I 10 migliori pezzi strumentali dei Cure | Rolling Stone Italia
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I 10 migliori pezzi strumentali dei Cure

Introduzioni usate in concerto, jam session "fumate", ambient, pop surreale, deliri, allucinazioni e alterazioni sensoriali: anche senza la voce di Robert Smith gli inglesi hanno fatto grande musica

I 10 migliori pezzi strumentali dei Cure

Com’era la barzelletta più quotata del 2020? Ah sì, che i Cure avrebbero fatto uscire un disco nuovo in ottobre. Siamo a dicembre e non si vede l’ombra di un comunicato stampa, sebbene il vecchio Robert Smith avesse assicurato che durante la pandemia i missaggi fossero finiti e che si stesse finalmente quagliando. Bene, tutto questo non è stato: e quello che all’inizio era pensato come un album triplo poi trasformato (pare) in tre dischi distinti, è per ora solo l’ennesimo lost wish, desiderio perso come per citare una loro cassetta di strumentali inedite del periodo 1992 (quello di Wish, appunto).

È proprio pensando a uno di questi tre fantomatici dischi da venire (cioè quello che dovrebbe essere completamente noise e quindi com’è intuibile totalmente privo di testi) che mi sono messo a pensare all’aspetto meramente strumentale dei Cure. È vero che non sono mai stati dei “riccardoni” e men che meno fissati con le suite essendo nati come l’opposto netto di una band prog, ma ciò non vuol dire che a fare quel che fanno non ci sia tecnica, anzi. Il tocco di Smith sulla chitarra è uno dei più pregiati della storia dell’ anti-rock, per suonare i giri di basso ossessivi di Simon Gallup ti devi fare un avambraccio grosso come quello dell’incredibile Hulk e se proprio volete uno che la chitarra la suona come un secchione eccovi Porl Thompson che non a caso ha fatto parte del gruppo di Page e Plant subito dopo la sua prima dipartita dai Cure. I quali, è giusto ricordarlo, durante il soundcheck del docufilm The Cure in Orange si misero a fare la cover di Set the Controls for the Heart of the Sun dei Pink Floyd lasciando di stucco i fonici e la stampa, per cui…

Tra le nuove leve abbiamo poi Reeves Gabrels, che non è altro che il braccio destro di Bowie dal 1987 al 2000 e che ti suona la chitarra con il naso e anche con un braccio staccato dal corpo. Dulcis in fundo, comunque, il più tecnico nella sua assenza di tecnica è paradossalmente sempre stato Lol Tolhurst, che con un dito uno sulla Dx 7 creava una suggestione tale da incarnare perfettamente il concetto di less is more, rappresentando lo stadio finale di una lunga sintesi sul tema (così come il suo drumming metronomico e incredibilmente esatto nel trovarsi al momento giusto nel posto giusto sui primi dischi della band).

Mentre aspettiamo questo fantomatico album inedito mi sono ripassato le varie strumentali del gruppo, sparse per dischi ufficiali, lati B dei singoli e demo, per non parlare dei bootleg. Perché in effetti di materiale ce n’è e ascoltandolo potremmo anche pizzicare qualcosa che ritroveremo nei prossimi dischi. Procediamo, dunque, in questo curioso percorso poco battuto ma pieno di chicche uniche nel loro genere e a volte molto più coraggiose dei brani più gettonati nella loro discografia.

“The Weedy Burton” (1979)

Nel 1979 esce il primo album dei Cure, Three Imaginary Boys, che ancora subisce l’influenza del punk, all’epoca appena esploso ma già sull’orlo dell’abisso. Il disco si ritrova a metà di questo processo: la via da seguire per il gruppo sembra ancora incerta. Ci sono brani che portano direttamente ai futuri Cure, come la title track, e altri che sono ancora in linea con i generi “alternativi” del periodo (quindi come già detto punk, ma anche ska, reggae e compagnia bella). Fortunatamente però tutti questi input, filtrati dai Cure, diventano una roba piuttosto bizzarra e fuori della grazia di dio.

