Eddie Van Halen come non l’avete mai letto prima | Rolling Stone Italia
Musica

Eddie Van Halen come non l’avete mai letto prima

Negli ultimi cinque anni di vita, Van Halen ha avuto una fitta corrispondenza con un ex giornalista americano. Tra confidenze, recriminazioni, speranze, timori e la prospettiva della morte, un ritratto senza filtri di un grande chitarrista che lottava per la sua musica e la sua vita

Eddie Van Halen nel 2015. Foto: C. Flanigan/WireImage

«Come se la passa Michael Anthony?». È la prima cosa che dico a Eddie Van Halen, il chitarrista leggendario e co-fondatore dei Van Halen. O meglio, è la prima cosa che dico a uno che potrebbe essere Eddie Van Halen, ma probabilmente non lo è. Insomma, chi voglio prendere in giro? Non è possibile che il vero indirizzo e-mail Eddie Van Halen sia disponibile e visibile a tutti in un database pubblico – e se anche fosse, non sarebbe un indirizzo su America Online.

Insomma, non può essere lui e per questo la mia prima email è stupida e frettolosa. Chi conosce la storia del gruppo sa che Anthony, bassista originale della formazione, è stato sostitutito nel 2006 dal figlio di Eddie, Wolfgang, senza che nessuno si curasse di avvisarlo. O, almeno, così ha detto Anthony. Quindi il mio inizio di conversazione è una frase che ti aspetteresti di vedere scritta su un cartello, a un concerto dei Van Halen, alzato da un fan tradizionalista che vuole trollare la band.

Ma io non sono solo un fan. In una vita precedente sono stato un giornalista musicale e ho lavorato per un periodo anche per il sito di Rolling Stone. Ho intervistato tutti, da Ozzy Osbourne a Diddy. Ma ora è il 2015 e da oltre dieci anni ormai non faccio più quello che era il mio lavoro dei sogni. Ora sono un analista di marketing per una compagnia di assicurazioni mediche: fisso un monitor pieno di tabelle di dati finché non mi lacrimano gli occhi e modero i social dell’azienda in cerca di post che parlano di come lì lavorino solo «cazzoni trufatori» (sic) e «#bastardi».

Inviare e-mail del genere è diventato un passatempo, una specie di gesto nostalgico quando la monotonia del lavoro diventa troppo pesante. Non molto tempo fa ho scoperto che un mio vecchio account in LexisNexis – un database che usano avvocati e giornalisti che contiene, fra le varie cose, le fedine penali delle persone, gli indirizzi, i numeri di telefono e anche le email – non era mai stato disattivato. Ho cercato un paio di ex e poi sono passato alle rockstar: Gene Simmons, Eddie Vedder, Stevie Nicks e tutti i membri originali dei Guns N’ Roses. Ma senza ricevere mai risposta.

Allora sparo la mail su Michael Anthony quasi alle 5 di pomeriggio di domenica 31 maggio 2015, dicendomi che è la prima e anche l’ultima. Ma 51 minuti dopo leggo “c’è posta per te!”. E quella risposta dà inizio a una corrispondenza durata più di cinque anni che cambierà la mia vita.

Eddie Van Halen nel 1978. Foto: Fin Costello/Redferns/Getty Images

Non leggo la mail fino a lunedì mattina, quando arrivo al lavoro. Sento lo stomaco annodarsi un pochino. «Nemmeno lontanamente bene come Wolfgang Van Halen, e mai neppure si avvicinerà!! Chi cazzo sei? Se tu avessi orecchie e cervello lo sapresti da solo!!». Chiunque sia questo tizio è molto protettivo nei confronti di Wolfie. E poi c’è l’orario della sua mail: le 6:45 del pomeriggio – al momento dell’invio era l’ora in California, dove Eddie Van Halen vive. Chi scrive usa anche due volte il doppio punto esclamativo, come i Van Halen fanno nel pezzo Everybody Wants Some!!. Una cosa che mi ha sempre dato fastidio e, onestamente, mi fa piacere un po’ meno la canzone. La gente normale usa un solo punto esclamativo o tre per enfatizzare. Due no. Inizio a pensare che questo sia Eddie Van Halen – o il suo più bravo imitatore al mondo. Noto anche un’altra cosa: vicino all’indirizzo e-mail c’è un nome. Edward Van Halen.

