Gli album anni ’70 degli Area, dal peggiore al migliore | Rolling Stone Italia
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Gli album anni ’70 degli Area, dal peggiore al migliore

Nei dischi registrati con Demetrio Stratos gli Area sono arrivati là dove nessun altro gruppo italiano ha osato spingersi. Ecco il loro piano quinquennale fatto di prog-jazz e politica, gioia e rivoluzione

Gli album anni ’70 degli Area, dal peggiore al migliore

Un dettaglio della copertina di 'Le Milleuna'

Foto: Roberto Masotti

Una disamina del corpus discografico degli Area con Demetrio Stratos non ha bisogno di grandi introduzioni. Basti sapere che questa band è arrivata dove altri non hanno osato, che è stata in grado di smuovere le coscienze politiche di migliaia di persone grazie a una musica che non concede quasi nulla al facile ascolto, anzi spesso si fa impervia, quasi urticante. Ma in questa difficoltà c’è tutto il senso del mettersi in gioco come musicisti e far sì che in questo gioco possano essere coinvolti anche gli ascoltatori. Mettere su un disco degli Area non significa ascoltare in modo passivo, ma essere stimolati a rendersi parte attiva, a penetrare nei meandri di un suono-mondo e a sfidare le proprie certezze per approdare a una più alta coscienza sociale.

Non serve dire altro, questa classifica è solo un pretesto per ricordare cinque dischi che hanno fatto la storia della musica e quale incredibile mistura abbiano potuto concepire le teste pensanti di Demetrio Stratos, Patrizio Fariselli, Paolo Tofani, Ares Tavolazzi e Giulio Capiozzo.

5“Caution Radiation Area” (1974)

La posizione a fondo classifica non deve dare adito a dubbi: Caution Radiation Area non è un album poco riuscito, è il lavoro più difficile, quello con il quale è meno immediato trovarsi in sintonia. Ma quando lo si penetra è un mondo che si spalanca. Dopo l’inizio di Cometa Rossa, in linea con il disco d’esordio, il resto divaga in territori febbricitanti tra sciabordate free jazz, campionamenti ante litteram e un modo di suonare in totale libertà, con lo Stratos-sciamano a gettare semi di alienazione sul tutto. Qui dentro c’è Lobotomia, con Fariselli che dal vivo, al buio, tendeva il cavo di un sintetizzatore per farlo toccare dai presenti. Più era toccato più le frequenze salivano, nel mentre tutti erano legati con fili di lana colorati. Nel suo teatro dell’assurdo tutto questo univa le persone a partecipare a un happening musicale e politico dove non esistevano più barriere tra artista e pubblico.

4“1978 gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano!” (1978)

È l’album più “pop” degli Area, con un generale senso di rilassatezza dopo la tensione dei dischi precedenti, specchio dei tempi che stavano cambiando, del riflusso che investì l’Italia alla fine degli anni ’70. È anche l’ultimo lavoro con Stratos prima della sua dipartita. Gli stilemi imperanti sono ancora quelli del jazz-rock etnico, qui virato però in forma canzone: Hommage à Violette Nozières (in seguito ripesa anche da Elio & le Storie Tese), Il bandito del deserto, Guardati dal mese vicino all’aprile! rappresentano ciò che gli Area sarebbero potuti diventare: una band aperta a nuovi e svariati stimoli che col tempo si sarebbero fatti sempre più ampi. Sarebbe stato bellissimo ascoltarli.

3“Maledetti (maudits)” (1976)

L’unico concept album degli Area descrive una società futura nella quale un plasma liquido, rappresentante la coscienza del mondo, viene disperso. A seguito di ciò ci sono tre alternative: potere agli anziani come depositari della memoria, potere alle donne come fornitrici di energia, potere ai bambini come garanzia di libertà. Tutto ciò si traduce in un fantastico girovagare tra jazz più o meno free, sarabande strumentali ad alto tasso di tecnicismo, (rare) aperture melodiche fornite dalla voce plurima di Stratos, caos totale.

2“Arbeit Macht Frei” (1973)

Il celebre esordio con tanto di pistola di cartone allegata, uno sparo a tutto ciò che era stato prima. Mentre l’Italia si fa ammaliare dalle favole prog-sinfoniche, gli Area vanno in direzione contraria, mostrano l’orrore, la sopraffazione, cercano di colpire con una musica che è essa stessa rivoluzione. Come i padri del free jazz che mettevano in scena suoni in completa libertà senza concedere nulla al facile ascolto, così fanno loro con il tramite del rock che amplia la tavolozza delle sue possibilità e diventa suono totale per aprire le menti e scatenare la lotta. Non facili slogan, ma brani nei quali è imposto un impegno da parte dell’ascoltatore per penetrarli e favorire la trasformazione. Per il resto basta un titolo: Luglio, agosto, settembre (nero).

1“Crac!” (1975)

C’è in Crac! tutto quello che deve esserci in un disco degli Area. Parafrasando un famoso brano qui contenuto c’è la gioia e c’è la rivoluzione del suonare liberi, il fregarsene di classifiche, soldi, popolarità, il solo compito di esprimere completamente se stessi grazie a musica e parole che mai con in questo caso ti sparano in faccia tutta le verità senza nulla celare. Il botto world-rock de L’elefante bianco, il cazzutissimo funk in dispari di La mela di Odessa, il jazz-rock tesissimo di Megalopoli, il folk-pop di Gioia e rivoluzione, la contemporanea di Area 5: questo è un disco che tramortisce di bellezza, ed è colmo di tutto quello che serve per far sì che la musica possa cambiare il mondo.

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