Quando si arriva alla fine del disco ecco l’assurdità definitiva che non ti aspetti. Dopo un bel po’ di silenzio appare una ghost track che è una specie di rock’n’rollaccio suonato in un mood da fattoni, con rullate sbagliate, note a cazzo, insomma è un po’ il simbolo di quel «fuck rock’n’roll» che Simon Gallup urlerà al microfono durante il concerto al Rock Werchter prima di lasciare il palco a Robert Palmer, anch’esso apostrofato con un bel vaffa. The Weedy Burton sembra una jam nata in modo spontaneo, ma in realtà ha una storia ben precisa, come ha rivelato Smith: «Avevo imparato a suonare un po’ leggendo i libri Play in a Day di Bert Weedon, usando la chitarra di mio fratello maggiore. È una sorta di ironico tributo a Bert». A parte il fatto che Smith confessa candidamente che non sa bene come questo pezzo sia finito alla fine del disco, è anche vero che l’assonanza col nome di Weedon e la weed (cioè l’erba) potrebbe sottintendere un altro tipo di tributo, anche ascoltando la sfattanza prodotta dal trio.

All’epoca, quando acquistai la prima copia in vinile di questo disco, il brano in questione era un mistero, una affascinante seduta spiritica a evocare le macerie del passato, le icone della musica giovane degli “anziani” calpestate e rivisitate dal punto di vista della noia, talmente weird e spastico da essere senza dubbio uno dei miei brani preferiti di tutta l’opera. La cosa incredibile è che nel 2011 l’hanno anche suonata dal vivo para para durante il Reflection Tour, “toppe” incluse.

“Another Journey by Train” (1980)

Arriva il 1980, l’anno di Seventeen Seconds e della conversione definitiva alle atmosfere più dark. Tutti ricordano il singolo A Forest, che del disco è il manifesto paranoide e ossessivo. Ma pochi si ricordano il lato B: Another Journey by Train è uno strumentale micidiale in cui il treno occupa il posto della foresta e diventa luogo di allucinazioni, paure, alterazioni sensoriali, senso di vuoto e di smarrimento. In questa cavalcata c’è tutto il talento di un quartetto in stato di grazia, con la particolarità – per la prima volta – di Matthieu Hartley alla tastiera in primo piano, che se non si spara proprio un assolo nel senso classico del termine ha però tutta la linea melodica del brano nelle mani (e pensare che se ne andò proprio perché non poteva fare neanche una scala cromatica in pace). Grande pezzo, che va inserito tra i picchi della loro produzione e nella colonna sonora dei vostri “viaggi”, sia mentali sia reali. Dice la leggenda che si trattasse di una versione dark del precedente singolo Jumping Someone Else’s Train rimaneggiata a tal punto da diventare cosa a sé. Dal vivo in effetti i nostri usavano suonare i due pezzi in sequenza, il che sembrerebbe confermare la cosa: quando si dice riciclo creativo.

“Descent” (1981)

Le cose dopo Seventeen Seconds cambiano dal punto di vista musicale. Dai minimalismi dark si passa direttamente al goth rock, in una musica che è fumi di nebbia in una palude spettrale in cui si vedono appena forme sbiadite di cattedrali. Il singolo che traina il disco è la mitragliante e ipnotica Primary, basata da un riff suonato da due bassi in contemporanea squagliati nel flanger con tanto di solo sempre di basso. Una roba di un certo peso specifico che canta della perdita dell’innocenza in età adulta. Il lato B esprime forse in maniera più potente questa “caduta” dal giardino dell’eden della purezza con Descent, discesa negli inferi del peccato.

Trattasi forse di uno dei primi brani sludge della storia (e in un altro articolo lo definii anche slowcore), in cui i due bassi pregni dei soliti effetti flanger si annodano assieme duellando come serpi, insinuandosi nelle profondità della terra come bagnati dal fango: la batteria sottolinea questa sensazione di vuoto pneumatico con la sua assenza, concedendo solo il suono di un piatto in lontananza doppiato da una nota di chitarra elettrica e nulla più. È senza dubbio uno dei brani strumentali dei Cure di maggiore “pancia” e con altresì alto tasso di “azzeramento” mentale ad alto coefficiente psico-farmacologico. Si potrebbe pensare che il pezzo sia stato registrato al volo in studio, per ottenere una B side ad hoc. La storia invece ci dice che Descent sarebbe dovuto entrare di diritto in Faith: l’assenza di un testo è dovuta al fatto che, come dice Smith «non avevo più nulla da dire».

“Demise” (1982)

A proposito di psicofarmaci e di nulla da dire, è chiaro che la trilogia oscura non poteva che terminare con Pornography, che oramai è assodato sia il capolavoro nero dell’allora trio. Nero sì, ma come un pezzo di plastica che prende fuoco: come in copertina, le sfumature di rosso e violaceo la fanno da padrone. Imparentato più con il noise rock che con la semplice dark wave, Pornography contiene a malapena un singolo, quel The Hanging Garden che viene scelto come apripista per disperazione, non essendoci un altro brano nel disco con un minimo di linea vocale pop.

