Ha senso andare a un concerto di Piero Pelù nel 2019? | Rolling Stone Italia
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Ha senso andare a un concerto di Piero Pelù nel 2019?

Noi l’abbiamo fatto e abbiamo visto un cantante che incarna l’estetica dei festival degli anni ’90 e i cliché che rendono superato il rock. Eppure, quando sale sul palco di fronte ai “ragazzacci”, Pelù vince

Ha senso andare a un concerto di Piero Pelù nel 2019?

Piero Pelù

Foto: Getty Images

Che senso ha andare a un concerto di Piero Pelù solista nel 2019? Non lo so, ma l’ho fatto. Volevo vederlo da vicino. Precisamente: volevo vedere i peli del petto di Piero Pelù, quelli che dominavano la storica cover dell’album Pirata e che lo resero il capo virile del rock italiano nei ’90. All’epoca era avantissimo mentre oggi è l’equivalente di J-Ax per gli amanti del rap: per alcuni una bandiera, per altri un caso ambiguo. Il suo rock è desueto ma lui resiste. Più colti sono i suoi ascoltatori, più è snobbato. Tuttavia riempie i palazzetti.

Arrivo in ritardo al concerto del Tuscany Hall di Firenze e trovo una sala gremita di over 50 imbiancati e nostalgici dei Litfiba, signore col piumino e anche qualche ragazzino che poga. Piero stasera chiude il tour in casa e vuole dare il massimo. Lo osservo saltare e penso… Pelù ha qualcosa di magnetico, è il classico tipo che non capisci se ci fa o ci è. Per certi versi ricorda Ozzy Osbourne, così naïf, così assurdo. Si veste come il tizio di una bancarella di chincaglieria hippie che sottobanco ti vende anche il fumo. Anzi ragiona come quel tipo di tizi, fa i loro stessi discorsi sulle guerre e i complotti, incarna un’estetica da militante dei festival musicali degli anni ’90 quando le rockstar erano divinità erotiche che dominavano il mondo. Tutto il suo immaginario si rifà a quell’atmosfera di incenso e collanine coi denti di squalo, dai font in stile Maya con cui fa le magliette, all’appellativo “Ragazz-hashish” con cui chiama i suoi fan (i “Ragazzacci”) e che non sentivo dalla quinta liceo. Piero è esattamente come sembra, non ha sovrastrutture e questa è la sua forza e il suo limite.

Così durante il concerto di Firenze si lancia in lunghi monologhi un po’ ridicoli in cui fa il verso a Ratzinger imitandolo con un accento razzistello (gli riserva il celebre appellativo del Manifesto che lo definì “Pastore tedesco”, scordandosi forse che non è più Papa da un pezzo). Questa politicizzazione della rockstar è molto superata oggi, ma non per i fan che amano applaudirlo quando parla di mafia o vanta il suo ‘duetto’ con Greta Thunberg.

Come mai funziona? Perché Pelù ha creato un brand di sé stesso e il palazzetto pieno, è la dimostrazione che quel brand ha un mercato. Ne sono vittima pure i Litfiba, che salgono sul palco per suonare La preda e se ne vanno senza nemmeno dire niente al microfono. Sembrano un suo accessorio, ma in verità anche Piero ci ha perso scaricandoli, perché i Bandidos!, la sua nuova formazione, sembrano una cover band dei primi. Ma alla fine alla gente che è qui pare non freghi niente del sound. Regina di cuori, che era un pezzo pieno di chitarre e riverberi raffinati, è riarrangiata con schitarrate distorte e ripetitive. Così come altri pezzi. Ma ripeto: il sound a questo concerto è l’ultimo problema. La gente vuole osannare il cantante.

E qui Pelù vince. Piero ha un fisico pazzesco, ha 57 anni e sfoggia il suo petto nudo più che può senza mai sfigurare. Si veste di nero, tutto attillato e in parte ricalca tutti i cliché che ormai rendono il suo rock un genere superato e il rock italiano un fenomeno provinciale adatto ai pub e alle sagre di paese. Fa un po’ ridere, eppure ha il suo perché. La platea è piena di donne per cui quell’uomo sul palco è un sogno erotico. Se lo vorrebbero fare, inutile nasconderlo. E lui vorrebbe farsi loro e non lo nasconde. Piero dal vivo sessualizza tutto, col suo cinturone da Jim Morrison e i continui riferimenti hard (muove la lunga lingua su e giù velocemente, chiede alle signore di tirar fuori le tette ottenendo solo un misero risultato dalla prima fila e poi un silenzio agghiacciante dal resto della sala, a un certo punto esclama: «sono così pieno d’amore stasera che mi scoperei anche Salvini»). Inscena teatrini grotteschi ma liberatori come quando chiede ai ragazzacci di inginocchiarsi e di espiare le loro colpe («te t’ho visto che hai peccato e guardavi le tette a lei, e lei pure è peccatrice che te le ha mostrate tutta la sera»). Fa il Piero insomma. Canta saltando tutto il tempo nonostante gli stivaloni con la sua canottiera ascellare e i tatuaggi bene in vista, alterna mosse da allenamento di fitness a danze esoteriche attorno a un’asta del microfono foderata di pelliccia nera. È tamarrissimo, quel tipo di tamarraggine che a un certo tipo di donna piace, come direbbe la Littizzetto.

Insomma, per anni ci siamo scervellati per capire cosa vuol dire essere rock o lenti e lui certamente è qualcosa di rock. Prendete il primo disco dei Litfiba e ascoltatelo, non sembra nemmeno lo stesso cantante, ha una voce qualunque… una voce che non funzionava. Poi arrivano i dischi successivi e succede qualcosa. Piero sfoggia una voce camuffata, un misto da vocalist del corso di aerobica e certi urletti di Renato Zero. Una roba ridicola, ovattata e impostata eppure coraggiosa e trascinante tanto che ci forgia un marchio inconfondibile. A volte non si capisce nemmeno cosa dice (la mia ragazza era convinta che in Picnic all’inferno cantasse “Bic Bic Califano”), ma è così musicale che si lascia ascoltare. Ecco, uno che fa una roba del genere non sarà il rock, ma ne è quantomeno una variante. 

Tolto Piero lo spettacolo è scarso. Il concerto è spesso noioso e se in platea si poga, in piccionaia con le poltroncine da ufficio vendute a 50 euro la gente non muove ciglio. A mio avviso è colpa degli arrangiamenti troppo ripetitivi. I momenti più belli sono quando esegue le vecchie hit (sia quelle da solista come Toro Loco e Bomba boomerang, sia le mitiche Fata Morgana o Lacio Drom), questo perché pezzi come Dea musica non hanno troppo senso. Dopo i Litfiba, Pelù ospita sul palco la Bandabardò e per un momento sembra di essere alla Flog! o al CPA Fi-Sud nel 1998, ma sbaglia le parole della canzone. Vengo via dopo una versione lunghissima e deludente di El Diablo, ma sono comunque soddisfatto al 50% con mio grande stupore. Non è un concerto che vedrei due volte ma è qualcosa che va benissimo live. Non comprerei mai un suo disco oggi e non mi va di ascoltare in macchina la sua produzione attuale. Questo per dire che la musica di Piero Pelù non ha altro senso se non sul palco e questo, piaccia o no, è l’essenza del rock.

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