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È ora di rivalutare ‘Journeys to Glory’ degli Spandau Ballet

L'album di debutto degli inglesi uscì il 27 febbraio 1981. Non era un disco minore, ma il manifesto power funk di una generazione che voleva sbarazzarsi del passato per costruire una nuova classicità

Foto: Lynn Goldsmith/Corbis/VCG via Getty Images

È un’annata di anniversari importanti per il new romantic. È il quarantennale dei Duran Duran, a proposito del quale ho stilato una particolare classifica dei loro album, e del primo album dei loro “rivali”, Journeys to Glory degli Spandau Ballet, uscito il 27 febbraio del 1981. Un disco che pochi ricordano e che invece rappresenta una pietra miliare non solo del sopraccitato genere, ma in generale di un periodo, i primi anni ’80, in cui si tritura la new wave per riformare tutto dal basso.

Il senso di Reformation, il pezzo simbolo dell’album, è appunto questo: un manifesto delle intenzioni di una gioventù che vuole sbarazzarsi delle mode inventate dai media, resettare ogni cosa, partire da un discorso neoclassico le cui coordinate sono la bellezza e l’idea che suoni e canzoni siano sculture. Musica che arriva a un esercito di giovani incazzati che invece di distruggere costruisce (questo a giudicare dall’andazzo marziale della traccia, apparentemente una marcia di guerra robotica, in realtà una sorta di canto di lavoro collettivo).

La copertina dell’album parla chiaro: cita in modo evidente lo stile delle cover di Joy Division/New Order (in particolare quella di Closer), bypassando però la decadenza e la depressione senza uscita tipica di quella band. Così come il gruppo fa slalom tra i primi vagiti dei Visage (Steve Strange li terrà a battesimo rendendoli delle attrazioni alle serate del Blitz, ma gli Spandau da loro presero sempre le distanze in quanto band costruita in studio) che avevano l’odore pungente della vecchia Europa in decomposizione. Qui la statua ritratta in copertina, un discobolo amputato e rigorosamente in rilievo, rappresenta un ideale di rinascita in cui appunto le macerie sono ruderi di un’arte che non ha scadenza, anzi è eterna: anche se duramente colpiti dalla civiltà moderna in cui tutto è usa e getta, gli arti mozzati ricresceranno come una coda di lucertola.

Del resto gli Spandau Ballet si pongono in netto contrasto con i guastatori che c’erano prima e quindi anche con le band new romantic coeve che cercano appigli nel passato stantio. Nonostante Gary Kemp, il leader indiscusso della band, avesse iniziato a suonare dopo un concerto dei Sex Pistols, a differenza dei Duran Duran e dei Visage negli Spandau non ci sono che minime tracce di quei precedenti. In un certo senso la band vuole rappresentare un’evoluzione improvvisa.

Già dal nome gli Spandau sfidano mostri sacri come i Joy Division sullo stesso terreno: la stampa li accusa di nazismo come i colleghi di Manchester, accuse chiaramente infondate per quanto riguardava la band di Curtis, ma ancora di più per quella di Tony Hadley visto il retroterra socialista/laburista dei suoi membri. Il nome Spandau Ballet viene da una scritta su un muro a Berlino, ma non ha niente a che vedere con l’angoscia dei campi di concentramento citata dai Joy Division: si riferisce invece al carcere dove a seguito del processo di Norimberga fu rinchiuso Rudolf Hess. Un simbolo della sconfitta del nazismo, quindi: ancora una volta, ripartire, levare di mezzo le ombre, alzare la testa. Ricostruire come se i nostri eroi venissero da un dopoguerra musicale dove gli spettri dell’autoritarismo non vengono “detournati” impropriamente, ma appunto filtrati ed eliminati dall’immaginario arty: e il rock è uno di questi.

