corde che mi sono rimaste. È inusuale, ma per la nostra musica funziona». Ha sviluppato uno stile particolarmente crudo dopo essere stato cacciato dal gruppo per via dell’uso di stupefacenti. «Lemmy mi ha influenzato per il modo in cui usa la distorsione: è diverso, nuovo ed eccitante», ha detto Cliff Burton dei Metallica. L’approccio di Kilmister si sposava perfettamente con la voce abrasiva e il suo humour da perdente, e ciò lo ha reso unico: una diversità di cui andava fiero. «Suono come nessun altro», ha detto una volta. «Ho sempre voluto essere John Entwistle, ma dato che lui esisteva già, sono diventato una sua brutta copia».

32Sting

Foto: Peter Noble/Redferns/Getty Images

Sting è stato talmente tanto elogiato per le doti di autore e cantante che la sua tecnica al basso è finita in secondo piano. L’ex frontman dei Police ha imparato a cantare e suonare ascoltando dischi a 78 giri, cioè a velocità ridotta, in modo da ascoltare più chiaramente le parti di basso. «Avevo lavorato come chitarrista in alcuni club, poi qualcuno mi ha prestato un basso artigianale e me ne sono innamorato per le dimensioni, per l’estetica. Ho capito che avrei potuto suonare il basso e assieme cantare», ha detto a Bass Player. «Ho imparato come suonare le parti di Paul McCartney sulle canzoni dei Beatles e a cantarle allo stesso tempo». Con i Police, ha contribuito a cementare la miscela di new wave e reggae della band con linee melodiche e palpitanti. Potete ascoltare il suo basso ben in evidenza in Every Breath You Take e Roxanne, dove sostiene senza sopraffarli i riff di chitarra di Andy Summers. Ha continuato ad espandere i suoi orizzonti creativi, ad esempio su 44/876, l’album del 2018 in coppia con Shaggy, dove le sue performance piene di gusto e orientate al dub suggellano i groove rilassati delle canzoni. «Un raggio di sole dorato è sceso dal cielo, ha attraversato il tetto dell’edificio, il soffitto ed è finito su questo bassista», ha detto Stewart Copeland a proposito della prima volta in cui ha visto Sting sul palco, nel 1976. «E al tempo, dato che suonavo la batteria in una band, non mi sono nemmeno accorto di come cantasse».

31Bernard Edwards

Foto: Ebet Roberts/Getty Images

«Tutti hanno bisogno del venerdì sera», ha detto Bernard Edwards degli Chic nel 1979. Edwards si è perfezionato studiando jazz e classica, fino a diventare il bassista più influente della disco music. Ha trasformato ogni giornata in un venerdì sera col compagno di band e amico di lunga data Nile Rodgers, e ha fornito la colonna sonora a migliaia di piste da ballo alla fine degli anni ’70 e non solo. Per entrare in questa lista sarebbe bastata Good Times, una delle parti di basso più campionate della storia, nonché l’ispirazione per il primo successo hip hop entrato nel mainstream, Rapper’s Delight. Ma in quanto coautore, produttore e bassista di brani degli Chic come Le Freak, I Want Your Love e Everybody Dance, per non dire di successi delle Sister Sledge (We Are Family), Diana Ross (I’m Coming Out) e Madonna (Like a Virgin, Material Girl), Edwards ha trasformato all’istante riff che ti fanno muovere la testa su e giù in classici della dance e del pop. Quando gran parte dei bassisti si sono defilati, il sempre stiloso Edwards si è spostato in prima linea. È morto nel 1996 all’età di 43 anni. Finché ci sarà un matrimonio, un party o un qualsiasi altro motivo per festeggiare qualcosa, il suo contributo rimarrà immortale.

30Bob Moore

Foto: Michael Ochs Archives/Getty Images

In qualità di membro principale del famoso A-Team di Nashville, il suono del contrabbasso di Bob Moore può essere ascoltato sui successi di chiunque, da George Jones a Bob Dylan. Accanto a leggende come Charlie McCoy, Buddy Harman, Ray Edenton e Hargus “Pig” Robbins, lo stile sofisticato di Moore ha contribuito a trasformare Nashville in uno dei centri musicali di punta della nazione, quando artisti come Patsy Cline, Chet Atkins e Brenda Lee hanno iniziato a fondere il country con il pop pianistico e il jazz, durante gli anni ’50 e ’60. «Mi sedevo accanto a Pig e gli osservavo la mano sinistra», ha detto Moore, «riuscivo a intuire quando si sarebbe mosso, e mi muovevo esattamente insieme a lui». Il basso di apertura su King of the Road di Roger Miller? È Moore, che ha stimato di aver partecipato a circa 17 mila registrazioni nell’arco della carriera. Moore ha trasformato per sempre il ruolo dello strumento nell’ambito delle sessioni country. «All’epoca, il bassista era tipo un cabarettista nelle fila di una band», ha dichiarato una volta a proposito dei suoi inizi nella Nashville degli anni ’40. «Io ero qualcosa di nuovo: ero un musicista».

29Tina Weymouth

Foto: Richard E. Aaron/Redferns/Getty Images

Psycho Killer dei Talking Heads del 1977 crea un’atmosfera minacciosa ancor prima che il frontman David Byrne canti una parola. Questo perché si apre con una delle parti di basso più ossessive della storia del rock, ad opera di Tina Weymouth. Procede senza accompagnamento per i primi otto secondi, preparando il terreno per un racconto di paura e follia che ha lanciato una delle più grandi band della storia. Ed è una grave ingiustizia che Byrne si sia sempre accaparrato il merito dei loro successi. La Weymouth ha giocato un ruolo cruciale nella scrittura dei Talking Heads che non sempre le è stato riconosciuto e ha reso decisamente cool tutto ciò che il gruppo ha realizzato. «Se non ci fosse stata Tina Weymouth nei Talking Heads», ha detto Chris Frantz, il batterista della band e marito della bassista da quarant’anni, «saremmo stati semplicemente un’altra band».

