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È il compleanno di ‘Anarchy in the U.K.’, lo schiaffo di cui abbiamo ancora bisogno

Il primo singolo dei Sex Pistols è una miscela di furia anarchica e grande professionismo. Ecco come l’hanno raccontato Glen Matlock e Johnny Rotten

Johnny Rotten sputava un “rrrright now!” nel microfono e ghignava con fare malefico e, bum, la storia del rock non sarebbe stata più la stessa. Il 26 novembre 1976 i Sex Pistols pubblicavano il primo singolo. Non God Save the Queen, con cui sarebbero stati identificati per il resto dei loro giorni, ma Anarchy in the U.K. “Sono un anticristo, sono un anarchico”, cantava Rotten e intanto la chitarra di Steve Jones sembrava una sirena d’allarme e la ritmica una mitragliatrice. La canzone finiva con un “destroy!” urlato da Rotten e trascinato fino a diventare un rantolo. Era roba che metteva paura nel 1976 e un po’ anche oggi. Era uno schiaffo di cui abbiamo ancora bisogno.

I Sex Pistols avevano registrato la canzone due giorni dopo avere firmato con la casa discografica EMI. La band considerava l’etichetta una vacca da mungere, i discografici non sapevano bene come trattare con quei cinque tipi – i musicisti e il manager Malcolm McLaren – che non seguivano le regole che il rock s’era dato. Si erano date le loro, di regole: caos, propaganda e saccheggio. Anarchy in the U.K. cantava la distruzione come atto rigenerante per una società vecchia e in crisi, quella inglese. Era un fuoco purificante di chitarre elettriche e ritmi d’assalto e non aveva niente a che fare con l’opposizione a Margaret Thatcher, che sarebbe diventata primo ministro nel maggio 1979 – basta col mito scemo del punk figlio ribelle del thatcherismo, al governo c’erano i laburisti. L’unica politica che conoscevano i Sex Pistols era quella del dissenso.

Anarchy era una bomba anche dal punto di vista musicale, e però i Pistols dovettero lavorarci parecchio. Rotten, Jones, il bassista Glen Matlock e il batterista Paul Cook la provarono in studio una mezza dozzina di volte per calibrare i suoni, prima di registrarla in un paio di take. La EMI aveva investito 10 mila sterline nel singolo, ma non sapeva che farsene. Si arrivò a un compromesso. La canzone era stata registrata con Dave Goodman, si decise di affidarla a Chris Thomas, un grande professionista che aveva collaborato con Beatles e Pink Floyd. Che ironia: Rotten andava in giro indossando t-shirt con la scritta “I hate Pink Floyd” e per mixare il primo singolo la sua band s’affidava all’uomo che aveva lavorato a The Dark Side of the Moon, capolavoro di quello che i punk consideravano rock compiacente suonato da vecchi scoreggioni.

E così la canzone fu riregistrata con Thomas che ci andò giù pesante. Anni dopo, Johnny Rotten si lamentò perché il pezzo conteneva ben 21 tracce sovraincise: non molto punk. Era più pulita della prima versione e suonava in modo favoloso. In quei giorni non si faceva che parlare dei Pistols e dei loro scandali, eppure la canzone si fermò al numero 38 della classifica inglese. Anarchy in the U.K. trovò la sua collocazione definitiva nell’album Never Mind the Bollocks, Here’s the Sex Pistols. Suona ancora maledettamente bene.

Nel 2017 John Lydon/Johnnhy Rotten e Glen Matlock hanno raccontato la storia della canzone a Rolling Stone America.

Matlock: Era quasi estate, provavamo e io ho detto per l’ennesima volta: “Qualcuno ha delle idee?”. Ho dato una possibilità a Steve, perché mi sembrava di aver esagerato nel guidare la band, e quella volta lui aveva qualcosa, anche se non era granché. Mi ha detto: “Perché non ti fai venire in mente qualcosa?”. E io avevo questa mezza idea per una overture, ho iniziato a suonare una progressione discendente di accordi, tutti mi sono venuti dietro. Poi hanno chiesto: “Come continuiamo ora?”. Ho messo insieme il resto strada facendo. John aveva una raccolta di testi – fogli di carta infilati in una busta di plastica –, ne ha tirato fuori uno e ha detto: “Aspettavo che tirassi fuori qualcosa di nuovo perché ho un’idea”. Tutti parlavano di questo tizio, Jamie Reid, che aveva disegnato il nostro artwork: era un tipo agitprop anarchico e John aveva scritto il testo su di lui. 

Rotten: Ho sempre pensato che l’anarchia fosse un inganno per la classe media. Un lusso. Solo una società democratica può permettersela perciò è ridondante. In più non offriva risposte, e spero di averlo fatto io con la mia scrittura, volevo dire qualcosa, non spaccare tutto senza alcun motivo. Ho sempre cercato di tenere a mente che ero parte di una grande comunità, la razza umana, e di una più piccola che si chiama cultura. Perché dovremmo distruggere tutte queste cose? 

Non avevo capito quanti anarchici ci fossero in giro – ce ne sono ancora. Dio mio, Marilyn Manson si è dichiarato anarchico, pensa quanto è diventata assurda questa cosa. Un tizio con il trucco e il corsetto, non è roba per me; c’era già Alice Cooper, e uno era più che sufficiente. 

Matlock: L’avevamo già registrata nel 1976, ed è così che la mia parte è finita nell’album. Ricordo che parlavo con Duff McKagan, che dopo un concerto mi aveva detto: “Glen, non pensavo sapessi suonare quella roba stile Motown”. E su Anarchy ho cercato di imitare James Jamerson. 

Rotten: La frase “I am an antichrist / I am an anarchist” innervosì parecchio Glen Matlock, e non riuscivo a capire perché. Lui era… non so se “critico severo” sia l’espressione giusta, ma cercava sempre un tocco più leggero. È per questo che abbiamo iniziato ad allontanarci. 

Matlock: Non è vero che non mi piaceva il testo. L’unico verso che mi faceva rabbrividire era “I am an antichrist / I am an anarchist” – non fa rima, e mi dà sempre fastidio. Le canzoni con le rime sbagliate mi danno fastidio. Non ha niente a che vedere con il significato del pezzo. Ma se vuoi trattare argomenti sociopolitici, capire se sia una cosa buona avere la vera anarchia nel Regno Unito, oppure se sia effettivamente praticabile… è un altro discorso. Sono sempre stato orgoglioso di cantare quel pezzo sul palco. 

Rotten: Nella demo originale, all’inizio del pezzo canto “Words of wisdom” prima di “right now”, una parte che ho tolto perché non c’era ragione di esagerare. Ho sempre pensato che se avessi ingigantito tutto non avrebbe avuto molto senso. Durante le prove cercavamo sempre di rimuovere il superfluo, tutti gli abbellimenti di chitarra – Steve se ne è occupato con grande sensibiltà – e Paul era capace di ridurre i pezzi alle radici più semplici. Per quanto riguarda il testo… è il pubblico a decidere. Non puoi essere tu a dire: “Salve, questa è l’opera di un genio” (ride). 

Preferisco l’apertura con “Right Now”, è più precisa. Quando abbiamo registrato la versione ufficiale, fare quel “rrrright now” è stato tutt’altro che semplice. Ci ho messo parecchio. Mi dicevano di contare i quarti, e io non sapevo cosa cazzo volevano dire – che sono i quarti? Paul è sempre stato d’aiuto per me, ma allo stesso tempo era irritante perché non conoscevo la terminologia musicale. 

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