I 20 migliori album internazionali del 2021 (fino a oggi) | Rolling Stone Italia
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I 20 migliori album internazionali del 2021 (fino a oggi)

La musica sta tornando sui palchi, ma è ancora influenzata dall’isolamento. Da Nick Cave a Lana Del Rey, da Pharoah Sanders a St. Vincent, ecco gli album più interessanti usciti nei primi sei mesi dell’anno

I 20 migliori album internazionali del 2021 (fino a oggi)

Mentre la musica dal vivo inizia a intravedere la luce alla fine del tunnel, quella registrata sembra ancora immersa nell’oscurità e nelle atmosfere dello scorso anno, tra dischi registrati in isolamento, musica apocalittica o scritta come un mantra, pochissimo pop. Questo non significa che non siano usciti grandi dischi: dai nuovi gruppi inglesi come Squid e Black Country, New Road ai ritorni di Nick Cave e St. Vincent, dalle chitarre riverberate di Mdou Moctar a quelle acustiche di Allison Russell, dal nuovo fenomeno pop Olivia Rodrigo al collettivo misterioso Sault. Ecco 20 fra gli album migliori usciti da gennaio a giugno.

“Spare Ribs” Sleaford Mods (15 gennaio)

La risposta acida, aggressiva e divertente ai mali della contemporaneità. Qui gli Sleaford Mods ce l’hanno raccontato canzone per canzone: le politiche grottesche della destra, i rocker hipster che straparlano di povertà, il consumismo, il lockdown, la crisi, il tutto cantato col consueto tono da working class heroes e musicato con lo spirito di chi sta a metà strada fra elettronica e punk. Il disco di cui c’era bisogno per iniziare l’anno incazzati.

“Collapsed in Sunbeams” Arlo Parks (29 gennaio)

L’esatto opposto degli Sleaford Mods. Loro sono brutti, sporchi e arrabbiati, lei è diventata l’iconcina inglese della generazione super triste, una che inizia l’album con una poesia, compone circondata da cristalli energetici, cita Zadie Smith e vuole evocare nelle sue canzoni lo struggimento tipico dell’adolescenza. Non è carinismo facile. Se piace a Billie Eilish, Florence Welch, Michelle Obama, Phoebe Bridgers (e pure a noi) un motivo c’è. Qui la nostra intervista.

“Sound Ancestors” Madlib (29 gennaio)

Dopo una carriera definita dalle collaborazioni e dal lavoro fatto per artisti come J Dilla e Freddie Gibbs, MF Doom e Kanye West, Madlib diventa attore protagonista e lascia la regia del suo suono a un altro produttore. È Four Tet, che ha preso centinaia di ore di beat e frammenti sonori e li ha trasformati in un album. Sound Ancestors è un viaggio tra le influenze di uno degli artisti più importanti della storia dell’hip hop, tra interludi jazz e svolte reggae, beat eccitanti e suoni psichedelici. Ecco la sua storia in breve.

“For the First Time” Black Country, New Road (5 febbraio)

Loro sono un sestetto londinese e questo è il loro disco d’esordio. A differenza delle altre nuove band arrivate dall’Inghilterra negli ultimi mesi, però, i Black Country, New Road non suonano post punk, ma un rock intricato e imprevedibile, pieno di chitarre spigolose, ritmi spezzati, fiati jazz e persino qualche accenno prog. Al centro di For the First Time ci sono le storie di Isaac Wood, chitarrista e autore dei testi, che domina i pezzi con flussi di coscienza paranoici, citazioni, pathos grottesco. Ne abbiamo parlato qui.

“Ignorance” The Weather Station (5 febbraio)

«Sembra di sentire una Joni Mitchell millennial che interpreta versioni jazz di LCD Soundsystem o dei National», scrivevamo nella recensione di Ignorance. È un disco sulla crisi climatica travestito da breakup album, dove invece di un amante il protagonista è un pianeta morente, un album elegante e misterioso che parla della fragilità di ogni cosa, di trovare la bellezza nella natura mentre tutto cade a pezzi.

