I 10 migliori album new prog anni ‘80 | Rolling Stone Italia
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I 10 migliori album new prog anni ‘80

Non è vero che il progressive inglese è morto nel ’77 e questi dischi lo dimostrano. Sospeso tra passato e modernità, influenzato da post punk e new wave, ecco il suono di chi non si accontentava di pogare e ballare

I 10 migliori album new prog anni ‘80

Fish in concerto con i Marillion

Foto: Pete Cronin/Redferns

Il pensiero comune dice che il prog è morto nel 1977, a seguito dell’avvento del punk. Sbagliato. Diciamo che dopo quel fatidico anno il prog comincia a sparire dalle classifiche di vendita e dai grossi circuiti concertistici. A dire il vero i cosiddetti dinosauri (Yes, ELP, Genesis) resistono, ma le loro proposte si instradano sempre più verso il pop di facile ascolto. Il grande pubblico guarda ad altri generi, sono nate le prime radio commerciali, nell’aria c’è voglia di scrollarsi di dosso pesantezze e introspezioni per trovare un poco di sano divertimento. Il punk – genere che nella sua incarnazione più pura dura in realtà solo pochi mesi – riapre le porte a una concezione di rock quale musica immediata, senza troppi fronzoli intellettuali o canzoni di lunghezza esasperante. Gruppi come Yes e Pink Floyd diventano i nemici numero uno di tutta una serie di non-musicisti (per i punk infatti l’importante non è sapere suonare, ma comunicare con la musica) che prediligono l’istinto alla ragione, la passione all’assolo ragionato, le radici blues alle suite classicheggianti.

Passata la breve stagione del punk si fanno strada generi come la disco music, il reggae, lo ska, il rock più commerciale e pellicole come La febbre del sabato sera. È un vero rigetto. Alcuni ascoltatori e musicisti però non ci stanno e continuano ad ascoltare e suonare la musica dei primi anni ’70, oramai talmente fuori moda e distrutta dalla stampa musicale che anche solo nominare una band del passato viene considerato un oltraggio. Non ci stanno e pian piano, verso la fine del decennio ecco sbocciare in Inghilterra una nuova ondata di gruppi dediti alla riscoperta del suono progressivo doc.

Sbaglia chi pensa che tali gruppi siano sorti a creare un trait d’union con i primi anni ’70 senza curarsi di ciò che è successo nel mezzo. L’influenza di punk e new wave non passa inosservata e spesso se ne può sentire il sapore nei gruppi che, senza volerlo, si trovano a far parte di un vero movimento, da lì a breve battezzato new progressive.

Lo storico Marquee di Soho è il quartier generale nel quale gli appassionati trovano pane per le loro orecchie ancora assetate di cambi di tempo e brani da 20 minuti. Tra il pubblico che affolla il club vi si trova il fan dei Genesis più incallito, deluso della recente svolta commerciale della band, come anche punk, metallari, goth. Persone che hanno ancora voglia di compiere dei veri e propri viaggi tramite la musica, non semplicemente di ballare o pogare. Un pubblico colorato stipato tra i muri del fumoso ritrovo a farsi incantare dalle esibizioni di band che propongono una musica che mette in campo forti riferimenti al passato, ma anche un certo sentore di modernità. I cantanti di questi gruppi si presentano spesso mascherati o truccati, ma il loro atteggiamento non è più quello surreale/fiabesco di un Peter Gabriel. Si assiste bensì a pantomime riguardanti la guerra, la droga, un certo disagio che ha radici nelle periferie degradate inglesi. Le ritmiche sono squadrate come nella new wave ma più variegate, vista la lunghezza di certi brani, le tastiere riprendono spesso le sonorità care a maestri come Tony Banks, ma alcune timbriche sono perfettamente calate nel contesto dei primi anni ’80. Anche i chitarristi indugiano su diversi effetti, si aprono alla ricerca sonora.

Cominciano a fioccare i dischi e le cassette autoprodotte, materiale carbonaro che assume un fascino tutto particolare, con il pubblico a sentirsi parte di una schiera di oscuri eletti. Dopo qualche tempo però il successo delle band che si esibiscono al Marquee e pubblicano i loro lavori autoprodotti si fa crescente, e non è strano che molte case discografiche comincino ad annusare l’affare e a farsi avanti. Attorno alla metà degli anni ’80 il new prog conosce un piccolo boom commerciale, derivante soprattutto dal successo dei Marillion che riescono a pubblicare un album (Misplaced Childhood) allo stesso tempo rispettosissimo di tutte le regole del prog storico (sinfonismo a manetta e una lunga suite a coprire entrambe le facciate) e commerciale (molte sezioni della suite, una su tutte quella denominata Kayleigh, risultano gradevoli anche per un pubblico pop).

