La prima cosa che si potrebbe pensare di Ernesto Assante, storico critico musicale di Repubblica morto ieri a 66 anni e tra i pochissimi noti al grande pubblico e non solo agli addetti ai lavori, è che fosse un giornalista di un’altra epoca. Aveva cominciato nel 1977, dalla fine degli anni Settanta era già sul quotidiano di Scalfari in un periodo in cui gli artisti erano avvicinabili e si concedevano volentieri, c’erano più soldi da parte di tutti per finanziare interviste, trasferte, reportage e la stampa aveva ancora un ruolo di guida. Anche in un contesto paludato come quello di un quotidiano di carta, lui ci metteva sempre il guizzo, raccontava le novità, stava un passo avanti. E il pubblico, per attitudine e per merito, lo ascoltava.
Poi però la crisi, le fanzine sempre più professionali (da Pitchfork in giù) che avevano rinnovato il linguaggio, questa rivoluzione dei social sull’online, con pagine Instagram non si sa quanto trasparenti che soppiantano i blog… insomma, quelli che viveva lui, per noi mortali, erano dei privilegi, e in più era cambiato tutto il contesto. Ci voleva un attimo a diventare un fossile, un trombone, uno sconnesso dalla realtà.
Eppure c’era qualcosa, nel giornalismo di Assante, che rimane attuale e senza tempo. Raccontano a Repubblica, nei ricordi presenti sul sito, tipo questo di Riccardo Luna, che avesse curiosità e voglia di futuro. Tanta voglia di futuro. Forse era tutto lì. Oltre a una passione che l’ha fatto sempre stra-lavorare, rendendolo quasi un Maurizio Costanzo della musica per eclettismo e dedizione, presente nella vita di tanti italiani anche oltre quello che uno si aspetterebbe da un giornalista musicale.
Ha fatto radio, da giovane, quando le radio libere erano la novità, e non avrebbe più smesso; dopo ha lavorato come autore tv in programmi come DOC di Renzo Arbore, in cui si potevano vedere i CCCP suonare in Rai, e non avrebbe più smesso neanche lì. È stato tra i fondatori del sito di Repubblica, tra i primi a credere nel digitale, grande appassionato com’era di tecnologia, e gli uffici stampa facevano la fila per fargli intervistare i nuovi, rapper e trapper compresi, perché nonostante intervalli di tempo che nella musica diventano ere geologiche, restava una garanzia prima che una firma. Uno attento, gentile, studioso. In tanti possono dire di aver imparato qualcosa leggendolo o ascoltandolo, fossero anche solo gli inizi della propria formazione.
Tra le decina di artisti che l’hanno ricordato – da Ligabue a Giuliano Sangiorgi, da Cremonini a Elisa, Francesca Michielin, Piero Pelù, Levante: stupisce la trasversalità delle generazioni – i Subsonica hanno detto meglio di tutti il suo segreto di giovinezza: «Ci sono critici in grado di illuminare il tuo percorso e di aiutarti a comprendere meglio chi sei e cosa stai facendo». Assante non era una iena, non era uno in cerca del titolo forte, dello scoop, ma faceva un lavoro altrettanto difficile: entrare in connessione con gli artisti, farli parlare, senza per questo fare interviste banali o da sdraiato, servili; senza dire che fosse tutto bello, senza fingere entusiasmo, senza raccontare menzogne. C’è chi dice che parlarci era sottoporsi a una seduta analitica, ma non era un piacione, una rockstar mancata che cercava di rubare l’attenzione all’intervistato. Veniva da un’epoca in cui il lettore, comunque, era al primo posto, e in questo, sì, era figlio del proprio tempo.
Una delle cose che si dicono spesso agli ultimi mohicani che intraprendono la strada del giornalismo musicale – una strada accidentata, ché se già il mondo dell’informazione è difficile, figurarsi quello legato alle canzoni – è di non farlo con secondi fini, magari per diventare amici dei cantanti di turno, avere i gadget o gli accrediti. Ma di farlo, semmai, per amore del mestiere, che non è un facile. Tanto poi la stima professionale e l’affetto, se si lavora bene (e se la controparte non è, diciamo, miope), arrivano di conseguenza. La storia di Assante sta qui a dimostrarlo.
La musica era una passione, il giornalismo un sacro fuoco in trasformazione. Ne ha provate di ogni, dalla nascita dei supplementi a tema di Repubblica (Musica!, imprescindibile negli anni Novanta) a spazi come Webnotte, per sfruttare le potenzialità di internet e, appunto, i contatti, che se si lavora bene poi gli artisti lo ricordano. Così poteva permettersi di portarli in quella specie di non-luogo e fargli fare, semplicemente, ciò che volevano. E poi i programmi in radio e televisione con Gino Castaldo, la maratona tv L’Italia chiamò con cui era entrato nelle case degli italiani durante il Covid, le Lezioni di rock, le fisse per i Beatles e Sanremo, i podcast, le decine di libri e in generale un’attività da divulgatore che entrava e usciva dai vari formati che lo contenevano. In mezzo, pure una signora carriera al giornale, dov’era diventato inviato e caporedattore: perché, anche se oggi può interessare a pochi, era soprattutto un giornalista, con tutti i paletti etici del caso.
Oggi c’è da chiedersi se ci sia spazio per un’informazione del genere. Un giornalismo gentile, cioè, ma, come si dice, con la schiena dritta: richiede una disponibilità da parte degli artisti che, adesso, non è scontata, una dedizione e un sacrificio più rari oggi che cinquant’anni fa, e richiede a volte anche di staccarsi dall’esigenza dei numeri e del clickbait. Più i soldi che mancano, più la mancanza d’attenzione in generale, più i social che hanno fatto il deserto in termini di stampa. Ma con certi contenuti ci si arricchirebbe tutti: in primis chi legge, ma anche gli artisti. Come dicono i Subsonica. E quindi, c’è spazio? Bella domanda. La storia di Assante non risponde né sì né no, ma sta qui a ricordarci che media, pubblici, esigenze e linguaggi cambiano. Quello che c’è dentro, alla fine, proprio no.