Gli album di Pete Townshend, dal peggiore al migliore | Rolling Stone Italia
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Gli album di Pete Townshend, dal peggiore al migliore

Se con gli Who è sempre rimasto fedele al canone rock, da solista ha scritto musica sperimentale e avventurosa. Ecco la guida definitiva alla discografia di Townshend, nel giorno del suo compleanno

Gli album di Pete Townshend, dal peggiore al migliore

Pete Townshend nel 1972

Foto: Jack Kay/Daily Express/Hulton Archive/Getty Images

Pete Townshend non pubblica un disco a suo nome da quasi trent’anni. Eppure c’è stato un momento, tra i ’70 e gli ‘80, in cui i suoi album solisti lasciavano un segno, incrociandosi con la parabola discendente e con la dissoluzione degli Who. I punk più intransigenti lo citavano come figura influente e di riferimento, risparmiandogli l’ostracismo riservato ai vecchi dinosauri del rock. I grovigli e le complicazioni della vita personale (droga, alcol, un matrimonio fallito, il disorientamento e la frustrazione conseguenti alla morte di Keith Moon e alla disintegrazione del gruppo a cui aveva dedicato anima e corpo) non lo frenavano, anzi: in parallelo a un percorso di ricerca spirituale iniziato già negli anni ’60, funzionavano da detonatore per una esplosione creativa che cercava sfoghi musicali e sbocchi discografici.

Almeno dai tempi di The Who By Numbers, bellissimo e sottovalutato LP datato 1975, Townshend aveva indossato in pubblico i panni della rockstar di mezza età in crisi di identità, incline a un’autoanalisi spietata e sincera in cui molti potevano riconoscersi. Non era mai stato, del resto, soltanto il signore dei power chords, il tipo che sul palco mulinava freneticamente il braccio sulle corde della Gibson o che sfasciava le chitarre, l’artefice di inni generazionali e di ballate vigorose amplificate dall’ugola d’acciaio di Roger Daltrey. Per lui il rock’n’roll non era mai stato soltanto un’occasione per parlare di donne, sesso, sballi, evasione e auto sportive. Serviva anche a raccontare, con sincerità, humour e sarcasmo, di debolezze e di impacci, di smarrimenti e di delusioni, di bisogno d’amore terreno e universale: soprattutto quando a cantare era lui, con quella sua voce acuta e un po’ stridula, tutta di gola e un po’ tremante che rifletteva una personalità fragile, tormentata e profondamente umana al di là delle spacconerie e di dichiarazioni volutamente polemiche e a volte indisponenti.

A un certo punto la distinzione era diventata chiara: con gli Who Townshend restava fedele al motto “give the people what they want”, scrivendo pezzi rock classici e orecchiabili da cantare in concerto, riservando invece alla produzione solista le sue velleità artistiche attraverso opere più intimiste e meditate, spesso concepite come parte integrante di complessi e ambiziosi progetti multimediali che includevano film o rappresentazioni teatrali.

Tutto era cominciato sotto traccia e senza particolari ambizioni nel 1970, con Happy Birthday: il primo di una trilogia di dischi dedicati alla memoria del suo maestro spirituale, l’indiano Meher Baba, con scarsa attenzione mediatica e una distribuzione limitata a poche migliaia di copie come avvenne in seguito anche per i I Am (1971) e With Love (1974), realizzati con pochi mezzi e con l’aiuto di amici come Ron Wood e Ronnie Lane dei Faces e il compositore scozzese Ron Geesin, famoso in quegli anni per il contributo essenziale fornito ad Atom Heart Mother dei Pink Floyd. Più tardi, Pete si intrattenne anche in un delizioso esercizio di voyeurismo musicale: primo tra tutti ad aprire i suoi archivi e a permettere ai fan di osservarlo al lavoro dal buco della serratura con quelle tre magnifiche antologie, il doppio Scoop (1983), Another Scoop (doppio anch’esso, 1986) e Scoop 3 (2001), zeppe di provini, di outtakes, di schizzi e di bozzetti scrupolosamente annotati con aneddoti e informazioni tecniche che molto raccontavano sulla nascita e l’evoluzione di dischi come Who’s Next, Quadrophenia e la sua grande incompiuta, Lifehouse; sul suo metodo di lavoro, sulla sua curiosità intellettuale, sulla sua voglia di giocare con gli strumenti e con le note e sulla sua ossessiva ricerca di un suono “puro e spontaneo” capace di far vibrare corde universali, come lui stesso aveva scritto in una vecchia canzone. Ma è soprattutto con i suoi sette album di studio “ufficiali” che Pete ha svelato se stesso, interrogandosi sulla natura umana, sulle sue pulsioni autodistruttive e sul desiderio di trascendenza, senza mai dimenticare che, pur con tutte le sue trappole mortali, è stato il rock and roll a salvargli la vita: eccoli elencati dal peggiore al migliore, a nostro sindacabile giudizio.