“Carnage” Nick Cave & Warren Ellis (25 febbraio)

L’hanno fatto Nick Cave e Warren Ellis il disco definitivo del lockdown: uno canta la vita che non potevamo più fare, l’altro lo aiutava a dare alle sue parole un suono ancora più vivido. In questo disco venuto fuori da due giorni e mezzo di jam session e uscito a sorpresa l’immaginazione è l’ultima risorsa, estrema linea difensiva contro il nulla che a volte sembra inghiottirci. La nostra recensione.

“Chemtrails Over the Country Club” Lana Del Rey (19 marzo)

Scritto e prodotto dalla cantautrice con Jack Antonoff, è il sequel musicalmente coerente di Norman Fucking Rockwell, un concentrato di lanadelreysmi, con ballate eleganti e narcolettiche, un pizzico di country e una cover di For Free di Joni Mitchell con Weyes Blood e Zella Day.

“Promises” Floating Points, Pharoah Sanders & The London Symphony Orchestra (26 marzo)

Un grande produttore (Floating Points), una leggenda del jazz (Pharoah Sanders, sassofonista monumentale e mito vivente, uno che non ha mai sfigurato vicino a John Coltrane) e un’orchestra insieme per un disco sospeso e rallentato, un po’ meditazione trascendentale e un po’ trip psichedelico. Promises è un capolavoro basato sulla ripetizione, un mantra liberatorio e impetuoso, uno splendido arpeggio di 46 minuti. Lo raccontiamo qui.

“For Those I Love” For Those I Love (26 marzo)

Una delle storie musicali dell’anno. Un amico del produttore irlandese David Balfe si suicida e il musicista si isola nella vecchia casa di famiglia producendo un disco assieme triste e celebrativo basato su spoken word poetici e incazzati che poggiano su tappeti sonori electro. Un po’ elogio funebre, un po’ esorcismo pop. Difficile apprezzarlo se non si leggono i testi.

“G_d’s Pee At State’s End!” Godspeed You! Black Emperor (2 aprile)

In un altro disco di musica apocalittica e bella in modo impossibile, la band americana invoca il crollo di governi e multinazionali. Lo fa senza bisogno di parole: basta la musica, devastante e poetica, con dentro piccoli segnali di speranza.

“Mercy” Natalie Bergman (7 maggio)

Un’altra storia di morte e catarsi, ma diversissima da quella di For Those I Love. Lei era nota (a pochi) come membro col fratello del duo Wild Belle. Ha reagito alla scomparsa del padre scrivendo una serie di gospel pop contemporanei con tocchi di psichedelia e soul. L’oppio dei popoli non è mai stato così buono, Natalie Bergman sarebbe riuscita a convertire anche Marx.

“Bright Green Field” Squid (7 maggio)

Gli Squid suonano post punk e vengono da Brighton, ma un po’ come i Black Country, New Road, rispetto al filone dei vari Idles e Protomartyr hanno qualcosa in più. Nel loro caso si tratta di un piglio folle e un suono agitato, groovy, oltre a una serie trovate che fanno venire in mente la new wave originale. Bright Green Field esce con Warp ed è un disco difficile da inquadrare, un bell’esordio che fa convivere pop e sperimentalismo, noise e ambient, accessibilità e avanguardia. Ne abbiamo parlato qui.

“Daddy’s Home” St. Vincent (14 maggio)

La grande opera anni ’70 di Annie Clark. Le musiche tutte suonate evocano il suono mezzo bianco e mezzo nero della New York dell’epoca, un ribaltamento di 180° rispetto al sound di Masseduction. I testi suggeriscono un parallelo tra quell’epoca di devastazione e il periodo che stiamo vivendo. E lei. St. Vincent, diventa una Gena Rowlands dalla bellezza consumata da notti di bagordi sullo sfondo di una città vivace e pericolosa. L’intervista.