Ma no, non ci casco così facilmente. Allora rispondo subito buttando lì un riferimento a A Different Kind of Truth dei Van Halen, uscito tre anni prima. È il primo disco con David Lee Roth dal 1984 e sette dei tredici pezzi dell’album risalgono a prima del loro debutto del 1978. «Comunque, hai distrutto la formazione classica e, con tutto il rispetto per tuo figlio, visto che la voce di DLR è andata a puttane, ora più che mai hai bisogno di Anthony. E cosa ne dici di pubblicare un po’ di musica che non risale al 1975? Sei pigro da far schifo».

Le mie parole sembrano cogliere nel segno. Poche ore dopo mi trovo cinque nuove e-mail in casella. Sono dei flussi di coscienza intrisi di rabbia e incredulità. Le leggo al volo. Chi scrive dice che non può «controllare la voce di Roth» e mi percula per il mio suggerimento di reintegrare Anthony nel gruppo per coprire l’inadeguatezza della voce di Roth. «Adesso mi vieni a dire che Anthony è un cantante», scrive in una mail. «Sembra Topolino. Ha la voce acuta». Poi incolpa Roth per aver mollato la band nel 1985 e si lamenta della decisione di rimpiazzarlo con Sammy Hagar: «Quando abbiamo preso Hagar niente è più stato come prima».

«Questa è la mia ultima parola», scrive nell’ultima e-mail. «Quando Hagar se n’è andato, Mike ha scelto di seguirlo invece di stare con Alex e me. È stato un tradimento come quello di Roth che ci ha lasciati all’improvviso. Non ci aspettavamo nessuna delle due cose!! Siamo rimasti solo Alex ed io. Per caso Wolfgang era disponibile in quel momento e le cose hanno iniziato a essere di nuovo divertenti. La vita è un cambiamento continuo. E io non posso controllarla, proprio come te. Se potessi, cambierei molte cose, a cominciare dal non bere il mio primo drink e, magari, mi dedicherei al piano e non alla chitarra!!». Oh cazzo. C’è un sacco di roba da metabolizzare. E ci sono quei maledetti doppi punti esclamativi!!

Eddie e Roth non sono mai andati d’accordo. Negli anni in cui Roth non è stato nel gruppo, Eddie spesso si riferiva a lui definendolo «il tizio che c’era prima», «una certa persona», a volte «Cubic Zirconia», una presa in giro poco fine del soprannome Diamond Dave. Oltre a Roth, gli altri arcinemici di Eddie sono stati l’alcol, le sigarette e il cancro. Ha iniziato a bere e fumare giovanissimo, per calmare la sua ansia da prestazione, e non è mai riuscito a smettere nonostante molti tentativi. Ci ha provato quando Wolfgang si è unito al gruppo, ma durante il tour del 2007 ci è ricascato. Sono stati cancellati diversi concerti e lui è tornato in clinica per disintossicarsi. Ora però, dopo anni di ricadute, è pulito e sobrio.

Nel 2000 Eddie ha saputo di essere affetto da un cancro alla lingua che si era propagato all’esofago; due anni dopo gli è stato asportato un terzo della lingua ed è stato dichiarato guarito. Considerando tutto quello che il vero Eddie Van Halen ha passato e il fatto che probabilmente sto parlando con lui, forse è il caso che abbassi i toni.

«Cavolo, ok. . . non volevo farti imbestialire», rispondo 21 minuti dopo la sua mail più recente. «Magari Mike era incazzato perché i VH sono stati fermi per anni… insomma, ci avete messo tipo 15 anni per fare uscire Truth…». Funziona. Il tizio mi scrive ancora un sacco di cose. Mi dice che si infuria «perché sono sempre quello che viene incolpato per ogni cosa». Poi fa a pezzi Roth, ma in futuro farà anche peggio.
«Il motivo per cui ci abbiamo impiegato tanto per Truth è Roth. E anche la faccenda dei vecchi demo riesumati è colpa sua», inizia. Roth è anche il motivo per cui la band «non ha avuto nulla, a parte un disco live [Tokyo Dome Live in Concert del 2015], da far sentire negli ultimi tre anni».