Caso strano, non esistono lati B in questo caso, ma ci sono invece delle demo rimaste inedite fino all’uscita della deluxe edition, quando finalmente abbiamo potuto ascoltare prove provini e frammenti delle sessioni di registrazione. Tra le varie strumentali troviamo questa Demise che già dal nome è tutto un programma: decesso. È un gioiellino di struggente emozione dolceamara, con la chitarra che snocciola armonici naturali come fossero gocce di rugiada (o di sangue) e un basso che suona una melodia disarmante, quasi rassegnata agli eventi. Poi Smith spara degli accordi uno più lacerante dell’altro, mentre la batteria di Tolhurst si esprime nel suo classico drumming, dritto per la sua strada, probabilmente costellata da alti cipressi e da lapidi di marmo. Nato probabilmente per non andare oltre i due minuti e rotti, sarebbe stato perfetto in Pornography, anche solo come ghost track, ma il disco era già così carico da annullarne le potenzialità evocative.

“Temptation” (1982)

Altra strumentale storica è Temptation, una tirata sonica che sembra chiaramente ispirata alla famosa She Lost Control dei Joy Division. Non arrivò a trovare posto in Pornography, ma Smith, una volta sparito il bassista Gallup e la band ridotta a duo, ne farà un provino con la voce che è ancora molto in linea con l’ album dell’82. Sennonché poi decide di stravolgerla trasformandola in… sì, Let’s Go to Bed. Ancora oggi, a pensarci, è abbastanza incredibile come un brano talmente “nero pece” come Temptation abbia potuto trasformarsi in un singolo apparentemente frivolo e orecchiabile, eppure ecco: da qui si comprende che il pop espresso dalla band non è altro che la malattia che diventa cura, un vaccino in pratica, ed è sempre per questo motivo che alla fine anche fischiettare l’allegro motivetto di In Between Days al cesso – per dire – risulta sempre inquietante.

“Inwood” (1985)

Non citiamo a caso il singolo apripista di The Head on the Door del 1985 perché, nonostante il precedente album The Top contenesse brani incredibili dal punto di vista del pop acido, rimanendo una pietra miliare del glo dark (in cui invece di farsi le pere ci si sfonda di acidi), non abbiamo strumentali di sorta. Infatti, anche nei brani in cui non si capisce un cazzo perché è tutto straeffettato come ad esempio Sadacic, troviamo Smith che canta dei testi al volo o bofonchia frasi improvvisate.

Nell’era di The Head invece abbiamo delle demo casalinghe di Smith pubblicate nella deluxe edition che sono francamente esplosive. Tra queste c’è Inwood che è di un surrealismo quasi impossibile, mettendo insieme hip hop, pop à la Madonna, new wave, dark, i Devo, il power funk più plasticoso e non si sa che cos’altro. Un pezzone che purtroppo non è stato inserito nell’album ufficiale, ma che ritroveremo nello spirito nel più tardo Disintegration, in brani tipo Last Dance, che come atmosfera non sono assolutamente lontani dal pezzo in esame, con l’unica differenza che Inwood è un delirio e fa passare Disintegration addirittura come un disco “normalizzato”.

“Noheart” (1989)

E venendo proprio a Disintegration ci si diceva all’epoca dell’uscita: certo, i brani del disco sono monumentali, strano però non ci siano strumentali in giro. E grazie all’ennesima apertura dei caveau con la deluxe edition di Disintegration, abbiamo avuto il piacere di ascoltarne qualcuno. Con grande sincerità del sottoscritto le demo strumentali di questo periodo sembravano “accroccate” solo per scaldare i motori in studio, almeno a primo ascolto, anche a causa delle registrazioni non proprio eccellenti. Poi la rivelazione totale: durante il concerto del 2019 alla Sydney Opera House in cui i Cure suonarono Disintegration nella sua interezza a sorpresa tirarono fuori anche degli “encore introduttivi” nei quali eseguirono PERFETTAMENTE tutte le demo e outtake del periodo, tra le quali Noheart. Che risuonata dal vivo appare sgargiante, multicolore, cangiante, switchando continuamente tra pop, psichedelia, dark e giocosa improvvisazione. Insomma, un pezzone dimenticato che dimostra che a volte l’apparenza inganna e l’orecchio non va sempre a braccetto col cuore. Meno male che c’è sempre tempo per riavvolgere il nastro.