7The Iron Man – The Musical by Pete Townshend (1989)

Un racconto illustrato di fantascienza destinato al pubblico infantile e scritto nel 1968 da Ted Hughes (il protagonista è un uomo metallico di origini sconosciute che semina distruzione prima di fare amicizia con un bimbo e difendere il pianeta dalle minacce aliene) fornisce lo spunto a Townshend per veicolare sentimenti antibellici e ambientalisti per mezzo di un musical che trova il suo sbocco naturale anche a teatro. Musicalmente, però, il suo Iron Man è un gigante dai piedi d’argilla cui fanno difetto misura, disciplina e coerenza stilistica: un calderone piuttosto confuso e disomogeneo a cui non vengono in soccorso neppure pezzi da novanta come John Lee Hooker e Nina Simone, decisamente fuori parte (lui snaturato in un paio di ridondanti techno-blues, lei costretta a rappare in un electro funk evanescente). Qualcosa si salva (la ballata acustica A Friend Is A Friend, per esempio), ma le cose non migliorano neanche quando entrano in scena Roger Daltrey e John Entwistle e prende forma una estemporanea reunion degli Who: Dig, che il gruppo proporrà anche dal vivo, è un pezzo appena dignitoso, mentre la cover di Fire di Arthur Brown mostra inutilmente i muscoli e affoga in un fragore senza costrutto.

6Psychoderelict (1993)

Più un radiodramma che una semplice raccolta di canzoni, Psychoderelict è un concept che racconta la storia di Ray High, rockstar in caduta libera (ogni riferimento biografico non è puramente casuale), e dei suoi rapporti con alcune figure di contorno (un manager spregiudicato e una cinica dj radiofonica di cui si innamora). È un pretesto per parlare ancora una volta delle storture del music business, di avidità, di sesso, di ecologia e di paura di invecchiare attraverso una sequenza di brani di impianto classico (il ritratto mordace e insolente di English Boy sarebbe stato adatto anche agli Who e alla voce di Daltrey) e con qualche divagazione stilistica non sempre convincente che strizza l’occhio al techno-pop e al metal più mainstream (decisamente meglio il gospel rock di Predictable e il ritmo sciolto di Outlive The Dinosaur). A rendere tutto più faticoso e ingarbugliato, nella versione originale del disco, sono i dialoghi e i commenti che interrompono con frequenza il flusso della musica schiacciandola in sottofondo (la casa discografica provvederà in seguito a distribuire sul mercato una versione “tagliata” con le sole canzoni). E siccome nulla si crea e nulla si distrugge, alla fine riaffiora anche l’inconfondibile melodia di Baba O’ Riley.