“Afrique Victime” Mdou Moctar (21 maggio)

Afrique Victime è il disco con le chitarre più bello che ascolterete quest’anno. Lo è perché è libero, perché fa venire in mente Jimi Hendrix e un attimo dopo i Tinariwen, perché è pieno di momenti esaltanti e gioiosi. La Stratocaster affogata nel riverbero di Mdou Moctar disegna riff concentrici e cerchi trascendentali, ti trascina dentro brani che ricordano il classic rock senza pigrizia, fregandosene delle sue strutture tradizionali. È un disco straordinario e pieno di speranza. La recensione.

“Outside Child” Allison Russell (21 maggio)

Il miglior album di Americana uscito nella prima metà dell’anno. Lei ha una storia pazzesca, è cresciuta per le strade di Montreal scappando da una famiglia dove abusavano di lei. Ha sperimentato indifferenza e razzismo. E ha messo tutto dentro un instant classic potente, cantato in modo formidabile, incredibilmente intenso. «È una resa dei conti con la parte più dolorosa della mia vita». Qui per saperne di più.

“Sour” Olivia Rodrigo (21 maggio)

Il disco pop dell’anno, per ora. Anche per mancanza di concorrenti: nei primi sei mesi del 2021 i grandi nomi non hanno pubblicato e chi l’ha fatto (Justin Bieber, Sia) ha toppato. Fatto sta che questa ragazza classe 2003, una delle “figlie” di Taylor Swift e del suo modo autoreferenziale di fare canzoni, è riuscita a mettere assieme storytelling classico e sound contemporaneo. I particolari qui.

“Cavalcade” Black Midi (26 maggio)

Folli, folli e pure folli. Cavalcade è un bordello infernale in cui la musica prende direzioni inattese, fra stop-and-go, riff impossibili, sovrapposizioni sorprendenti, sincretismi musicali arditi. Lo chiamano post punk, ma è rock, jazz, punk, prog. «Vogliamo che sia impossibile incasellarci», dicono loro. Missione compiuta.

“Blue Weekend” Wolf Alice (4 giugno)

Gli inglesi vanno matti per quest’album fatto di suoni epici e avvolgenti. Parlando di una canzone, qualcuno ha tirato in ballo sia i Cocteau Twins, sia Oliver Newton-John, che rende l’idea di un disco di grande atmosfera ma anche diretto, con testi che vanno da “non mi vergogno di essere una persona sensibile” a “voglio scopare tutti quelli che incontro” e musiche che spesso riflettono questo approccio apertamente emotivo. Produce Markus Dravs (Coldplay, Arcade Fire, Florence + the Machine). Qui la nostra intervista.

“Nine” Sault (25 giugno)

Non è solo il mistero che circonda questo collettivo R&B inglese. Non è solo il metodo, giacché l’album sarà disponibile per soli 99 giorni. Non è solo il credito guadagnato nel 2020 grazie alla doppietta formata da Untitled (Black Is) e Untitled (Rise). È proprio la musica che colpisce, un mix originale (di questi tempi non è facile) di soul, r&b, hip hop, funk, drum & bass, una musica che riesce ad essere al tempo stesso arrabbiata e celebrativa, ed esaltante.

“Call Me If You Get Lost” Tyler, The Creator (25 giugno)

Dopo il Grammy vinto con l’ultimo Igor, Tyler, The Creator torna con un nuovo alter ego – Tyler Baudelaire – e un disco decisamente più ancorato al rap. Call Me If You Get Lost sembra il compendio delle cose migliori del rapper: dentro ci sono l’r&b romantico e la trap, il soul e il jazz, il suono degli anni ’70 e quello del futuro. E poi ci sono i testi, dove Tyler dice tutto e il contrario di tutto, come sempre con libertà totale e nessuna voglia di prendersi qualsivoglia responsabilità. Ne abbiamo parlato qui.