Spiega che Roth vuole solo stare sul palco a fare «il suo spettacolino vaudeville». E aggiunge che «è fuori di testa» e non è interessato al rock’n’roll, gli piace solo la «dance music», «odia i gruppi come gli AC/DC» e definisce i fan di quelle band «culturalmente arretrati». Continua dicendo: «Credo di essere uno di loro, perché mi piacciono gli AC/DC nella loro semplicità». E gli AC/DC hanno ispirato molte canzoni dei Van Halen che lui ha scritto fra cui Panama, Drop Dead Legs e Good Enough. Siccome a Roth non piace la musica che fanno, «non ho nessuna valvola di sfogo. È frustrante. Se la gente sapesse la verità… nessuno crederebbe mai alla merda che c’è dietro a tutto questo e che dobbiamo sopportare. Ma credo che non andrà avanti per molto la cosa. Sono troppo vecchio per queste stronzate!! Vorrei tanto che le cose fossero diverse, ma non è così!! Stammi bene amico!!».

Mi sento un po’ sopraffatto. Perché mi scrive tutte queste cose? E perché a me? Così a 48 ore esatte dalla mia prima e-mail glielo chiedo. Lui mi risponde dicendo: «Sai, mi sono fatto la stessa domanda e ci sono diversi motivi. In primis quando facciamo le interviste non possiamo mai dire tutta la verità e se avessi accennato a quelle cose in un’intervista certe persone si sarebbero incazzate». Poi siccome, almeno all’apparenza, il gruppo sembra ancora operativo «non gioverebbe se io dicessi che penso che il nostro cantante fa schifo e ha problemi mentali da pre-Madonna». E ancora: «È una specie di strana terapia dire la verità a qualcuno che neppure conosci!! Ti quadra?». Con quel «pre-Madonna» mi ha conquistato.

Ormai certo di parlare col vero Eddie Van Halen, gli svelo il mio nome e le mie credenziali giornalistiche. Gli dico che sono un grande fan della band e spero di incontrarlo quando suoneranno a Tinley Park il mese seguente. Lui mi risponde e, per la prima volta, si firma Ed. Posso chiamarlo Ed, adesso!

David Lee Roth con Eddie Van Halen nel 1984. Foto: Andy Freeberg/Getty Images

I Van Halen sono stati il primo gruppo che ho amato e che era indiscutibilmente cool. Dei quattro membri originali, Ed è sempre stato il più misterioso. All’opposto del suo modo di suonare, le sue parole sono solitamente misurate e a volte sembrano arrivare da un copione imparato a memoria. È come se non sapesse mai rispondere alle domande precotte su come ci si senta a essere una specie di dio del rock. Ed è solitamente molto attento a non parlare male di Roth nelle interviste.

Dopo esserci scritti regolarmente più volte a settimana, arriva il momento di vedere se questa cosa funziona anche di persona: mi sento come il concorrente di un reality show di appuntamenti. I Van Halen stanno iniziando il loro primo tour in due anni e ogni sera suoneranno per oltre 15 mila fan affamati della loro musica. In occasione della decima tappa delle 41 date estive Eddie ed io programmiamo finalmente di vederci.

Prima del nostro incontro, Ed mi dice in una mail che un’endoscopia e alcune biopsie all’esofago hanno decretato che ha sconfitto il cancro: «Yippee!!», scrive. «Questa è la cosa più importante di tutte. Se non hai la salute non hai nulla!!».