Il successo dei Marillion non sarà eguagliato da nessun’altra band coeva ma contribuirà a gettare luce sul folto sottobosco new prog inglese. Alcuni gruppi (IQ, Pendragon) otterranno comunque duraturi riscontri di nicchia che durano fino ai nostri giorni. Per capire meglio quali sono le altre caratteristiche salienti e i lavori più rappresentativi del new prog inglese degli anni ’80, ecco una classifica dei 10 dischi imperdibili.

10. “Gratuitous Flash” Abel Ganz (1984)

Pubblicato solo su cassetta nel 1984 (la prima stampa su cd risale al 1991), quello degli scozzesi Abel Ganz è un esordio all’insegna del Genesis-sound, periodo Wind & Wuthering. Gratuitous Flash è un lavoro ancora acerbo, ma con una gran voglia di viaggiare nel tempo senza intromissioni col presente dell’epoca. In questo contesto la voce di Alan Reed (più tardi nei Pallas) sa però essere personale e drammatica al punto giusto, sormontata dalle maestose tastiere di Hew Montgomery che si adoperano in ogni modo nel tentativo di ricreare le atmosfere care a Tony Banks. Se avete voglia di perdervi in un mare di romanticismo progressivo calatevi dentro la lunghissima The Dead Zone, sarà un bellissimo naufragare.

9. “Silent Dance” Solstice (1984)

Solstice è una band che si distacca dal sinfonismo di molte formazioni new prog per addentrarsi in una sorta di prog-folk cosmico, spesso parente dei momenti più solari degli Yes (complice la voce di Sandy Leigh, assai vicina a quella di Jon Anderson). Dagli Yes i Solstice prendono anche una certa predilezione per temi mistici/new age, ben evidenziati dal mantra indiano di Earthsong o dalle cadenze pastorali di Peace.

8. “Once Around the World” It Bites (1988)

Gli It Bites mettono in atto una spericolata unione tra certo pop anni ’80 (Go West, Duran Duran) e il new prog. Via libera quindi a suoni dell’epoca in una sfilza di canzoni vagamente infarcite di proggherie varie. Fosse solo per questo il disco potrebbe tranquillamente passare inosservato. Ciò che rende Once Around the World un album imperdibile è però l’omonima suite finale: oltre 14 incredibili minuti con acrobazie vocali e strumentali (ancora Yes e Genesis a pietra di paragone) di grande freschezza e originalità, con il cantante/chitarrista Francis Dunnery a folleggiare tra cambi di tempo schizoidi, ironia e grandi aperture sinfoniche.

7. “Journey to the East” Castanarc (1984)

Chi ama il prog per il suo lato più leggiadro e favolistico adorerà l’esordio dei Castanarc. Otto brani di non eccessiva durata che si immergono in un suono che deve molto ai Camel, come agli Yes e ai Genesis più bucolici. La voce impalpabile di Mark Holiday dona al tutto un’aura di più spiccata originalità, mentre la chitarra gilmouriana di Paul Ineson e le tastiere di David Powell si occupano di tessere trame delicate, spesso soffici e incantate, vedi l’iniziale Peyote e la delicata Am I. I due brani più lunghi (The Fool e la title track) sanno invece essere più frastagliati, tra i consueti cambi di registro, fughe tastieristiche, momenti solari che si alternano ad altri più soffusi e oscuri.

6. “The Jewel” Pendragon (1985)

I Pendragon si fanno conoscere come support band dei Marillion e, come questi, ottengono un ingaggio dalla EMI per il loro album d’esordio. Il disco trasuda amore per i Camel e i Genesis (forse le due formazioni più influenti per tutto il movimento) ma contiene momenti di furia strumentale figlia di certo jazz-rock, come la coda infiammata di Alaska, lunghi minuti di chitarre e tastiere a rincorrersi in un crescendo esaltante. Anche nei momenti più romantici (The Black Knight) la band inglese sa essere intensa ed emozionante, ma è nei tratti più nervosi che i musicisti danno il meglio, con batterista (Nigel Harris) e tastierista (Rick Carter) a muoversi in maniera agile e inventiva mentre il chitarrista/cantante Nick Barrett snocciola un solo più bello dell’altro.

