È tornato il pop-punk e un po’ somiglia al rap | Rolling Stone Italia
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È tornato il pop-punk e un po’ somiglia al rap

Sembrava un genere passato di moda. E invece oggi persino i rapper imbracciano le chitarre elettriche per imitare i Blink-182. C'entrano TikTok, il superamento della trap, la fluidità e Travis Barker

È tornato il pop-punk e un po’ somiglia al rap

Machine Gun Kelly e Travis Barker

Foto: David Avalos

In Italia non ne sentiamo (ancora) gli effetti macro, ma è innegabile che da qualche tempo si stia verificando un ritorno (chiamiamolo anche revival o reboot) di un genere che sembrava ormai confinato a un immaginario legato agli anni ’90 e ai primi 2000. Stiamo parlando del pop-punk alias punk-pop, ovvero quel punk-rock in cui chitarre spinte e melodia vanno a braccetto, accompagnandosi a una certa attitudine adolescenziale. Come dire: comunque vada, stiamo scoprendo il mondo.

Se il nostro Paese sembra essere indietro rispetto a questo trend (che non è neppure detto si diffonderà in Italia, al momento più occupata a giocare alla rinascita del rock coi Måneskin), gli Stati Uniti forniscono un banco di prova e un campione statistico fondamentale: un genere che sembrava essere sparito dai radar del mainstream circa 15 anni fa si sta riaffermando (a volte anche solo come retrogusto o sfumatura, ma sempre ben identificabile) e sta addirittura convertendo rapper e star di altre aree, ridiventando un fenomeno di rilevanza non trascurabile, anche se non paragonabile agli anni d’oro di Green Day, Sum 41, Offspring, New Found Glory, Blink-182 e compagnia schitarrante.
In pista ci sono nomi come Machine Gun Kelly, Yungblud, JXDN, KennyHoopla, Waterparks, si ritroano echi persino in Olivia Rodrigo e nel nuovo repertorio di Willow, la figlia di Will Smith. Probabilmente non vi suoneranno tutti familiari, eppure sono band e artisti che stanno facendo numeri molto importanti negli Stati Uniti e online. A loro si affiancano artisti più consolidati come Paramore, Avril Lavigne, All Time Low le cui canzoni vengono usare soprattutto sulla piattaforma TikTok, gente che era sulla breccia una ventina di anni fa, in piena esplosione del pop-punk mainstream.

Provando a ragionare su questo fenomeno, gli elementi che emergono più chiaramente sono almeno quattro, anche se di sicuro le tessere del mosaico sono più numerose e sfaccettate: il ruolo di TikTok, un certo esaurimento della carica iniziale della trap, l’impulso all’inclusione/accettazione delle diversità, il nome di Travis Barker, batterista dei Blink-182 e non solo.

L’effetto TikTok

Partiamo da TikTok, il social cinese lanciato nel 2016 – si chiamava musical.ly inizialmente – che permette di caricare brevissimi video aggiungendo musica e filtri, piattaforma pensata per fasce di utenti molto giovani. Il suo ruolo nel rendere popolari nuovi artisti o rendere virali vecchi pezzi è palese (un esempio del secondo tipo: ve lo ricordate il video del tizio che beveva succo di mirtillo, su uno skate, con Dreams dei Fleetwood Mac come colonna sonora?) e così è accaduto con il pop-punk. Infatti gli hashtag relativi al pop-punk e correlati fanno registrare milioni di visualizzazioni sull’app (24,8 milioni di visualizzazioni per gli hashtag #poppunk #punk #punkrock #emo #music #rock #alternative, mentre scrivo).

Una delle teorie più sensate è che complice la pandemia – non trascuriamo questo aspetto inedito e destabilizzante – molti giovani fruitori di TikTok si siano rifugiati nel conforto della nostalgia, andando a rimestare nei ricordi dei loro anni formativi e nella musica che li contraddistingueva. Che spesso è stata all’insegna del pop-punk mainstream che a cavallo fra i ’90 e i primi 2000 imperversava. Da qui una rapida crescita di interesse per il genere che, ovviamente, alimenta anche la nascita di nuova musica e non si limita al ripescaggio di una legacy e di vecchie hit.

Come la trap, oltre la trap

TikTok non basta a spiegare in maniera più ampia il fenomeno, visto che molti dei fruitori e dei paladini del pop-punk contemporaneo non erano nemmeno nati fra la fine dei ’90 e i primi 2000. Da una parte, almeno nell’immaginario dei giovanissimi, è stata superata la dicotomia tra il rock e i suoi derivati e il rap. Dall’altra, questa forma ibrida può rappresentare un superamento della trap, in una sorta di processo di sintesi hegeliana.

A fine 2020 Gionny Scandal, protagonista in Italia di un cambio di genere alla Machine Gun Kelly, diceva al Corriere: «Sarebbe bello che i ragazzini anziché ambire a quel che viene detto nei pezzi trap avessero voglia di imparare a suonare degli strumenti. Non sto sputando su un genere che ho anche fatto, ma è una roba che non sento mia, dove i contenuti sono sempre gli stessi e si parla solo di soldi, collane, rivalse di strada». JXDN (all’anagrafe Jaden Isaiah Hossler) ha spiegato a The Face che l’apertura al pop-punk è una sorta di liberazione. «Non mi sono mai sentito a mio agio con me stesso. Sto facendo pace con chi sono solo ora. Ho un sacco di problemi mentali e ricomincio a respirare solo quando faccio questa musica». Il pop-punk è un genere che permette ai ragazzini come lui esprimersi: «Ti dà l’opportunità di mostrarti vulnerabile ed è una caratteristica molto attraente per le persone della mia età».