La working class dalla quale venivano gli Spandau, dopo aver sperimentato il rifiuto del punk, si era accorta che quella musica era diventata un vezzo medio-borghese e reazionario. A quel punto era prevedibile il passaggio verso uno stile di vita orgoglioso, che preferisce i bei vestiti alle pezze e che riprende in parte la filosofia mod, ma anche quella black; attitudini tipiche del riscatto sociale (i futuri campionamenti dei PM Dawn, Lloyd e Lil Wayne la dicono lunga) che oggi ritroviamo pari pari nella trap. Le radici gospel della voce di Tony Hadley non sono da sottovalutare, sono la marcia in più della band, quello che la eleva a icona multirazziale. Una voce potente, riconoscibile, il cui stile riesce a essere tanto marmoreo quanto vibrante. Il soul che poi sfocerà nei momenti quasi cool jazz del disco Parade del 1984, col quale i nostri faranno il botto commerciale inserendosi nella crepa tra i Duran Duran e gli Style Council di Paul Weller, in questo disco è bilanciato da bordate elettroniche e post disco di un rigore assoluto: non è freddezza emotiva quanto sangue freddo, coraggio, resistenza appassionata quello che i nostri vogliono esprimere.

Già dalla scelta del produttore il coraggio non manca: trattasi di Richard James Burgess, mente dei grandissimi Landscape, una delle band pioniere del synth pop più all’avanguardia del periodo, autori di un brano leggendario come Einstein a Go Go e relativo delirante album From the Tea-Rooms of Mars… to the Hell-holes of Uranus. Sarà dietro alla consolle anche per il successivo album degli Spandau, Diamond, che rappresenta la definitiva svolta “afro”, contraltare ai medesimi esperimenti dei Talking Heads, ma senza intellettualismi. Nel caso di Journeys to Glory, le influenze nere sono invece quelle del power funk elettronico, di cui sono pregni i sintetizzatori: perché è un disco ad alto tasso di tensione al nuovo con ambizioni di eterno. Non c’è traccia, ad esempio, del sassofono che poi sarà la caratteristica di Steve Norman. Qui il musicista è fisso a chitarre acide imparate a suonare alla velocità della luce in una febbre DIY. È come se improvvisamente gli Ultravox facessero una cura antirughe (all’epoca negli Spandau i membri erano tutti non più vecchi di 23 anni), con Gary Kemp e Tony Hadley a levigare i riff al sintetizzatore e quest’ultimo a cantare di una cultura occidentale che affonda, ma soprattutto del bisogno del cambiamento: cosa che fa la differenza rispetto a un tema spesso trito e ritrito come la decadenza dei costumi. Un’inedita chiamata collettiva all’azione diretta e senza deleghe, verso l’autoaffermazione degli individui.

In sé Journeys to Glory è un disco esistenziale che sfocia nel politico, prima ancora dei testi di Through the Barricades che nel 1986 li riporteranno verso il rock tanto osteggiato: in questo senso il singolo Musclebound col suo serpeggiante e pesantissimo riff tra l’orientale e il blues post atomico è la loro Working Class Hero elettronica: “gotta work till you’re musclebound all night long”. Una presa di coscienza che implica il desiderio di rivincita anche nei confronti di un giornalismo musicale che vuole a tutti i costi infilarli in un preciso calderone, sfruttando a tutti gli effetti la loro arte e il loro duro lavoro. Gary Kemp all’epoca dichiarava (mentendo in parte, volutamente e spudoratamente): «non accettiamo nessuna paternità tipo quella di Bowie e dei Roxy Music, non veniamo dal circuito del rock». E Hadley rincarava la dose: «nessuno di noi ha mai veramente ascoltato ed amato il rock. Siamo cresciuti ascoltando jazz e funk, io amo il soul di Marvin Gaye e Stevie Wonder. Noi siamo un crossover tra il rock bianco e la black music».

A pensarci, mentre Bowie parlava di essere eroi per un giorno, gli Spandau invece viaggiano verso la gloria di un eroismo popolare che possa vivere per sempre. Insomma, usano i mezzi tipici del rock/post punk per un fine che li giustifica: quello di stabilire un nuovo soul elettronico. Allo stesso modo i metodi di promozione della band sono simili ma radicalmente diversi da certe provocazioni care alle vecchie scuole. Suonano in luoghi singolari lontani dal rock come una nave da guerra ormeggiata sul Tamigi (sfidando in maestosità i Pistols e il loro famoso live sulla barca) e similmente a un certo spirito punk vogliono che siano le etichette discografiche a inseguirli e non il contrario (a spuntarla sarà la Chrysalis). Ma il loro look è elegante e sembra uscito da un film di genere peplum riveduto e corretto per i figli della bomba sopravvissuti grazie alle loro sole forze, che farà scuola anche per la scena hypnagogica dei 2000.

