Gli album di Ozzy Osbourne, dal peggiore al migliore | Rolling Stone Italia
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Gli album di Ozzy Osbourne, dal peggiore al migliore

Simbolo della follia e degli eccessi del rock, Ozzy ha costruito una carriera incredibile, piena di resurrezioni e svolte inaspettate. Dal primo ‘Blizzard of Ozz’ all’ultimo ‘Ordinary Man’, ecco la nostra guida ai suoi dischi

Gli album di Ozzy Osbourne, dal peggiore al migliore

Ozzy Osbourne

Foto: Martyn Goodacre/Getty Images

Dato per morto innumerevoli volte, Ozzy Osbourne è rinato continuamente. Simbolo per eccellenza della follia e degli eccessi del rock, l’ex Black Sabbath è riuscito a superare ogni tipo di ostacolo, dalla cacciata dal gruppo che contribuì a rendere immortale alla morte di molti compagni d’avventura, fino alla recente diagnosi di Morbo di Parkinson. La sua vita da artista solista, poi, ha saputo raggiungere i fasti di quella precedente, riuscendo spesso a superarla. Ecco la lista dei suoi album da studio, dal peggiore al migliore.

12. “Scream” (2010)

C’era molta attesa per il primo disco di Ozzy dopo la separazione da Zakk Wylde. Osbourne ha sempre tratto giovamento dai cambi di chitarrista, ma questa volta il miracolo non avviene. Il sodalizio con Gus G, promettente musicista greco assoldato per sostituire Wylde, non parte mai davvero e i brani si dimenticano in fretta. Forse non a caso, passeranno ben dieci anni prima di ritrovare un nuovo album d’inediti di Ozzy.

11. “Black Rain” (2007)

L’ultimo album con Zakk Wylde in formazione è anche il più trascurabile del lungo rapporto tra i due. Il songwriting non è più quello di un tempo e le hit latitano. È comunque un album apprezzabile per i fan di Ozzy, che ritrovano gli stilemi della sua lunga carriera, ma non un’opera imprescindibile. Segno che la collaborazione che l’ha salvato nella metà degli anni ’80 non è più sufficiente.

10. “Under Cover” (2005)

Un gradevole esercizio di stile in cui il cantante omaggia con classe parte dei suoi idoli giovanili. Prodotta dall’esperto Mark Hudson, la raccolta vede Ozzy cimentarsi, tra gli altri, con brani di Joe Walsh, Cream, Mott The Hoople e Rolling Stones. A fare da padrone, però, è l’amore del frontman per i Fab Four, da sempre il gruppo più citato nelle interviste. Oltre alla toccante versione di In My Life, Working Class Hero e Woman rendono Under Cover interessante.

9. “Down to Earth” (2001)

Ozzy vive un grande momento personale. La reunion con i Black Sabbath lo ha riportato alla ribalta, facendogli conquistare una nuova fetta di mercato. La fiducia e la salute ritrovate lo convincono a tornare in studio a sei anni di distanza da Ozzmosis. Il risultato è un lavoro solidissimo, con il basso di Robert Trujillo e la chitarra di Zakk Wylde in grande evidenza e un Ozzy tornato a crederci come ai bei tempi. Forse poche hit da ricordare, ma chissenefrega.

8. “The Ultimate Sin” (1986)

Il secondo e ultimo album con Jake E. Lee alla chitarra. I rapporti tra i due non erano più idilliaci come ai tempi di Bark at the Moon e il disco inevitabilmente ne risente. Eppure The Ultimate Sin è ancora un solido concentrato di quello che Ozzy sa fare meglio e nel tempo è stato rivalutato completamente. Anche se non è il suo lavoro più a fuoco, resta uno dei più celebri e venduti grazie al singolo Shot in the Dark. Ma il capolavoro è Killer of Giants.