La fluidità musicale

Va poi presa in considerazione una caratteristica figlia dello zeitgeist: il nuovo pop-punk è palesemente contraddistinto dalla varietà di genere, background, cultura, etnia dei suoi attori. Non è più una musica fatta da maschi adolescenti/post adolescenti, bianchi, etero, più o meno figli di una delle varie fasce della borghesia (mi si passi il termine âgée, direttamente prelevato dal secolo XIX), con problemi da teen drama; ora in campo troviamo ragazzi e ragazze con orientamenti sessuali fluidi, ma anche con origini, radici culturali e dunque problematiche molto diverse – ad esempio Poorstacy, Minority 905 e Meet Me @ The Altar sono tutte band con artisti di colore. Un dato importante che riflette palesemente le istanze della società attuale, o almeno della parte di essa più incline al cambiamento, all’evoluzione e alla trasformazione.

A questa diversificazione dal punto di vista di genere e background culturale/razziale se ne aggiunge una che è inerente al genere inteso come musica: questo “nuovo” pop-punk vive e si sviluppa quasi in simbiosi con suggestioni contemporanee, legate al pop più mainstream e soprattutto al rap (che per anni ha spadroneggiato nelle preferenze dei giovanissimi e ancora ben si difende). Del resto non è un mistero che diversi rapper affermati come Lil Uzi Vert, Juice WRLD, Princess Nokia, XXXTentacion e Lil Peep abbiano citato, fra le proprie influenze musicali, artisti pop-punk ed emo sulla cresta dell’onda a fine ’90 e primi 2000 – e in parte si ritorna al fattore nostalgia/formazione di cui si diceva prima. Ma si entra anche in un ambito curioso, in cui il concetto di genere musicale si fa “poroso”, permettendo un’elasticità e un grado di sperimentazione/sconfinamento fino a una decina di anni fa difficilmente accettabile. Come a dire che la rigida divisione fra generi sembra avere assunto contorni decisamente più sfumati per non dire slabbrati: quasi come se nel 2021 pop-punk ed emo fossero diventati, a certi livelli e per certe fasce di ascolto, i nuovi mainstream rap e trap. E viceversa. Basti un esempio principe, per questa casistica: Machine Gun Kelly, ex rapper, protagonista in passato anche di un dissing lanciato dal gigante detroitiano del genere Eminem, che si è convertito al 100% al pop punk, come dimostra il suo film musicale Downfalls High.

Il fattore Travis

Quarta macrovariabile, in questo intricato ecosistema, è la tatuatissima figura di Travis Barker, batterista dei Blink-182: una band che del pop-punk ha fatto un manifesto e da cui ha mietuto successo, fama e credibilità. Barker è senza dubbio un personaggio, uno che si è ritagliato, extra Blink-182, una personalità solida nel mondo dell’entertainment in veste di produttore, grande influencer, star di reality show (Meet The Barkers), attore cinetelevisivo, boss di etichetta discografica, patron di un marchio di abbigliamento, imprenditore nel mondo della cannabis legale, insomma uno che ne ha fatte e ne fa di ogni colore, e mai lontano dalle luci dei riflettori.

Barker ha sempre collaborato con artisti emergenti (e meno emergenti) di area non strettamente pop-punk e legati al rap, creando una sorta di ponte, un legame che si è consolidato con l’attività della sua DTA Records (nel roster troviamo JXDN) e una miriade di collaborazioni con giovani talenti, fra cui Machine Gun Kelly, Post Malone, XXXTentacion, $uicideboy$, Willow Smith. Con un patron del suo calibro risulta più semplice spingere il “rinascimento” del genere. Questo per la sua abitudine di abbracciare e provare a far crescere suggestioni che sulla carta sarebbero aliene a un genere cristallizzato, ma che – invece – può cambiare e diventare specchio di generazioni e momenti contemporanei.

E in Italia?

E noi? Come si diceva, siamo ancora indietro e chissà se mai ci arriveremo. Al momento le classifiche ufficiali non vedono che pochissimi sprazzi legati a questa tendenza (Anti, il disco dell’autoproclamato “Italian pop punk king” Gionny Scandal uscito in maggio, non è mai entrato in classifica). Sappiamo che gente come Fedez (che ai tempi di Sig. Brainwash diceva: «I Blink-182 erano il mio gruppo preferito, in tutti i miei video c’è un po’ della loro autoironia») e J-Ax (col suo progetto Uncool & Proud dello scorso anno, però, non ha smosso le acque) hanno espresso una certa affinità e gradimento per il punk-rock e il pop-punk, ma da qui al vedere in cima alle classifiche dischi del genere temo passerà del tempo, se mai accadrà. Chissà se avremo mai un Travis Barker italiano.