28 Aston “Family Man” Barrett

Foto: Gems/Redferns/Getty Images

Aston Barrett e il fratello minore, Carlton, la sezione ritmica dei Wailers di Bob Marley, hanno avuto un ruolo fondamentale nel diffondere il ritmo reggae one-drop presso un pubblico internazionale. Ma l’influenza di Barrett, autoproclamatosi «architetto del reggae», si estende ben oltre quel genere, confluendo nel pop, nell’R&B e nel funk: l’incedere della sua parte di basso sulla traccia strumentale del 1969 The Liquidator della Harry J. All Stars ha funzionato da modello per il formidabile successo di I’ll Take You There degli Staples Singers tre anni dopo. «La batteria è il battito del cuore, e il basso è la spina dorsale», ha detto Barrett. «Se il basso non funziona, la musica soffrirà il mal di schiena, quindi finirà per rimanere paralizzata». Barrett è profondamente in sintonia con lo storytelling del leader dei Wailers; si sofferma infatti sulla scrittura di Marley, prima di contribuire con le sue parti di basso. «È come se fossi un baritono», ha detto, parlando del suo stile. «Creo ogni volta una linea melodica».

27David Hood

Foto: Michael Ochs Archives/Getty Images

Alcuni dei dischi più funk degli anni Sessanta e Settanta (I’ll Take You There There degli Staple Singers, Tell Mama di Etta James, Oh No Not My Baby di Aretha Franklin, Take a Letter, Maria di R.B. Greaves) avevano una cosa in comune: il bassista David Hood. Inizia lavorando al Fame Studio di Muscle Shoals, Alabama, prima di entrare a far parte della leggendaria sezione ritmica cittadina, al Muscle Shoals Sound nel 1969. Hood è stato soprannominato “Little David”, per via delle sue dimensioni contenute; si può sentire Mavis Staples chiamarlo così su I’ll Take You There, durante il suo flessuoso assolo. Ma le linee di basso profonde e pulsanti lo hanno reso parte di «una sezione ritmica irresistibile», come l’ha definita Staples. Nel lavoro svolto assieme ai colleghi musicisti di Muscle Shoals, come il tastierista Barry Beckett e il batterista Roger Hawkins, il basso di Hood si è trovato a suo agio tanto nel pop (Kodachrome di Paul Simon, The First Cut Is the Deepest di Rod Stewart), quanto nel blues (Loan Me a Dime di Boz Scaggs), e nelle fusioni tra rock e R&B (Old Time Rock and Roll di Bob Seger). Un altro suo lascito è il figlio Patterson, cantante e autore dei Drive-By Truckers. Hood è sempre stato modesto riguardo ai propri successi. A proposito di un classico degli Staple Singers, Respect Yourself, dice: «Anche quello contiene un breve assolo di basso. Sono poche battute all’inizio e a metà canzone, ma sono soltanto degli hook melodici. Cercavamo solo di fare musica pop».

26Israel Cachao Lòpez

Foto: Frans Schellekens/Redferns/Getty Images

Sebbene la sua principale innovazione risalga agli anni Trenta, Israel Cachao López ha esercitato un’influenza riconoscibile su tutta la musica pop odierna. Lavorando insieme a suo fratello, il pianista e violoncellista Orestes López, ha azionato la musica da ballo dell’Avana dando vita al mambo, una fusione afro-cubana che finisce per influenzare la salsa, il jazz cubano, l’R&B, il rock & roll e, di conseguenza, l’intera costellazione del moderno pop d’influenza latina. «Ciò che è di origine cubana è anche di origine africana», ha detto anni dopo. «Gli africani hanno influito tanto quanto i conquistadores su tutto quel che è cubano. Naturalmente, avendocela nel sangue, molte cose sono venute fuori con un’influenza africana». Il suo modo di suonare, un sontuoso fragore di parti incrociate, sfarzose ma eleganti, che scivolano accanto agli altri strumenti con rilassata precisione, ha creato lo sfondo perfetto per l’incontenibile, ricca improvvisazione divenuta essenziale nella musica cubana, grazie a un’altra innovazione di Cachao degli anni Cinquanta: la descarga, una tipologia di jam session influenzata dal jazz. Cachao si è trasferito negli Stati Uniti negli anni Sessanta, ma non ha goduto di un più ampio riconoscimento sul territorio fino agli anni Novanta, all’uscita della fondamentale serie Master Sessions, suddivisa in due volumi.

25Cliff Burton

Foto: Ross Marino/Icon and Image/Getty Images

Quando si formano i Metallica, tutto ciò che James Hetfield, Dave Mustaine e Lars Ulrich vogliono fare è suonare un thrash metal furioso; almeno fino a quando non incontrano Cliff Burton. Il bassista arriva da un gruppo metal rivale, e dopo essere rimasti a bocca aperta vedendolo suonare un assolo, sono talmente determinati a ingaggiarlo nei Metallica che abbandonano Los Angeles per trasferirsi nella sua Bay Area, dietro sua esplicita richiesta. Una volta nella band, Burton fa scoprire i R.E.M., i Misfits e Bach ai ragazzi, aprendoli a una nuova musicalità, e aggiungendo fioriture orchestrali e virtuosismi di basso ad alcune delle loro canzoni più incisive. Il suo assolo (Anesthesia) – Pulling Teeth, sull’album di debutto del 1983, Kill ‘Em All, è un’aggressiva improvvisazione che mette in mostra l’influenza della musica classica e un certo lirismo con il wah-wah, mentre la delicata introduzione a Damage Inc., e la parte centrale di Orion, dimostrano semplicemente quanto possa essere meraviglioso il thrash. La sua filosofia ha continuato a risuonare tra i membri della band anche dopo la sua morte, avvenuta durante un incidente con il tour bus nel 1986. «Senza mancare di rispetto a nessuno, ma era di un altro livello», ha detto Ulrich a proposito di Burton. «Quando è arrivato il momento di mettere [Anesthesia] su disco, invece di mantenerlo come un assolo di basso, l’abbiamo trasformato in una composizione. Ciò aggiunge delle dinamiche diverse, come se fossero atti differenti: il primo, il secondo e il terzo atto». Tale sensibilità è così spiccata che, quando i Metallica collaborano con la San Francisco Symphony nel 2019, il bassista dell’orchestra esegue Anesthesia in onore di Burton.

