Ecco che cosa succede quando fai una lezione di ballo con un'idol K-pop | Rolling Stone Italia
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Ecco che cosa succede quando fai una lezione di ballo con un’idol K-pop

Airbnb ci ha invitato a passere un pomeriggio su Zoom con AleXa, la versione K-pop dell'Ambra di ‘Non è la Rai’, e abbiamo scoperto perché il fenomeno musicale del momento è soprattutto una questione di comunità

Ecco che cosa succede quando fai una lezione di ballo con un’idol K-pop

AleXa è una ragazza americana di origine coreana, bionda, in forma, bellissima. Sfoggia un sorriso sincero e una carica dinamica nonostante da lei siano le 9 del mattino. Porta i capelli legati in due code alte e lo smalto scuro, una maglietta beige che le scopre lo stomaco piatto e dei pantaloni di tuta nera su sneakers bianche. Sportiva, ma cool. Un metro e cinquanta di gloria, come si definisce posizionandosi nel centro della sala prove illuminata da diffuse luci violette. Nelle piccole finestrelle di Zoom, una ventina di teenager, provenienti da varie parti del mondo, esultano estasiate quando la loro idol le saluta dalla schermata principale. Le ragazze sorridono nei loro salotti e nelle loro stanze sparse per il mondo mentre AleXa inizia a mostrare i primi passi della coreografia che, nella prossima ora, proverà ad insegnare a distanza.

Airbnb, in collaborazione con Warner Music Korea, mi ha invitato a partecipare a uno degli eventi di Inside K-Pop, un festival di esperienze online in programma dal 24 al 29 gennaio, pensato per offrire agli utenti una full immersion nella cultura coreana del K-pop. Dieci contenuti che spaziano dalle performance al dietro alle quinte del mondo degli idol coreani, con esperienze che riguardano attività come make-up, shooting fotografici, allenamenti, coreografie, food, concerti. Un racconto inedito di una cultura e di una wave musicale che, negli ultimi anni, è riuscita a superare i confini del suo piccolo Stato per conquistare la ribalta mondiale, come dimostrano gli incredibili successi di band come BTS o Blackpink.

Inside K-Pop è un progetto che non racconta solo un fenomeno, ma apre nuovi spazi e possibilità per l’industria dell’intrattenimento musicale mainstream. È interessante, ad esempio, la scelta di limitare gli eventi a 20 partecipanti, in modo da mantenere un contatto diretto tra idol e pubblico creando, attraverso l’utilizzo di piattaforme come Zoom, un rapporto di contemporaneità; il sogno di ogni teenager. Il ruolo del pubblico è quindi rivalutato, non più un’entità svuotata (come, ad esempio, nel mondo spietato del firma-copie), ma un’addizione di singoli che possono condividere un’esperienza diretta con la propria star.

È proprio questo che possiamo percepire in questa esperienza: AleXa comunica ripetutamente con il pubblico, e tra un pezzo di coreografia e il successivo fa domande alle ragazze, risponde alle perplessità, ripetendo frasi motivazioni o concetti come «siamo una comunità, stiamo sudando assieme!» o «siamo tutti amici qui». È tutto un altro livello di comunicazione e narrazione della pop music rispetto a quanto siamo abituati a vedere nei social; è la condivisione di un sogno. AleXa è una versione modernissima dell’Ambra di Non è la Rai, con lo stesso entusiasmo adolescenziale e una capacità magnetica di incollarti allo schermo, con quell’attitudine funny e un po’ nerd con cui il pubblico si ritrova e acquista fiducia. La chiave è di far sentire tutte a proprio agio, continuando a coinvolgere il pubblico e dando importanza a ogni singolo partecipante. Anche nell’imbarazzo giovanile del ritrovarsi di fronte alla propria beniamina, tutti si mostrano aperti e in armonia, applaudendo i reciproci tentativi di emulare una coreografia impossibile per principianti.

Per quanto questa esperienza possa essere lontana dalla mia soggettività di maschio trentenne occidentale, nel vedere questo clima di onesta e ingenua felicità, sono tornato a quando a 10 anni, davanti alla prima connessione internet di amici di famiglia, provai a scrivere al sito dei Blink-182 nella speranza di ricevere un autografo. Mi sarebbe bastato un qualsiasi pezzo di carta, anche fasullo, per essere il bimbo più felice del pianeta. Vedendo il volto di queste 20 ragazze, ho ricordato quel momento, ammirando questa possibilità di fa qualcosa con un proprio mito, quella narrativa che negli anni della mia adolescenza mi ha fatto chiedere scalette e lottare per plettri sotto i palchi dei musicisti che idolatravo. Queste teenager non stanno solo facendo una lezione di danza da – e con – una propria idol, ma con una idol che le interpella, le coinvolge direttamente. Le stimola, le incita, trasmettendo rispetto e un continuo sentimento d’amore. E cos’è la musica pop se non questo, la condivisione di un sogno? L’amore sfrenato verso qualcosa? È questo quello che un teenager vuole provare nella musica: riconoscimento, partecipazione, affermazione. Far parte di qualcosa, non sentirsi solo.

Costruendo questi ponti con la propria fanbase, il K-pop è riuscito ad imporsi, diventando uno dei generi più conosciuti e ascoltati nella musica pop mondiale di oggi. Questo evento ne è l’ennesima dimostrazione e potrebbe servire da ispirazione per l’addormentata industria musicale italiana mainstream: c’è molto da imparare qui.