5White City: A Novel (1985)

L’ennesimo concept, ancora una volta parzialmente autobiografico e incentrato su ricordi di vita in un quartiere della periferia londinese degli anni ’60, è un piccolo “romanzo” tradotto anche in un video della durata di un’ora che intreccia i temi della alienazione urbana, delle tensioni razziali, del bullismo e della violenza nelle strade, espresso musicalmente in un disco molto più rock, aggressivo ed estroverso del precedente All The Best Cowboys Have Chinese Eyes. Le sonorità artificiose tipiche di certe produzioni anni ’80 tolgono un po’ d’aria alle canzoni, non tutte di primissima qualità (il calypso elettronico di Hiding Out), ma ci sono diversi guizzi di classe: Give Blood (con la chitarra elettrica di David Gilmour) è un pezzo d’apertura impetuoso e palpitante, Secondhand Love un rock blues robusto e graffiante e I Am Secure un benefico intermezzo per voce e chitarra acustica nel più classico stile Townshend, mentre è impossibile restare fermi ascoltando il basso boogie, l’armonica blues, i fiati swing e il ritmo implacabile del singolo Face The Face (con una strofa in rap). Oltre a partecipare al successivo, spettacolare tour, Gilmour firma la musica di White City Fighting: con un nuovo testo e un ritmo rallentato circolerà anche con il titolo di Hope, una canzone che il cantautore inglese Roy Harper includerà quello stesso anno in un album registrato con Jimmy Page e intitolato Whatever Happened to Jugula?.

4Rough Mix (con Ronnie Lane) (1977)

Due anime fragili e inquiete come Pete Townshend e Ronnie Lane, ex bassista degli Small Faces e dei Faces, non potevano non intendersi: arrivavano da esperienze analoghe, erano stati due bandiere del movimento mod e amavano la stessa musica. In Rough Mix (titolo fuorviante: non c’è nulla di rudimentale e provvisorio in questo disco), nato inizialmente come progetto solista di Lane a cui Townshend avrebbe dovuto semplicemente dare una mano, colloquiano spontaneamente e in assoluto relax, dividendosi equamente le canzoni e i primi piani con il contorno di tanti amici importanti: Eric Clapton, Charlie Watts, Ian Stewart, John Entwistle e molti altri. Srotolano un tappeto di suoni caldi, naturali e semiacustici che spesso si indirizzano verso quella che oggi si chiamerebbe Americana, tra una title track strumentale che ricorda i Little Feat e la Band, l’r&b alla Fats Domino di Catmelody e una bella dose di quel country & western di cui soprattutto Ronnie era appassionato (il banjo e l’armonica di Nowhere To Run, la slide di April Fool, la bella cover corale di Till The Rivers All Run Dry, grande successo nel 1976 per Don Williams). Lane snocciola una collana di quelle sue impagabili ballate lievi, un po’ stropicciate e malinconiche (Annie è probabilmente la migliore), Pete risponde con un sincopato scioglilingua doo wop (Misunderstood), una Penny Lane per chitarra acustica e orchestra intitolata Street In The City e una ballata rock, Heart To Hang Onto, che non ha nulla da invidiare ai pezzi migliori degli Who. Meriterebbe probabilmente di stare più in alto in graduatoria, ma Townshend si può arrogare solo metà del merito.

3All The Best Cowboys Have Chinese Eyes (1982)

Introspettivo, autoanalitico e ai tempi molto snobbato, questo disco riflette il precario stato di salute mentale e fisica di una rockstar travolta dai turbini dell’esistenza. Un uomo e un artista che implora a se stesso di smetterla di fare del male al prossimo (la delicata Stop Hurting People, adagiata su un fuorviante ritmo quasi disco), che si guarda allo specchio faticando a riconoscersi (Face Dances, Pt. 2, singolo piacevole ma di scarso successo), che riflette sul tema — molto britannico, e molto mod — dell’abbigliamento vissuto come strumento di identificazione e di appartenenza sociale (la marcetta synth-pop di Uniforms), che riflette sul passare del tempo (“non posso fingere che invecchiare non faccia mai male”, canta nella vivace Slit Skirts) e che ringrazia tutti coloro che, nel corso di una esistenza turbolenta, lo hanno salvato dal baratro (Somebody Saved Me, proposta anche agli Who ma migliore in questa versione carica di pathos). Allestita una vera e propria band alternativa, Townshend si fa tentare dalle sonorità new wave (Exquisitely Bored ha l’incedere, l’eleganza e lo stile delle cose migliori di Sting), incespica con una rielaborazione poco convincente di North Country Girl (traditional reso celebre da Bob Dylan) ma sfodera anche una magnifica ballata come The Sea Refuses No River, musica vibrante e testo confortante: nel grande e armonico disegno dell’universo, si consola Pete, c’è posto anche per anime perse come la sua.