24Geddy Lee

Foto: Fin Costello/Redferns/Getty Images

Dal vivo con i Rush, Geddy Lee è sempre stato un maestro del multitasking, suonando tastiere e sintetizzatori controllati tramite pedali, oltre a padroneggiare parti vocali spericolate. Ma il suo stile sul basso, duro e robusto, e allo stesso tempo agile, ben definito e con una giusta dose di temerarietà, è ciò che lo ha reso leggendario tra i fan del rock innovativo, e uno dei collegamenti chiave tra i pionieri degli anni Sessanta, come Jack Bruce e John Entwistle, e gli innovatori degli anni Novanta, come Les Claypool e Tim Commerford dei Rage Against the Machine. L’interpretazione di Lee ha conferito grinta, fascino e una sorprendente dose di funk a ogni epoca della band, a partire da capisaldi prog degli anni Settanta come A Farewell to Kings, fino a gemme influenzate dalla new wave degli anni Ottanta come Grace Under Pressure, e lavori massicci e incisivi degli anni Novanta come Counterparts. Le sue parti fantasiose, come l’incedere irregolare di Cygnus X-1 Book I: The Voyage; il riff asciutto del bridge in 7/4 su Tom Sawyer; l’accompagnamento snello, dance-pop, di Scars, hanno spesso assolto la funzione di riff portanti. «A quattordici anni lo ascoltavo e pensavo: Cavolo, quanto mi piacerebbe fare quelle cose», ha detto Claypool, a proposito di Lee. «Ci sto ancora provando».

23Bill Wyman

Foto: Bill Orchard/Shutterstock

«Ci saranno centinaia di bassisti migliori di me», ha dichiarato Bill Wyman a Rolling Stone nel 1974. «Voglio dire, non potrei mai suonare come Jack Bruce. Se fossi ambizioso a quel modo mi eserciterei, ma non lo faccio». Tuttavia, nonostante Wyman sottovalutasse il proprio talento, gli altri membri dei Rolling Stones non facevano lo stesso. «Bill Wyman è un bassista incredibile», ha detto Keith Richards. «Rimango sempre stupito dal gusto di Bill nel suonare il basso… è un musicista di grande sensibilità». Wyman si è guadagnato le lodi di Richards suonando armonie intelligenti sotto l’iconico riff di Satisfaction (con una melodia che discende, mentre la chitarra sale); un fragore tenue a sostenere Jumpin’ Jack Flash; e ritmi che ondeggiano sotto il boogie-woogie di Rocks Off. «Non sono un bassista che suona tanto», ha detto Wyman una volta. «Non sono Stanley Clarke, o uno di quelli. Secondo me, dovrebbero suonare la chitarra, non il basso… Ci vogliono basse frequenze con le palle… Lasci spazio agli altri, non lo riempi con il basso. Lascia tanto spazio e lascia respirare il brano dal profondo».

22Flea

Foto: Christie Goodwin/Redferns/Getty Images

I Red Hot Chili Peppers hanno cambiato molti batteristi e chitarristi, fin dal loro esordio nel 1983. Ma Flea è stato il loro unico bassista, un musicista il cui suono caratteristico (un energico, carismatico ibrido di punk, funk e psichedelia) costituisce la spina dorsale della band. All’anagrafe Michael Balzary, Flea è cresciuto sotto l’ala del patrigno, un jazzista. «Il mio obiettivo era quello di diventare un trombettista jazz, poi sono diventato adolescente e mi sono dovuto ribellare ai miei genitori», ha detto nel 2006. «Tutto ciò che volevo era essere un punk e suonare il basso». Oltre che con i Red Hot, ha suonato sul debutto dei Mars Volta del 2003, De-Loused in the Comatorium, e con gli Antemasque, un side project. Nel 2009 ha formato gli Atoms for Peace con Thom Yorke, dimostrando la sua versatilità su canzoni come Before Your Very Eyes… e la schizoide Reverse Running. Ma è il suo modo di suonare nei Red Hot ad averlo reso tanto celebre: dallo slap ispirato a Bootsy Collins (Higher Ground, Sir Psycho Sexy), fino ad arrivare ai momenti melodici struggenti (Soul to Squeeze, By the Way). «I Red Hot Chili Peppers sono Flea», ha dichiarato Anthony Kiedis a Rolling Stone nel 1994. «È una bella fetta della torta, e pensare alla band senza di lui sarebbe impossibile».

21Geezer Butler

Foto: Dick Wallis/Shutterstock

Poco dopo essere entrato a far parte dei Black Sabbath, Geezer Butler passa dalla chitarra ritmica al basso, e scopre così il suo stile selvaggio. Non avendo mai suonato le tipiche parti di basso in quattro quarti, il four-on-the-floor che definiva il rock degli anni Sessanta, si è approcciato allo strumento con una sensibilità chitarristica, aggiungendo armonie e complessi ornamenti agli arrangiamenti del chitarrista Tony Iommi. Il segreto dell’impatto dei Black Sabbath è il modo in cui Butler e Iommi hanno stratificato le proprie parti, al fine di ottenere un suono grosso e sferzante. In War Pigs, Butler suona una melodia bluesy sotto i lunghi riff di Iommi, e a metà canzone, quando Iommi si lancia in un assolo, Butler esegue a sua volta un solo jazzy con il fingerpicking (ispirato da Jack Bruce), ogni qual volta il chitarrista sostiene una nota. Nel suo stile si denota anche un senso di liberazione, come quando in Slipping Away (1981) si alterna a Iommi con divertenti assoli, per non parlare di Bassically, che conduce a N.I.B.: un torbido assolo infuso di wah-wah, un pedale per chitarra che Butler ha cominciato a usare con molto anticipo rispetto ad altri bassisti. Tuttavia, nonostante le capacità evidenti, Butler si è sempre sminuito. «Ero un chitarrista ritmico, colmavo le lacune lasciate dal chitarrista solista», ha dichiarato. «Ho continuato a farlo con il basso, ho continuato ad essere il musicista ritmico. Non mi sono mai considerato un bassista; ho semplicemente suonato ciò che pensavo fosse necessario per le canzoni».

