Gli album dei Doors, dal peggiore al migliore | Rolling Stone Italia
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Gli album dei Doors, dal peggiore al migliore

A oltre cinquant’anni dal debutto, i Doors restano una della band più affascinanti della storia. Ma qual è il loro disco più bello? Meglio la rabbia dell’esordio, il blues di ‘L.A. Woman’ o l'album di 'When the Music's Over'?

Gli album dei Doors, dal peggiore al migliore

Un dettaglio della copertina di 'Morrison Hotel'

Con sei album da studio in soli quattro anni, i Doors sono stati capaci di sconvolgere le certezze di un pubblico che si apprestava a vivere l’Estate dell’amore. Merito della figura di Jim Morrison, capace di catalizzare l’attenzione di fan e media, ma anche di tre musicisti provenienti da ambienti musicali inusuali per l’epoca. Anche per questo, a più di cinquant’anni dal debutto, la band di Los Angeles rimane una delle più affascinanti e, per molti versi, meno comprese della storia del rock. Abbiamo messo in fila le loro opere, dalla peggiore alla migliore, scegliendo di escludere quelle composte dopo la morte di Morrison.

6. “The Soft Parade” (1969)

Un album nato sotto cattivi auspici. Se le prime tre opere del gruppo, in particolare The Doors e Strange Days, erano caratterizzate da una spontaneità evidente, qui le cose iniziano a farsi dannatamente complicate. Le condizioni di Morrison, sempre più schiavo dell’alcol e del proprio personaggio, unite alla scelta di aggiungere fiati e ottoni al sound della band, si rivelarono decisive. Peccato, perché di carne al fuoco ce n’era parecchia e la versione “snella” pubblicata per il cinquantesimo anniversario lo dimostra appieno.

5. “Morrison Hotel” (1970)

Il disco della rinascita. L’incidente di Miami aveva completamente distrutto la band, già reduce dalle polemiche legate al cambio di sonorità di The Soft Parade. Le strade per Morrison erano due: soccombere ai propri demoni o mettersi tutto alle spalle e ripartire. Il risultato fu una via di mezzo: seppur sempre più dipendente dal whisky, Jim decise di riprendersi la scena. Il gruppo lo segue a ruota su territori torridi e blues, mostrando la solita classe e supportando la sua lascivia.

4. “Waiting for the Sun” (1968)

Ok, i primi segnali di stanchezza iniziano a farsi sentire, ma Waiting for the Sun risente ancora dell’urgenza creativa dei due lavori precedenti. Questa volta, la poetica di Morrison avrebbe dovuto trovare il proprio culmine in The Celebration Of The Lizard, lunghissimo brano mai giunto a una conclusione soddisfacente. Restano perle come The Unknown Soldier, Five To One e Spanish Caravan, oltre al singolone Hello, I Love You.

3. “Strange Days” (1967)

L’album preferito di quasi tutti i componenti del gruppo insieme a L.A. Woman esce a pochi mesi dal debutto, ma non riesce a bissarne per intero il successo. La mancanza di un singolo spaccaclassifica come Light My Fire si fa sentire, ma la sensazione è che, nel complesso, l’album sia ancora più coerente del precedente. Meno immediato e più complesso di The Doors, Strange Days trova i propri apici nella title track, in People Are Strange e nell’epica When the Music Is Over.

2. “The Doors” (1967)

L’urlo selvaggio e nichilista della band americana meno in linea con la controcultura musicale degli anni ’60. Solo i Velvet Underground erano riusciti a essere egualmente disturbanti, ma nessuno se n’era accorto. Grazie alla figura di Morrison, invece, in poche settimane i Doors diventano la maggiore attrazione d’America e The Doors racchiude tutte le spregiudicate sfumature delle anime dei suoi componenti. Una raccolta di brani composti prima di essere scritturati dalla Elektra, per un mix di rabbia giovanile e furia iconoclasta.

1. “L.A. Woman” (1971)

La band che si ritrova in studio col produttore Paul Rothchild è ormai allo sbando. Poche idee, poca voglia e uno strisciante malcontento che sta minando i rapporti personali dei quattro. Morrison è ormai allo sbando, stanco del circo del rock ‘n’ roll e della vita. Eppure, come spesso accade, nei momenti delicati nascono le cose migliori e il ritorno alle origini del blues è una medicina salvifica. Rothchild se ne va, la band si chiude nei propri uffici e tira fuori il migliore dei colpi di coda. In L.A. Woman confluiscono tutte le anime e le sfaccettature musicali della band, che sostituisce l’impeto dionisiaco degli esordi con una decadenza altrettanto disturbante. La band è al top: Krieger torna a sfornare un singolo come Love Her Madly e Morrison si trasforma da Re Lucertola in vecchio bluesman rassegnato e incantatore. Imprescindibile.

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