Mi conferma anche quello che già avevo intuito: lui e Roth non vanno d’accordo. Mi dice che fino a poco tempo prima Roth almeno parlava con Alex, ma ora ha interrotto ogni comunicazione. «Non so cosa mai io possa avergli fatto, ma è così. Non mi sorprenderebbe se implodesse sul palco o facesse qualcosa di veramente stupido». E non è tutto. Ed mi dice che «ho la sensazione che Roth non canterà i pezzi “minori”. Io penso che dovremmo farli lo stesso, con o senza di lui. Tu che dici?». Io penso che sia una follia. Roth canta di merda ormai, lo sanno tutti, ma il karaoke dei Van Halen non è accettabile. Fortunatamente, in qualche modo, Roth si presenta e – a quanto ne so – canta tutte le canzoni a ogni show, incluso quello a cui vado io il 24 luglio all’Hollywood Casino Amphitheatre a Tinley Park, Illinois, dove finalmente incontro Ed. Con me c’è l’amico e fotografo rock Barry Brecheisen.

Siamo nel corridoio del backstage. Vedo arrivare Ed. Prima d’ora il momento in cui mi sono trovato più vicino a lui è stato 27 anni fa. Avevo appena iniziato il college ed ero seduto in terza fila, al centro, durante il tour di OU812. Ero anche riuscito ad afferrare al volo un plettro lanciato da Hagar. C’è chi pensa ancora che Eddie Van Halen sia il tizio esuberante con le bretelle, i capelli arruffati e un ghigno sbarazzino da mille watt. Insomma, il tizio sorridente del video di Jump che sembra sempre sapere qualcosa che ti sfugge. Solo alcune cose sono rimaste immutate: è ancora magro, ma i suoi capelli corti e grigi si sono diradati. Cammina lento, leggermente ingobbito, porta in braccio il suo volpino Kody come si tiene un pallone da football americano atomico. Ha però l’aspetto sereno di uno senza grossi pensieri. Entra in camerino e ci viene detto di seguirlo. Chiede: «Chi dei due è Blair?». «Io», dico. Mi squadra rapidamente, sfodera il suo famoso ghigno, poi mi prende e mi dà un abbraccio fortissimo.

Siamo solo noi tre. Ci accomodiamo su un divano di pelle nera tutto rovinato e lui riprende da dove ci eravamo lasciati. «Quel cazzo di Roth», dice arrabbiato, scuotendo la testa. La sua parlata da surfista è come quella che ho ascoltato in tante interviste, come se fosse stata ibernata negli anni ’70, solo leggermente più macchiata di nicotina. Dopo un quarto d’ora di cazzeggio ci avvisano che è ora di andare e vediamo arrivare un gruppo di bambini. Non sappiamo perché siano lì, ma è palese che sono malati e hanno espresso il desiderio di incontrare Ed. È una visione commovente e mi confonde un po’, tanto che dimentico di farmi scattare una foto con Ed. Lui però mi regala un plettro e mi autografa il CD di Fair Warning. Mi dice che mi scriverà più tardi per sapere cosa mi è parso dello show.

Eddie Van Halen con Sammy Hagar nel 2004. Foto: Jon Hill/Getty Images

Dopo il tour lo imploro di riconsiderare l’idea di chiamare nuovamente Hagar, principalmente perché sa ancora cantare, al contrario di Roth. Mi risponde che con Hagar sarebbe compreso nel pacchetto anche Mike e non pensa che riuscirebbe ancora a suonare con lui «dopo avere suonato con Wolf!!».

L’acrimonia di Ed nei confronti di Hagar è diversa da quella per Roth. Quando parla di Roth fa riferimento alla sua voce ormai andata e all’ego ipertrofico da rockstar, ma quando si tocca l’argomento Hagar parla di avidità («Per Hagar è tutta una questione di soldi») e di un’insaziabile fame di visibilità.

Nell’agosto del 2017 gli vengono riscontrati dei linfonodi ingrossati nel collo e nella schiena. Si sottopone a una tac che evidenzia una massa in un polmone, ma un esame decreta che non è nulla di preoccupante. Il suo dottore è sbigottito. Lui mi scrive: «Io so solo che sono un figlio di puttana fortunatissimo!!». Una ventina di giorni dopo gli scrivo per assicurarmi che tutto sia a posto. Non mi risponde subito ed è strano per lui, ma non ci faccio molto caso. Di solito risponde sempre. Il giorno dopo sono in ufficio e sento il telefono vibrare in tasca. È Ed. Mi aspetto di leggere, come sempre «sto bene amico, e tu?». Ma non stavolta. Mi dice: «Ho un cancro ai polmoni». Stadio 3. Mi sento mancare, leggo e rileggo per essere sicuro.