20Rick Danko

Foto: Paul Natkin/Getty Images

La leggenda della Band si fonda su un appeal dettato dalla genuinità, ma rispolverando i loro album classici è impossibile non notare quanto fossero funk. Il basso di Rick Danko, libero, elegante, e sempre al posto giusto è stato cruciale per una serie di brani inimitabili, come Up on Cripple Creek e King Harvest (Has Surely Come). Danko è cresciuto nell’Ontario rurale, ascoltando il programma Grand Ole Opry alla radio (alimentata a batterie) e guardando suo padre suonare ai balli campestri. Nel 1961 si unisce ai Ronnie Hawkins’ Hawks insieme ai futuri compagni Robbie Robertson e Levon Helm, facendo incetta dei fondamentali consigli sul ritmo che gli dà Stan Szelest, il pianista del gruppo. Nel giro di pochi anni, il gruppo arriva ad accompagnare Bob Dylan nella sua prima tournée. Una volta partiti, Danko si distingue come l’arma segreta del gruppo, un ruolo preservato sia durante il primo tour, sia nel prolifico periodo della reunion. Durante tutta la sua permanenza, ha affiancato una caratteristica voce gorgheggiante a parti di basso che procedono a braccetto con i groove torbidi ideati da Helm. «Penso al basso allo stesso modo in cui penso ai cori», ha detto nel 1994. «Dovrebbe starsene leggermente indietro. È bello starsene esattamente sul ritmo con la voce, e distribuire le altre parti intorno alla ritmica. Dà alla musica un effetto stile ruota panoramica, e fa sì che si muova».

19Verdine White

Foto: Michael Putland/Getty Images

Nel 1970, Maurice White, un affermato autore, batterista e produttore, porta suo fratello Verdine a Los Angeles per inserirlo in dei giovani Earth, Wind, and Fire. Verdine ha studiato sotto la guida di Louis Satterfield, che descrive come «il James Jamerson di Chicago», e studia musicisti jazz come Ron Carter e Richard Davis. Trasferisce questo suo background nell’elegante, complesso ed emozionante album di debutto degli Earth, Wind, and Fire, che vende milioni di copie. I singoli più importanti del gruppo sono stati, di solito, pezzi dance veloci, ma è sulle ballad che si apprezza meglio lo stile di White: il rombo ascendente, guizzante, che apre Can’t Hide Love; i ruvidi, aggressivi fraseggi di Love’s Holiday; i riff agili e succinti che sostengono After the Love Has Gone. White ha lasciato un’impronta indelebile anche sui momenti uptempo: ascoltatelo solcare Beijo (Interludio), il modo in cui fa gemere e vibrare le note. White tende a essere modesto nelle interviste, attribuendo gran parte del proprio merito agli altri. «Quello che devo fare su disco è assicurarmi di essere di sostegno al cantante», ha spiegato una volta. «Se non sento il cantante, la parte la suono lo stesso, ma sarà totalmente priva di immaginazione».

18Chris Squire

Foto: Michael Putland/Getty Images

Nel corso dei decenni, molti musicisti sono andati e venuti dagli Yes, ma l’unica loro costante è stata il bassista Chris Squire (almeno fino alla sua morte, nel 2015). Questi giganti del progressive rock sono sopravvissuti agli abbandoni di colossi come Rick Wakeman (tastiere) e Steve Howe (chitarra), ma il lavoro di Squire ha rappresentato le fondamenta del loro sound. Traendo ispirazione da artisti del calibro di Jack Bruce, John Entwistle e Paul McCartney, Squire ha dato vita a un timbro denso e melodico che sosteneva di tutto, dai classici del prog degli anni Settanta come Close to the Edge e Awaken, fino ai successi pop degli anni Ottanta come Owner of a Lonely Heart. «Chris ha spedito in un’altra stratosfera l’arte di trasformare il basso in uno strumento solista», ha scritto Wakeman, commentando la morte di Squire, «in aggiunta al suo senso artistico e alla cura per ognuna delle singole note che suonava, che lo hanno reso speciale… abbiamo perduto coloro che, secondo me, erano i due più grandi bassisti che il rock classico abbia mai conosciuto. John Entwistle, e ora Chris».

17Robbie Shakespeare

Foto: Frans Schellekens/Redferns/Getty Images

Robbie Shakespeare e il suo partner ritmico e nella produzione, il batterista Sly Dunbar, hanno lasciato un segno assolutamente riconoscibile su decenni di musica reggae. «La corposità del basso, il suono e il modo fluido con cui si contrapponeva al batterista», ha detto Dunbar, sentendo suonare Shakespeare per la prima volta nei primi anni Settanta. «A un certo punto, in un pezzo, suonava una cosa come tre parti diverse, cambiava la parte sul bridge e nei versi che lo seguivano, per arrivare a quattro parti differenti». La coppia ha registrato con tutti i maggiori artisti dell’epoca d’oro del reggae, fornendo un fluire melodico ma inesorabilmente solido a classici come Two Sevens Clash dei Culture ed Equal Rights di Peter Tosh; eccellevano negli spazi negativi, elastici, del dub; hanno escogitato una maniera unica di conferire un’atmosfera organica in un contesto digitale, quando negli anni Ottanta è emersa la dancehall, e hanno illuminato i solchi di dischi rock e pop, per artisti come Grace Jones, Talking Heads, Bob Dylan, Mick Jagger e tanti altri. Nessun’altra entità musicale dell’epoca post-Marley è stata tanto fondamentale nel plasmare il suono della Giamaica, esportandolo nel resto del mondo.

16Charlie Haden

Foto: Michael Ochs Archives/Getty Images

La prima cosa che si sente nei secondi iniziali di Lonely Woman (il capolavoro out-jazz di Ornette Coleman del 1959, che ha affascinato un giovane Lou Reed e un’intera generazione di ascoltatori di mentalità aperta) è Charlie Haden, che pizzica una struggente e pulsante melodia di basso, stagliata sul piatto ride di Billy Higgins. Tale introduzione conferisce al pezzo un’aura antica e robusta, come se il brano stesse sbucando fuori dal terreno. È questo il più grande lascito di Haden come bassista: donare anche agli stili più contemporanei (dalle gioiose escursioni free di Coleman, fino al folk da outsider di Beck) un sentore eterno. Haden è cresciuto in Iowa, eseguendo jodel su canzoni country durante il programma radiofonico di famiglia. Dopo aver visto Charlie Parker suonare, si scatena in lui l’amore per il jazz, e quando si trasferisce a Los Angeles per il college, alla fine degli anni Cinquanta, incontra Coleman, il sassofonista che avrebbe capitanato, di lì a poco, una svolta radicale nel genere. Haden è stato parte integrante delle idee di base di Ornette, apportando forza e corposità dal vivo e in studio di registrazione ai lavori del musicista per i decenni a venire (compreso un concerto del 1968 in apertura a Yoko Ono), nonché raccogliendo il testimone di Coleman in progetti paralleli, come quello degli Old and New Dreams. Per il resto, Haden è stato attivo in qualunque contesto dove si sperimentasse un jazz aperto e lungimirante, insieme a Pat Metheny, Keith Jarrett o Alice Coltrane; nella sua Liberation Music Orchestra, impegnata politicamente; come pure nel trio empatico, appassionato, formato con Ginger Baker e Bill Frisell. Si integra alla perfezione anche nei lavori di Ringo Starr, K.D. Lang, di suo figlio Josh e delle tre figlie gemelle, le Haden Triplets. «Charlie Haden suona per l’esistenza dell’ascoltatore», ha scritto Coleman. «Questo è sufficiente a renderlo un guru della musica».