Il potentissimo e maniacalmente groovy To Cut a Long Story Short sarà il singolo che li farà schizzare al quinto posto della top 10 inglese, un brano che farà scuola (pare che i Depeche Mode si siano ispirati a questo brano per Just Can’t Get Enough) e dalle tematiche pesanti come quella di un veterano del Vietnam affetto da PTSD che diventa metafora di un amore finito male. Ma l’album non ha un pezzo fuori posto: l’epica Mandolin è John Foxx che si converte alla melodia italiana, l’inno di un’Europa giovane che si riprende quello che gli è stato tolto da quella vecchia, a colpi di chorus e sintetizzatori senza piangere sul sangue versato. Age of Blows è uno strumentale che sembra un lato B dei Cure periodo Seventeen Seconds potenziato per una generazione volitiva affamata di silicio. The Freeze, il secondo singolo estratto, è un razzo post disco tutto basso a ottavi dalle sapienti mani di Martin Kemp con chitarre e synth infuocati come un blocco di ghiaccio e una grande performance vocale di Tony Hadley che pronuncia cinicamente frasi da tatuare come “The artist pretending it’s art, the question is where do you pay”. Confused è un curioso caso di ribaltamento di fronti, il suono del goth trasformato in ballata solare, con qualcosa che la imparenta a certe tracce degli OMD, un synth aspro che decolla quasi minimal wave: attacco frontale ai media che stordiscono, ma anche una chiara presa di posizione anti brutalità gratuita di certi gesti punk: “I’ve had enough of getting rough”.

Conclude il disco Toys, come se i PIL si accoppiassero con i Led Zeppelin e il prete a maritarli fosse Frank Sinatra, un brano torbido contro la guerra e le armi, giocattoli del potere (la frase finale cita il muro di Berlino con la striscia di sangue che si portava dietro). Un gran finale, che se contiamo anche il singolo Glow, doppio lato A con Musclebound, facciamo bingo. In questo brano si sente già il passaggio agli arrangiamenti tribali di Diamond, con le batterie di John Keeble e le percussioni di Norman finalmente in prima linea: ed è effettivamente quasi una demo di Gold, che li farà schizzare verso la popolarità mondiale.

Journeys to Glory ci sembra il miglior parto della band: qui non c’è ombra della pop music pur raffinata che verrà dopo o degli arrangiamenti patinati tipici degli Eighties tutti Live Aid e compagnia. Al contrario, qui ancora tutto profuma di sperimentazione, di intransigente opera d’arte prolet, di sana sfacciataggine che non si piega a nessuno e che fondamentalmente rimprovera ai punk di non esserlo veramente: e per questo molti gruppi post brit pop ruberanno a man bassa dagli Spandau, in silenzio. Non solo, possiamo trovare anche una leggera patina psichedelica (che poi esploderà definitivamente nella facciata B di Diamond), quella ad esempio del sound di Wish You Were Here che già era atto di accusa rispetto alla trappola mistificatrice del rock: ed ecco perché non c’è da stupirsi che Gary Kemp oggi militi nei Nick Mason’s Saucerful of Secrets, interpretando perfettamente il repertorio più hardcore dei Pink Floyd. Non solo quelli in acido, ma soprattutto quelli puri che volevano cambiare le regole del gioco.

Disse una volta Gary: «La mia dignità è molto a sinistra, anche se le mie finanze sono quelle di un capitalista». Ecco, Journeys to Glory è la colonna sonora dei proto accelerazionisti: è come un quadro di Balla in musica, non concepisce vecchiaia. E oggi più che mai, in tempi di distruzioni di massa, c’è forse bisogno di tenere a memoria questi versi: “i vetri infranti riflettono l’orgoglio: rifondazione, rifondazione”.

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