Nell’ottobre 2017 Ed inizia a recarsi spesso in Europa per una terapia che negli Stati Uniti non è somministrata. A parte i familiari, nessuno sa di cosa si tratta. Gli auguro di riprendersi presto, sperando di avere buone notizie. Ancora una volta, mi sbaglio: lui mi manda aggiornamenti precisissimi in terminologia medica, tanto che devo chiedere aiuto a mia moglie – che è assistente di un dottore – per capire. Ed va in Germania e Svizzera, si cala nei panni della cavia da laboratorio nel tentativo disperato di allungare la sua vita. Io cerco di tenere un tono leggero, evitando il più possibile di parlare della sua salute. Parliamo di altro, anche della famosa storia degli M&M’s marroni proibiti nel tour del 1982 («I promoter assoldavano delle vecchie signore con le retine per capelli e i guanti per eliminarli. Era un quadretto divertente, come una specie di catena di montaggio!!», mi scrive).

In un’altra occasione gli mando una foto di lui e Wolf scattata al concerto in cui ci siamo incontrati tre anni prima. Mi chiedo come sia il suo aspetto ora e gli domando come fa a entrare in tutti quegli ospedali senza essere riconosciuto. «La gente non mi riconosce più come negli anni ’80 o ’90», risponde. «Magari mi fissano e si chiedono se sono io o no, a volte me lo chiedono». Altre volte li sente commentare, mentre se ne vanno: «Cazzo, quello era Eddie Van Halen!!».

Nel dicembre del 2018 Roth in un’intervista per Vulture accenna a una possibile reunion estiva per un tour con la formazione classica dei Van Halen. Eddie non mi ha mai detto nulla in proposito e non è certo nelle condizioni per esibirsi. E infatti mi conferma rapidamente che non c’è nulla di vero. Roth, mi spiega, l’ha fatta fuori dal vaso. «Gli ho detto che non si può fare finché non starò abbastanza bene da reggere per uno show intero!!», mi scrive. «E ora non ce la faccio!! Mi sento di merda. Emoglobine basse e jet lag!! Non è una bella accoppiata!!».

Non importa quanto la situazione sia brutta: Ed sembra non perdere mai la speranza. È una cosa emozionante vedere una persona così vicina alla fine della corsa agire come se fosse ancora ai blocchi di partenza. Nel frattempo, però, Roth viola la regola di omertà della band e allude alle condizioni di salute di Ed in un’intervista per promuovere una futura residency a Las Vegas: «D’ora in poi, quasi sicuramente, sarò io il volto dei Van Halen. Non so bene cosa stia accadendo a Ed, ma temo che stavolta non risponderà alla chiamata».

Il mese dopo Roth alza ulteriormente l’asticella e dice a un altro giornalista che i Van Halen sono finiti. Ed mi scrive: «I Van Halen non finiranno MAI. Lui è ed era già finito da MOLTO TEMPO!!». Ma la rivelazione più grossa è che Ed sta meditando di fare un tour con Roth, Anthony e – tenetevi forte – Hagar. «Magari riusciamo a farlo in tempo, prima che i due matti vadano del tutto fuori di testa», mi dice. «Wolf sarà sul palco dall’inizio, Roth e Hagar si alterneranno e da qualche parte ficcheremo Mike!! Però non credo che Al accetterà!! Ma non si sa mai, si sono viste cose più strane!!».