15Donald “Duck” Dunn

Foto: Rob Verhorst/Redferns/Getty Images

Originario di Memphis, Donald Dunn (è stato il padre a soprannominarlo “Duck”, mentre i due guardavano insieme cartoni animati della Disney), non è un membro originale dei Booker T. and the M.G., influente band residente dell’etichetta Stax. Ma, quando nel 1964 subentra a Lewie Steinberg come bassista, il gruppo fa il grande passo. Il coinvolgimento di Dunn nella band coincide con la registrazione di dischi Southern soul fondamentali, come quelli ad opera di Otis Redding, Wilson Pickett e Sam e Dave. «Quando il genere si è fatto più aggressivo e sincopato… il mio stile è risultato quello più indicato», dirà Dunn tempo dopo. Insieme al batterista Al Jackson, ha dato vita a una sezione ritmica agile e versatile, e padroneggia in modo ugualmente efficace l’arte raffinata della pop ballad, il country-soul shuffle e l’uptempo infuso di gospel tipico del soul. Ascoltate la parte di basso che discende pacatamente sulla versione strumentale di When Something Is Wrong With My Baby di Sam e Dave, a cura degli M.G., o l’incedere glorioso che apre (Sittin’ on) the Dock of the Bay di Redding. Dunn, che Bootsy Collins ha definito un «mattone nelle nostra fondamenta musicali», ha continuato a suonare con la crema delle leggende rock e pop: Eric Clapton, Stevie Nicks, Bill Withers, Neil Young. Ma è stato il suo influente lavoro insieme a Booker T., Steve Cropper e Al Jackson a ridefinire la popular music. Come dichiarato una volta da Peter Frampton, Dunn «ha scritto il manuale del basso R&B».

14John Paul Jones

Foto: Michael Ochs Archives/Getty Images

Sebbene i Led Zeppelin diano l’idea di essere spuntati fuori dal nulla, già pienamente formati, alla fine degli anni Sessanta sia il chitarrista Jimmy Page che il bassista e tastierista John Paul Jones hanno alle spalle diversi anni di session in studio. Traendo ispirazione dai dischi della Motown e da bassisti jazz come Charles Mingus, Jones ha suonato sugli album di Donovan, Jeff Beck e Dusty Springfield, tra gli altri, e ha arrangiato gli archi per She’s a Rainbow dei Rolling Stones. Così, quando è arrivato il momento di suonare le parti melodiche dal lento incedere di Dazed and Confused e What Is and What Should Never Be, o i ritmi dinamici di Immigrant Song e The Song Remains the Same (armonizzando con Page), è stato un gioco da ragazzi. La sua musicalità lo ha guidato ben oltre la permanenza nei Led Zeppelin. «John sfida tutti silenziosamente», ha detto Dave Grohl, nel periodo in cui suonava con Jones nei Them Crooked Vultures. «In sua presenza, fai di tutto per suonare al tuo meglio, perché non vuoi deluderlo. E se riesci a tenere il passo, te la cavi bene».

13Stanley Clarke

Foto: ARTCO-Berlin/ullstein bild/Getty Images

Un’intera generazione di bassisti (da Dave Holland con Miles Davis, a Miroslav Vitous e Jaco Pastorius con i Weather Report, e Rick Laird con la Mahavishnu Orchestra) ha contribuito a far combaciare la raffinatezza del post-bop degli anni Sessanta con la potenza del rock da stadio. Ma è stato Stanley Clarke a definire, una volta per tutte, il ruolo di dio della fusion sul basso. Clarke ha iniziato a suonare il contrabbasso, con l’idea di intraprendere la carriera di musicista classico; l’incontro con Chick Corea, avvenuto a un concerto, lo indirizza verso un altro tipo di percorso. I due formano i Return to Forever, uno dei primi gruppi di jazz elettrico degli anni Settanta, e una band in cui Clarke può esprimersi nel registro basso, ma anche avere voce in capitolo come solista. I primi LP a suo nome (e i futuri brani fondamentali nel repertorio del basso elettrico), come School Days, lo vedono spostarsi ulteriormente verso il funk e mettere in mostra la sua tecnica stupefacente, mantenendo il groove sempre intatto. Più di recente, ha rivolto l’attenzione al mondo del cinema e della televisione, ha contribuito al sottovalutato Morning Phase di Beck (vincitore di un Grammy), e ha ispirato luminari della nuova scuola come Thundercat (che di recente ha dichiarato: «Ringrazio Dio che sia esistito Stanley Clarke, come quadro di riferimento per ciò che è possibile fare con il basso»). «Prima che arrivassi io, molti bassisti se ne stavano nelle retrovie», ha detto Clarke. «Tipi alquanto silenziosi, che apparentemente non scrivevano musica. Però, molti di quei bassisti erano musicisti seri. Tutto quel che ho fatto io è stato compiere il primo passo e mettere su la mia band».

12Willie Dixon

Foto: Paul Natkin/Getty Images

Nonostante si ricordi Willie Dixon come uno dei bluesmen più influenti della storia, le cui canzoni sono state cantate da Howlin’ Wolf e Muddy Waters, c’è molto altro che il musicista ha lasciato in eredità. Ha suonato il basso sulle prime incisioni rock di Chuck Berry e Bo Diddley, e brani come I Can’t Quit You Baby e I Ain’t Superstitious sono stati reinterpretati da tutti, dai Led Zeppelin ai Megadeth. Il primo basso di Dixon è stato un tin-can bass, uno strumento di latta, ma in seguito è riuscito a mettere da parte circa duecento dollari per comprarsi un contrabbasso. Più o meno nel 1939, nelle sue parole «facevo boxe, lavoravo e suonavo, cercavo di imparare a suonare il basso», seguendo gli insegnamenti di gente del posto (Baby Doo Caston e Hog Mason), fino a quando non sviluppa il suo stile ondeggiante, che finisce per definire il genere. «Ci sono volute due o tre settimane… beh, diamine, potevo suonare bene come faccio ora», ha detto nel 1980. Quando Berry gli suona per la prima volta la canzone che sarebbe diventata Maybellene, a Dixon sembra troppo country & western, difatti pensa che «una qualche idea o sensazione bluesy che mancava l’avrebbe resa una canzone migliore», infondendo al brano un po’ di attitudine rock & roll. «Willie Dixon è la mia fonte d’ispirazione principale», ha dichiarato Bill Wyman dei Rolling Stones. «Ho sempre idolatrato Willie Dixon, in particolare, perché era sui dischi di Chuck Berry e Little Walter, Howlin’ Wolf e molti altri album editi dalla Chess».