2Who Came First (1972)

Le foto di Meher Baba riprodotte in copertina non lasciano dubbi: come i semisconosciuti e antecedenti Happy Birthday e I Am, anche Who Came First — primo album solista di Pete Townshend distribuito capillarmente nei negozi — è un disco ispirato agli insegnamenti del suo maestro spirituale indiano. Vi partecipano altri adepti come l’amico Ronnie Lane (che dedica al tema della reincarnazione Evolution, uno scanzonato skiffle blues un po’ dylaniano) e Billy Nicholls, coautore di Forever’s No Time At All scelta come singolo e in cui il chitarrista degli Who non compare neppure. Ma il resto è tutta roba sua, un mosaico di brani registrati nel suo home studio che quasi anticipa la logica dei futuri Scoop recuperando frammenti dai dischi “devozionali” (la quieta meditazione di Content e l’ode di Parvardigar, trasposizione per voce e chitarra acustica della preghiera universale di Meher Baba, mentre è in onore dello scomparso Avatar indiano che trova posto in scaletta una delle sue canzoni preferite: la cover di There’s A Heartache Following Me, successo country anni ’60 di Jim Reeves) e aggiungendovi alcuni demo acustici e inediti. Sono quelli, i pezzi forti: Pure and Easy, di cui era sopravvissuto un frammento in Who’s Next (in coda a The Song Is Over), era l’architrave di quel Lifehouse passato alla storia come la tela di Penelope del musicista inglese, Nothing Is Everything (Let’s See Action) il provino di un dinamico rock and roll pubblicato l’anno prima come singolo dagli Who e Sheraton Gibson, un piccolo e memorabile quadretto in fingerpicking sulle malinconie e i rimpianti della vita on the road.

1Empty Glass (1980)

Una conferma della teoria secondo cui sono le tempeste emotive, i turbamenti e gli equilibri instabili a produrre spesso i frutti artistici migliori. Nel 1980 Pete Townshend è un naufrago alla deriva con grossi problemi di alcol e droga, un matrimonio in frantumi, molti dubbi esistenziali e altrettanti sensi di colpa. Ringrazia nelle note di copertina i produttori del cognac Remy Martin per avergli salvato la vita aumentando il prezzo del liquore, dedica il disco alla moglie Karen e il primo brano, la travolgente Rough Boys, ai Sex Pistols e a tutti i punk rockers di cui sposa atteggiamento e spirito iconoclasta. Drum machine e suoni datati anni ’80 non intaccano l’altissima qualità del repertorio (e del resto Pete era abituato ad armeggiare con i synth fin dai tempi di Who’s Next, utilizzandoli come una orchestra d’archi): l’accattivante e ottimista electro-pop di Let My Love Open The Doors gli apre le porte delle classifiche e resterà il maggiore successo commerciale in carriera; una ballata intensa come I Am An Animal e il vertiginoso riff pianistico di And I Moved (che molti interpretano come un outing sulle inclinazioni bisessuali dell’autore) meriterebbero un posto in un best of, mentre Jools and Jim è una furibonda sfuriata contro i giornalisti che hanno infangato la memoria di Keith Moon, morto due anni prima. La title track prende a prestito dal poeta persiano Hafez il concetto filosofico del “bicchiere vuoto” per simboleggiare l’offerta di sé a Dio, l’esplosiva Gonna Get Ya e la marziale A Little Is Enough (un invito alla moderazione, secondo gli insegnamenti di Meher Baba) sono rock potenti e moderni che testimoniano una vitalità malgrado tutto incontenibile. Quando, l’anno dopo, uscirà Face Dances degli Who, sarà chiaro a tutti (anche a Daltrey e a Entwistle) che Townshend si è tenuto il meglio per sé.

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