7. “No Rest for the Wicked” (1988)

Fuori Jake E. Lee e dentro il giovane Zakk Wylde. Una nuova scommessa per Ozzy, da sempre alla ricerca della magia che aveva trovato in Randy Rhoads. Neanche questa volta sbaglia: lo stile di Wylde dona nuova linfa vitale alla poetica di Osbourne e l’iniziale Miracle Man è il migliore dei biglietti da visita possibile. Un ottimo inizio, per il quale Ozzy decide di farsi supportare dalla produzione di Roy Thomas Baker, noto per il lavoro con i Queen.

6. “Ozzmosis” (1995)

Non era difficile dare un seguito al pluripremiato No More Tears. Il destino di Ozzmosis era in qualche modo già segnato. Invece di replicare una formula che aveva funzionato alla perfezione, Ozzy decide di cambiare rotta, producendo uno dei suoi album più cupi e personali. Tanto i testi quanto il sound risentono pesantemente del difficile periodo personale del cantante e sono impreziositi dalla presenza di Rick Wakeman, Lemmy Kilmister e Geezer Butler. L’album ha spaccato in due la sua fanbase e negli anni è andato incontro a un processo di rivalutazione.

5. “Ordinary Man” (2020)

Chi avrebbe mai immaginato che, superati i 70 e colpito da una malattia degenerativa, Osbourne riuscisse a tirare fuori dal cilindro un lavoro come questo? Nessuno, soprattutto perché erano ben dieci anni che Ozzy non si rimetteva al lavoro su un album a proprio nome. Invece, come nelle favole migliori, Ordinary Man giunge come la ciliegina sulla torta di una carriera irripetibile e sempre fuori dall’ordinario. Un album in cui malinconia, classe e autoironia convivono alla perfezione, rendendolo uno dei migliori di sempre.

4. “Bark at the Moon” (1983)

Per molti, l’ultimo grande album dell’Ozzy disfunzionale e senza freni che aveva ricominciato a vivere dopo l’abbandono dei Black Sabbath. Seppur un filo sotto rispetto ai primi due dischi solisti, Bark at the Moon resta un super classico della musica hard, anche grazie al nuovo pupillo di Jake E. Lee, capace di prendersi sulle spalle l’eredità del compianto Rhoads. Il folle video della title track, con Ozzy in versione uomo lupo, resta uno degli highlights di un’epoca in cui ci si poteva permettere ogni cosa.

3. “No More Tears” (1991)

Quella di Ozzy è una storia di infinte rinascite artistiche e umane e No More Tears è una delle più riuscite in assoluto. Aiutato da una serie di nuove band che vedevano nei Black Sabbath un faro imprescindibile, Osbourne si riprende la scena hard & heavy con la forza dieci anni prima. È un album quasi perfetto, in cui l’amore per la melodia si sposa alla perfezione con sonorità più pesanti. Metà dei classici suonati dal vivo da lì in avanti arriveranno da questo disco, power ballad comprese.

2. “Diary of a Madman” (1981)

Difficile scegliere il vincitore tra Diary of a Madman e Blizzard of Ozz, soprattutto perché entrambi figli di uno dei momenti di massima ispirazione di Osbourne. Il rapporto con Randy Rhoads è ormai al limite della simbiosi e la complessità di alcuni passaggi è sbalorditiva. Meno immediato e senza le hit del precedente, Diary ha il merito di spingersi in territori meno convenzionali e più epici, lasciando immaginare che, se Rhoads non fosse morto, la musica di Ozzy avrebbe continuato a evolversi.

1. “Blizzard of Ozz” (1980)

Il primo vero spartiacque della vita di Ozzy giunge alla fine degli anni ’70, quando la sua strada e quella dei Black Sabbath si dividono. Nessuno avrebbe puntato una lira sul suo futuro musicale, nemmeno lui, che infatti sprofonda in un abisso fatto di alcol e droghe. L’incontro col giovane Randy Rhoads è la svolta decisiva: il suo stile innovativo, capace di coniugare tanto il rock classico quanto il chitarrismo più spinto di un Eddie Van Halen, è una vera e propria manna dal cielo. Uno dei classici assoluti della musica pesante, al pari dei capolavori dei Black Sabbath.

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