5. “The Sentinel” Pallas (1984)

Con gli scozzesi Pallas ci si spinge verso il rock sinfonico più pomposo, con un concept album sul mito di Atlantide (occhio alla coloratissima copertina, opera del grafico fantasy Patrick Woodroffe), in realtà metafora della Guerra Fredda tra USA e URSS. The Sentinel contiene almeno due tra i capolavori assoluti del new prog: Rise and Fall, con aperture magniloquenti di stampo Yes alternate a tenebrosi scenari nei quali l’inabissarsi del continente sembra farsi reale, e la conclusiva Atlantis, forse il brano dal finale più intensamente glorioso di tutto il prog, con un coro solenne che si innalza fino a stordire l’ascoltatore. Un consiglio per gli interessati: cercate il vinile originale, le successive ristampe in cd (pur contenendo diverse ottime bonus track) sono remixate pessimamente.

4. “A Little Man and a House and the Whole World Window” Cardiacs (1988)

Se le band analizzate finora si adagiano senza molti sforzi nella scia di quello che è stato il prog sound dei primi anni ’70, con i Cardiacs si cambia completamente registro. La band è fautrice di un mix audace tra punk e prog, detto pronk. Lo avreste mai detto? Ebbene sì, i Cardiacs riescono ad arrivare lì dove mai nessuno prima. Grandi cori di Mellotron che fanno da sottofondo a interludi ska, cambi di tempo astrusi seguiti da schegge velocissime che poi mutano in controtempi genesisiani, sporchi muri di chitarre e fughe di tastiere classicheggianti a sposarsi perfettamente. Sul tutto la voce del leader Tim Smith che a seconda del momento sa essere Peter Gabriel o Johnny Rotten. Una mistura incredibile, un suono personalissimo per una band misconosciuta dalle nostre parti ma assolutamente meritevole di una riscoperta.

3. “Tales from the Lush Attic” IQ (1983)

Appena posata la puntina sui solchi di questo album un pensiero si affaccerà immediatamente: sono i Genesis! Difficilmente infatti si è trovata una band tanto simile, nei suoni, negli arrangiamenti e soprattuto nella voce. Il cantante Peter Nichols infatti non imita Peter Gabriel, è lui! Se ci si addentra nei meandri del primo album ci si accorge però che la band riesce allo stesso tempo a essere derivativa e personale. Il songwriting è di alto livello, i musicisti sanno dire la loro e lo stesso Nichols riesce a imporsi come presenza carismatica e autore di testi di grande spessore poetico. Tales from the Lush Attic è sopratutto la lunga suite The Last Human Gateway, la Supper’s Ready del new prog. Un viaggio in 20 minuti nella solitudine di un uomo capace di mandare fuori di testa qualsiasi amante del prog.

2. “Script for a Jester’s Tear” Marillion (1983)

Band di maggior successo di tutto il movimento i Marillion esordiscono nel 1983 per il colosso EMI che li mette sotto contratto dopo essersi conquistati un solido seguito durante le molte esibizioni in giro per l’Inghilterra. Spinto dal carisma del cantante William Derek Dick, in arte Fish, il gruppo dà alle stampe il suo primo album venendo immediatamente catalogato come epigone dei Genesis. Il sound dei Marillion è in effetti erede di quello genesisiano, ma ci sono sostanziali differenze, in special modo le cadenze ritmiche della new wave che si avvertono nel drumming di Mick Pointer. Oltre ciò testi e atmosfere sono assai più malate di quelle del gruppo di Peter Gabriel; Fish canta di amori perduti, droga, guerra e disillusione con fare angosciato e intenso, spandendo sul lavoro dei musicisti un alone dark, rendendo Script for a Jester’s Tear morboso e oscuro come un Nursery Cryme dell’era post atomica.

1. “Fact and Fiction” Twelfth Night (1982)

La punta di diamante del new prog inglese, da parte di una cult band che, fin dal 1979 con l’esordio Live at the Target, può dirsi tra le capostipiti del movimento. Bisognerà aspettare altri tre anni però affinché veda la luce il capolavoro, in concomitanza dell’entrata in formazione del cantante e performer Geoff Mann. La musica dei Twelfth Night prende spunto da quella dei Van Der Graaf Generator, ma vi si distacca per qualcosa di completamente originale, un sunto prog-new wave mai sentito prima, con ritmiche secche e chitarre lancinanti al servizio di lunghi e labirintici brani nei quali la vocalità hammiliana di Mann può ergersi in tutto il suo splendore, tra invettive socio-politiche (We Are Sane) e discese verso la follia più estrema (The Creepshow). Dopo l’ottimo disco dal vivo Live and Let Live Geoff Mann lascerà la band che prenderà direzioni più commerciali. La triste dipartita del cantante nel 1993 renderà impossibile il rinnovarsi della magia che ha portato a Fact and Fiction.

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