“Tape” (1993)

A proposito di nastro, nel 1992 venne pubblicato Wish, a tutt’oggi il disco di maggior successo dei Cure nel mondo e un’opera ancora controversa che potremmo chiamare di shoegaze gotico. Lambita da sfuriate noise e luci pop coerentissime con la new British invasion del periodo, così come con le libagioni manchesteriane, quest’opera vede moltissime strumentali messe da parte, tanto che venne prodotta una cassetta solo per i fan, su richiesta, chiamata Lost Wishes, che ne raccoglieva alcune. In questo prodotto si trovano quattro pezzi di ottima fattura, tanto che poi i Cure riprenderanno Uyea Sound per Underneath the Stars presente nel disco 4:13 Dream, a tutt’oggi l’ultima uscita ufficiale dei Cure.

Uno strumentale che non trovate là dentro è invece Tape, un inedito che fa capolino nel secondo album dal vivo dei Cure in assoluto, ovvero l’autocelebrativo Show uscito nel 1993. Usato appunto come strumentale introduttivo in filodiffusione ai concerti, è un clamoroso esempio di quello che i Cure avrebbero potuto fare mettendosi a comporre ambient. Sugli armonici di chitarra di Smith si dipanano pad e piani digitali che ricordano certe atmosfere della Warp Records, in una nenia lisergica che potrebbe durare ore senza stancare mai. Nella versione di Show il brano è tagliato rudemente, ma esiste una long version che avrebbe potuto rompere il culo agli Orb, e non scherziamo.

“Bastard” (1991)

C’è da dire che Tape non era l’unico brano posto in apertura dei concerti come “sonorizzazione” dell’attesa performance dei nostri. Come musica di sottofondo verranno infatti usati altri strumentali che – udite udite – non erano presenti in Lost Wishes. Clamorosamente, questi brani saranno infatti editi in un bootleg dal titolo poco fantasioso di Music for Dreams, e sono così tanti da formare addirittura un intero EP. La cosa interessante è che solo un paio di essi sarebbero diventati qualcos’altro, il resto è davvero una bomba in cui i Cure abbandonano quel trademark sonoro che a volte rischia di trasformarsi in un cappio creativo.

Tra questi brani eccezionali scegliamo Bastard: che dire? È davvero un piccolo bastardo. Un brano con un giro di basso killer, minimale al punto giusto come i vecchi Cure ma nello stesso tempo in linea con gli sfasci del futuro per quanto riguarda l’arrangiamento. Sarebbe potuto diventare un singolo, ma stranamente è stato cassato: perché poi senti 4:13 Dream e ti rendi conto che l’80% dei pezzi ivi inseriti non hanno nerbo (a parte appunto il recupero di Ueya Sound dalle session di Wish e Sleep When I’m Dead che è una outtake mai sentita di The Head on the Door, non proprio roba nuova) e ti chiedi per quale motivo sprecare tutto sto ben di dio. Forse perché i nostri sono sempre alla ricerca del suono definitivo e… finale?

“The Final Sound” (1980)

E arriviamo al brano finale, più per il titolo che per il periodo storico data la sua presenza su Seventeen Seconds, quindi agli inizi dell’avventura. The Final Sound è il pezzo che precede A Forest nell’album ed è praticamente una impro quasi di musica classica romantico-decadente suonata su quella che sembra una spinetta che cade a pezzi, esausta, eseguita da ubriachi e registrata buona la prima e mezzo, con un tasso di riproducibilità pari a zero (tanto che Roger O’Donnell l’ha risuonata nel tour di Reflection, ma nonostante le sue capacità tecniche si è guardato bene dal trascrivere le note a orecchio, temendo forse il collasso nervoso dopo le prime battute). Un grande capolavoro di nichilismo e, a ogni ascolto, perfetto intro di A Forest, come se improvvisamente si spalancassero i cancelli di un bosco fagocitante e oscuro, tanto che il suo suono profuma di ruggine e di giunture non oliate.

Bene, arrivati al termine di questa carrellata non vediamo l’ora di sentire se i nostri eroi ci offriranno questo nuovo disco “rumoroso” con la stessa perizia con cui ci hanno fornito prove come Carnage Visors o Airlock, che possiamo annoverare come le uniche vere colonne sonore mai registrate dai Cure (il primo per il famoso video del fratello di Gallup che veniva proiettato prima dei concerti del 1981, il secondo era la musica di intrattenimento prima dei live del 1982), due veri capolavori che consigliamo a tutti di recuperare. Anche perché di continuare a raschiare il baule delle loro demo per meravigliarci ancora non ne abbiamo più il wish, ragazzi.

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