11Phil Lesh

Foto: Bob Minkin/mediapunch/Shutterstock

Allo stesso modo in cui i Grateful Dead hanno rimodellato il suono dei gruppi rock (più sciolto, orientato alla jam session, incorporando in egual misura elementi jazz e country), Phil Lesh ci ha mostrato un lato inedito del basso. Il fondatore dei Dead, e loro bassista di lunga data, è cresciuto con la musica classica e sperimentale, e alle superiori ha suonato la tromba e il violino. Ha imbracciato lo strumento che lo ha reso noto soltanto dopo essere stato invitato a unirsi ai Warlocks, una prima versione dei Grateful Dead. Come conseguenza, Lesh ha ignorato i cliché standard del walking bass: «Pensavo che suonare cose già fatte da altri non sarebbero state adatte alla musica che avrei realizzato con Jerry», ha detto nel 2014. La sua idea di «suonare il basso e le parti solistiche contemporaneamente», con le note che guizzano dentro e tutt’intorno alla melodia, diventa un tratto distintivo del suono dei Grateful Dead, tanto quanto la chitarra di Garcia. Si può apprezzare il suo sound non convenzionale su registrazioni in studio come Truckin’, Shakedown Street e Cumberland Blues, sulla versione live di Scarlet Begonias dal leggendario show a Cornell del 1977, e in molte versioni dal vivo di Eyes of the World (cominciate con One From the Vault del 1975).

10Ron Carter

Foto: Michael Ochs Archives/Getty Images

«Al basso, il mio amico, Ron Carter», dice Q-Tip con orgoglio, sulla coda del brano super funky Verses From the Abstract degli A Tribe Called Quest, dal disco Low End Theory. Pietra miliare dell’intersezione tra jazz e hip-hop, per il grande Ron Carter, che da oltre sessanta anni partecipa a session che hanno fatto la storia, l’ospitata sul brano è una cosa come tante altre. Con oltre duemila partecipazioni a suo nome nell’autunno del 2015, si aggiudica (l’anno seguente) un Guinness World Record, in quanto bassista più registrato nella storia del jazz. Al di là dei numeri, la varietà del curriculum di Carter è stupefacente: dal contributo al quintetto degli anni Sessanta di Miles Davis, che ha rimodellato le molecole del jazz, fino alla spinta granitica donata ai classici di Roberta Flack e Aretha Franklin; dalla sontuosa tessitura ritmica fornita ad Antônio Carlos Jobim, pioniere della bossa nova, fino alla ricerca dello swing nelle opere di Bach. Sia che si trattasse di un duo poco appariscente o di un’energica big band, Carter ha sempre infuso un tocco di classe pura. «Credo che il signor Carter sia, da sempre, il migliore tra i musicisti che sanno ascoltare», ha detto Pat Metheny, collaboratore e fan di lunga data del bassista, nel 2016. «Ha suonato in migliaia di contesti unici, e ogni volta riesce a trovare qualcosa che spinga i collaboratori a fare di meglio, mantenendosi sempre fedele al suo fortissimo senso di identità».

9Paul McCartney

Foto: Express/Getty Images

È difficile pensare a Paul McCartney in termini di “musicista sottovalutato”, in una qualsiasi categoria. Ma con tutti gli attestati di stima ricevuti in quanto cantante, autore e performer, può darsi che la verve equilibrata dimostrata come bassista non abbia ottenuto la giusta attenzione. Ha iniziato a suonarlo per necessità, dopo l’abbandono dei Beatles da parte di Stu Sutcliffe, nel 1961 ad Amburgo. «Esiste una teoria secondo cui avrei maliziosamente condotto Stu a lasciare il gruppo, per salire sul trono del bassista», ha dichiarato McCartney al biografo Barry Miles. «Neanche per sogno! Nessuno vuole suonare il basso, perlomeno nessuno voleva farlo, ai tempi». Tuttavia, ha fatto suo lo strumento, soprattutto quando, nella seconda metà degli anni Sessanta, le avventure in studio dei Beatles decollano, e sostituisce il suo Hofner con un Rickenbacker. Il basso di McCartney può rivelarsi un supporto cool e incessante, come in Lucy in the Sky With Diamonds e Dear Prudence, oppure assurgere a colorito protagonista: vedi Paperback Writer, Rain e A Day in the Life, tutte canzoni in cui il suo stile trasmette il desiderio di un’esistenza più libera, emozionante, celato dietro parole che rimandano alla vita di tutti i giorni. Il suo modo di suonare giocoso e melodico dell’epoca deve molto a James Jamerson, che McCartney ha spesso indicato come sua più grande influenza; dopo il 1970, Macca si è tenuto al passo con i tempi, facendo il suo ingresso regale nell’era della discomusic con i groove di Silly Love Songs e Goodnight Tonight. Seppure il suo interesse per le quattro corde si sia affievolito nel tempo, non ha mai smesso di ispirare le nuove generazioni nel cogliere il potenziale espressivo di una grande linea di basso.