Eddie col figlio Wolfgang Van Halen nel 2015. Foto: Chris McKay/Getty Images

A marzo del 2020 esplode la pandemia da Covid e il mondo entra in lockdown. Ho tanto tempo a disposizione e inizio a penare a come sta Ed. Gli scrivo. Il 15 marzo mi risponde: «Sto bene amico, e tu?». Mi manda un video virale di uno che vende carta igienica per strada come fosse merce di contrabbando. Rispondo con un LOL, ma non ho più risate dentro di me. Ho il pensiero fisso che Ed potrebbe non arrivare a vedere la fine della pandemia. Vorrei chiamarlo, ma è una cosa troppo intima. Così gli scrivo.

I giorni si susseguono trascinandosi. Lui si fa vivo sempre meno di frequente. Spesso non risponde oppure scrive poche parole o manda un emoji. Non è da lui. Una volta i suoi messaggi erano così lunghi che li leggevo saltando delle righe. Altre volte dovevo tagliare corto e dirgli che stavo andando a dormire. Ora non so cosa darei per uno di quei lunghi messaggi in cui faceva a brandelli Roth o mi parlava di cani.
A luglio mi dice che è ricoverato per un’operazione alla schiena. Sono sollevato, perché penso che un uomo in fin di vita non si sottoporrebbe a un’operazione del genere. L’11 agosto 2020 ci scambiamo dei messaggi e io non so che quella sarà l’ultima volta. «Spero che l’operazione sia andata bene», dico. Quattro ore dopo mi risponde: «Benissimo!! È stata dura, ma mi hanno rimesso a nuovo!!». Sospiro di sollievo.

Due mesi dopo è primo pomeriggio e io osservo dalla finestra del mio ufficio un sole insolitamente caldo per la stagione. Entro su Facebook, faccio un po’ di scroll e leggo un post vago che si riferisce a Eddie Van Halen. Vado velocemente su TMZ. Il titolo mi investe come una locomotiva: “Eddie Van Halen morto di cancro a 65 anni”. Non riesco a leggere altro. Chiudo la porta della stanza che uso come ufficio, mi butto sul divanetto che di solito usano solo i miei cani, metto le mani sul viso e scoppio a piangere.

Pochi mesi prima di sapere che il cancro era tornato, Ed aiutava la moglie a occuparsi di un parente anziano in fin di vita. Era ben conscio che questa persona non sarebbe guarita e aveva immaginato che, prima o poi, poteva finire anche lui in quella situazione. «Quando sarà la mia ora», mi aveva scritto, «spero di andarmene rapidamente!! Non voglio essere di peso a nessuno!!». Purtroppo non se n’è andato rapidamente. Ma sono sicuro che non è stato di peso a nessuno. Ha taciuto la sua malattia, in modo da non far preoccupare i fan bloccando sul nascere ogni possibilità di cori di commiserazione che non aveva alcuna intenzione di ascoltare.

A poche settimane dalla sua morte sono affiorati dettagli sui suoi ultimi anni, fra cui cose che non sapevo. La sorpresa più grande è stata apprendere che Ed e Hagar avevano sotterrato l’ascia di guerra scrivendosi, all’inizio dell’anno, in quella che Hagar ha definito «un trionfo d’amore».

Non mi sono pentito di non avere mai detto a Ed quanto lui abbia significato per me e sono certo che questo è uno dei motivi per cui abbiamo legato così. Per quasi tutta la sua vita era stato investito da lodi sperticate, trattato come una creatura sovrannaturale. Per me era un tizio normale, con tutte le contraddizioni e i paradossi, la bellezza e i demoni che ognuno di noi ha. Vedere Ed che affrontava con tanto coraggio la fine della sua vita mi ha aiutato ad apprezzarmi un po’ di più. Ora faccio del mio meglio per tenere dritta la barra quando le cose si fanno difficili, perché so che Eddie ne ha passate di molto peggiori.

Non c’è giorno in cui non penso a Ed, perché non c’è giorno in cui non ascolto i Van Halen. M’intristisce aver perso un amico, una persona che in questi anni mi ha dato tanto e chiesto poco. A volte gli mando un messaggio che finisce con un doppio punto esclamativo, giusto per fargli sapere che lo sto ascoltando.

Tradotto da Rolling Stone US.

Leggi altro