8Jaco Pastorius

Foto: Ebet Roberts/Getty Images

«Mi chiamo John Francis Pastorius III, e sono il più grande bassista del mondo». Così Jaco Pastorius si presenta a Joe Zawinul, quando nel 1974 incontra il tastierista dei Weather Report, nel backstage di uno show a Miami. All’epoca Zawinul lo deride, ma qualche anno dopo, quando Pastorius si unisce al gruppo e contribuisce a trasformarli in vere e proprie superstar della fusion, smette di farlo. Il debutto omonimo di Jaco del 1976, in cui suona con enorme facilità un bebop velocissimo, e stupisce tutti eseguendo armonici scintillanti sul basso, stabilisce un nuovo standard nel virtuosismo sullo strumento; entrando a far parte dei Weather Report in quello stesso anno, infiamma il pubblico con il suono caratteristico del suo basso fretless e lo stile sfrontato, e viene bandita per sempre l’idea del basso come strumento delle retrovie. Per quanto sia stato un musicista appariscente, si è comunque dimostrato un eccellente collaboratore: dalla metà degli anni Settanta fino agli anni Ottanta (prima della tragica morte a 35 anni) il rivoluzionario approccio di Pastorius alle quattro corde ha fatto al caso di tutti, da Pat Metheny fino a Jimmy Cliff, ma ha supportato, soprattutto, la scrittura sempre più avventurosa di Joni Mitchell sull’album Hejira. «Era come se l’avessi sognato, perché non ho dovuto dargli alcuna indicazione», ha detto una volta la Mitchell a proposito di Jaco. «Potevo semplicemente lasciarlo libero di fare e starmene in disparte a gioire delle sue scelte».

7Larry Graham

Foto: Don Paulsen/Michael Ochs Archives/Getty Images

In quanto membro degli Sly and the Family Stone, Larry Graham ha contribuito a rendere popolare la tecnica dello slap, con successi come Thank You (Falettinme Be Mice Mice Elf Agin) e Dance to the Music. Ha sviluppato quell’incredibile approccio percussivo (che Graham definisce thumpin’ and pluckin’) suonando con un trio a San Francisco, insieme alla madre. A seguito dell’abbandono del batterista, «ho colpito le corde con il pollice per sostituirmi alla grancassa, e ho strappato le corde con le dita per sostituire il rullante», ricorda Graham. Tale approccio esplode nelle canzoni degli Sly and the Family Stone, invertendo i ruoli tradizionali degli strumenti nella popular music, e segnando profondamente una futura icona del calibro di Prince, amico e frequente collaboratore di Graham (il folletto di Minneapolis lo ha definito «il mio maestro»). «Se ascolti i dischi degli anni Cinquanta, puoi notare come tutti i contenuti melodici siano mixati a volume molto alto… e quelli ritmici mixati a volumi più moderati», ha osservato Brian Eno nel 1983. «Con l’arrivo del disco Fresh degli Sly and the Family Stone avviene un capovolgimento, per il quale la sezione ritmica, la cassa della batteria e il basso in particolare, diventano improvvisamente gli strumenti portanti del mix». Graham spiega tutto ciò in modo molto semplice: suonare con tanto vigore fa sì che «i ballerini non se ne rimangano nascosti».

6Jack Bruce

Foto: David Redfern/Redferns/Getty Images

Eric Clapton e Ginger Baker hanno accentrato molta dell’attenzione in seno ai Cream, ma Jack Bruce ha fornito la spinta necessaria affinché la band diventasse un vero e proprio power trio. Con Clapton che suona il suo fantastico blues, e Baker ad esplorare nuovi strati jazzistici alla batteria, Bruce (che è anche il cantante principale del gruppo), tiene insieme le fila della band con robuste parti di basso, che sembrano mutare continuamente. «Jack Bruce mi ha decisamente aperto gli occhi su quello che un bassista può fare dal vivo», ha detto il bassista dei Black Sabbath Geezer Butler. «Sono andato a vedere i Cream soprattutto per via di Clapton… e sono rimasto ipnotizzato dallo stile di Jack Bruce. Non sapevo che un bassista potesse fare quelle cose, riempiendo i passaggi dove normalmente si troverebbe la chitarra ritmica». Bruce suona linee nervose e cadenzate sotto le voci del trio di I Feel Free, armonie intelligenti su Sunshine of Your Love, e un riff tutto suo che si sovrappone a quello di Clapton su Strange Brew. «Era piccoletto, ma il suo modo di suonare era mostruoso», ha dichiarato il chitarrista dei Mountain, Leslie West, che più avanti sarebbe finito a suonare con Bruce. «Il basso lo faceva ringhiare, e tutto ciò che suonava era veramente melodico».

5Carol Kaye

Foto: Jasper Dailey/Michael Ochs Archives/Getty Images

Dopo essersi fatta le ossa nei jazz club negli anni ’50, ed essersi affermata come chitarrista in studio per autori di successo come Sam Cooke, Kaye è diventata la bassista più registrata di tutti i tempi, con più di diecimila tracce all’attivo. Dallo swing solare del brano Help Me, Rhonda dei Beach Boys del 1965, fino all’ormai classica versione di Richie Valens del 1958 de La Bamba, per arrivare alla romantica interpretazione di Frank e Nancy Sinatra del 1967 di Somethin’ Stupid, esistono tracce della Kaye disseminate un po’ ovunque nella storia del pop moderno. Questo, senza nemmeno considerare la miriade di colonne sonore e sigle televisive a cui ha contribuito, fornendo ai temi portanti di show come Batman a Mission Impossible la loro spina dorsale, unica nel suo genere. «Ero una chitarrista, e ho pensato: ‘Dio, è una linea di basso piuttosto semplice’», ha detto a For Bass Players Only, riferendosi all’intuizione che l’ha portata a definire il suo modo di suonare. «Ritenevo che il basso potesse muoversi di più, e che di conseguenza la musica potesse migliorare». I suoi collaboratori di punta, evidentemente, erano d’accordo. «Teneva il suono del mio basso molto in alto nei mix», ha detto di Brian Wilson nel 2011. «Su canzoni tipo California Girls, a volte non si sente nient’altro. È che gli piaceva il mio suono e il modo in cui mi muovevo sulla tastiera».

4Bootsy Collins

Foto: Fin Costello/Redferns/Getty Images

Bootsy Collins (o “Bootzilla”, “Casper the Friendly Ghost”, o “The World’s Only Rhinestone Rock Star Doll, Baba”, a seconda della canzone) ha ridefinito il soul e il basso funk degli anni Settanta e, di conseguenza, il rap e il pop degli anni Ottanta e Novanta. Collins si è unito alla band di James Brown, i J.B.’s, nel 1970 e ha subito fatto sua la filosofia del The One, professata dal Soul Brother No. 1, accentuando il primo beat di una battuta con quanta più forza possibile, e colmando il resto con tanto funk. Più avanti, ha esteso il concetto a una sorta di paese delle meraviglie allucinato, unendosi alla congrega di George Clinton, per poi sposare il wah-wah a un basso vellutato con i Parliament and Funkadelic, prima di raggiungere il successo come solista a capo della Rubber Band, con occhiali da sole e un basso sagomati a forma di stella, e cantando canzoni d’amore “cartoonesche”, con verve fumettistica. Da quel momento in avanti, la sua influenza può individuarsi praticamente in ogni bassista, da Flea dei Red Hot Chili Peppers, fino ai dischi generosamente campionati da Dr. Dre per definire il suono G-Funk. «È arrivato Bootsy e tutto ciò che ha fatto… è stato aggiungere enfasi sull’uno della battuta», ha detto George Clinton. «Si potrebbe fare lo stesso con la canzone dell’alfabeto, e diventerebbe funk nel giro di due secondi. Da allora, tutto ciò che abbiamo fatto è stato funky per davvero, a prescindere da quanto cercassimo di risultare pop».

3John Entwistle

Foto: Dezo Hoffman/Shutterstock

John Entwistle degli Who è stato soprannominato in tanti modi: tra questi, The Ox (il bue), per via della corporatura imponente e dell’appetito smisurato, e The Quiet One (il tranquillo), a causa dell’atteggiamento imperturbabile. Tuttavia, il più azzeccato è stato Thunderfingers (dita di fulmine), affibbiatogli perché, a ogni sua nota sul basso, sembrava prefigurarsi una violenta tempesta all’orizzonte. Uno stile sviluppato per farsi sentire meglio quando condivideva il palco con i fracassosi Keith Moon e Pete Townshend, Entwistle ha però donato grazia e una notevole fluidità al ruolo del bassista, come mai era capitato prima. In breve, ha utilizzato il basso alla stregua di uno strumento solista, e lo ha messo in evidenza, come fosse una chitarra. Inoltre, il massiccio assolo su My Generation ha ispirato innumerevoli adolescenti a imbracciare il basso; tuttavia, emulare il suo stile è stata un’impresa pressoché impossibile. «Probabilmente, Entwistle è stato il più grande bassista rock di tutti i tempi», ha dichiarato Geddy Lee dei Rush, «uno che ha avuto il coraggio di prendere il ruolo e il suono del basso e portarlo fuori dagli abissi, ostentando nel frattempo prodezze incredibili».

2Charles Mingus

Foto: Michael Ochs Archives/Getty Images

Charles Mingus è stato molto più che un semplice bassista: compositore, concettualista, violoncellista di formazione classica, sociologo; tanto che, a volte, è facile dimenticare quanto fosse abile con il proprio strumento. Ma al centro dei suoi pezzi levigati e caleidoscopici è situata un’implacabile spinta ritmica, che dalle dita scorre attraverso le corde e confluisce nelle formazioni che lo accompagnano, dando l’impressione che i solisti si trovino a suonare su un gigantesco trampolino elastico. Ascoltate l’incedere scoppiettante di composizioni classiche come II B.S. e Better Get Hit in Your Soul, dove Mingus è un tutt’uno con il batterista e partner musicale Dannie Richmond, e vi farete un’idea della forza e della grazia del suo stile, del modo in cui riesce a rendere una linea walking bass agile e mastodontica al tempo stesso. La carriera di Mingus attraversa diverse epoche del jazz, e la sua padronanza dello strumento rende irrilevanti le differenze stilistiche: in tal senso, è a suo agio sia che si trovi a suonare con la big band di Lionel Hampton alla fine degli anni Quaranta (sulla sua Mingus Fingers), sia con i colleghi dell’aristocrazia bebop negli anni Cinquanta (nel famoso album Jazz at Massey Hall, che presenta parti di basso sovraincise in studio da un Mingus notoriamente esigente), o ancora quando intrattiene una vivace e percussiva conversazione con il suo idolo musicale, Duke Ellington, negli anni Sessanta (sull’immortale Money Jungle). Sebbene sia noto soprattutto per il contributo dato al jazz, non ne è mai stato vincolato, come dimostra la collaborazione con Joni Mitchell e l’influenza esercitata sui grandi del rock anni Sessanta, come Jack Bruce e Charlie Watts. Per tutta la vita, Mingus si è costantemente scagliato contro coloro che hanno cercato di confinare o sminuire il suo estro. A proposito dell’ingiustizia delle classifiche stilate dai critici jazz, ha detto: «Non voglio avere a che fare con nessuna di quelle dannate classifiche. So che tipo di bassista sono».

1James Jamerson

Foto via Wikimedia

James Jamerson ha gettato le basi della sezione ritmica Motown, ampliando gli orizzonti del basso, successo dopo successo, restando per lo più anonimo, poiché raramente i turnisti sono stati accreditati in quelle registrazioni degli anni ’60. «James Jamerson è il mio eroe», ha detto Paul McCartney, «anche se non conoscevo il suo nome, fino a poco tempo fa». Quando Jamerson comincia la sua carriera, il basso è considerato uno strumento funzionale, di supporto; secondo il documentario Standing in the Shadows of Motown: The Life and Music of Legendary Bassist James Jamerson, la maggior parte dei bassisti si limita a suonare «due beat stagnanti, pattern tonica-quinta, e scontate linee di basso sulla scia di Under the Boardwalk». Jamerson ha contribuito a rivoluzionare il campo, arricchendo le sue parti con ritmiche sincopate, accordi espansi che hanno conferito al tutto profondità e complessità melodica, e scelte tonali che richiamano armonie gospel. La lista dei suoi contributi a dischi fondamentali non può riassumersi velocemente; tuttavia, tra le incisioni fondamentali in ambito Motown ricordiamo My Girl dei Temptations, con una delle parti di basso più riconoscibili e più appaganti del pop tutto; I Heard It Through the Grapevine di Gladys Knight, dove suona un soave, spumeggiante contrappunto all’arrangiamento nervoso del pianoforte; e What’s Going On di Marvin Gaye, che vede Jamerson al suo meglio come musicista melodico. «James si è spinto un passo oltre rispetto a quanto facevano di solito i bassisti», ha spiegato Bob Babbitt, che ha anche suonato il basso su diversi brani di What’s Going On. «All’inizio ha osato e si è lasciato andare, poi è diventata per lui una cosa naturale, e facendola ha cambiato il modo in cui si suona il basso».

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.