Dave Grohl racconta i Led Zeppelin: «Non facevano musica, ma esorcismi» | Rolling Stone Italia
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Dave Grohl racconta i Led Zeppelin: «Non facevano musica, ma esorcismi»

La scoperta dei dischi della band, lo stile di Jimmy Page, gli acidi e la spiritualità: il musicista di Nirvana e Foo Fighters racconta come, quando e perché è stato folgorato dalla band di ‘Black Dog’

Dave Grohl racconta i Led Zeppelin: «Non facevano musica, ma esorcismi»

Jimmy Page, Robert Plant, John Bonham e John Paul Jones nel 1972

Foto: Camera Press/ Graham Wiltshire/ Contrasto

Senza i Led Zeppelin non ci sarebbe stato il metal. E anche se ci fosse stato, avrebbe fatto schifo. Erano qualcosa di più di un gruppo rock, erano una combinazione perfetta di passione, mistero e talento. M’è sempre parso che fossero alla ricerca di qualcosa. Non erano mai paghi, cercavano di buttarsi in esperienze sempre nuove. Erano capaci di tutto e chissà dove sarebbero arrivati se John Bonham non fosse morto. Rappresentavano la fuga da un sacco di cose. In quel che facevano c’era un elemento fantasy, anzi era parte essenziale del loro carattere, di quel che li rendeva importanti. Senza i Led Zeppelin, fatico a immaginare tutta quella gente che va al cinema a vedere Il signore degli anelli.

Non erano amati dalla critica: troppo sperimentali, troppo estremi. Fra il ’69 e il ’70 girava un sacco di musica strana e loro era i più strani di tutti. Per me Jimmy Page era più strambo persino di Jimi Hendrix. Hendrix era un genio portentoso, Page un genio posseduto. I dischi e i concerti degli Zeppelin erano esorcismi. Hendrix, Jeff Beck ed Eric Clapton spaccavano i culi, ma Page stava a un altro livello, suonava in modo umano e imperfetto. Sembrava un vecchio bluesman che si è calato dell’acido. Ascolto i suoi assoli nei bootleg dei Led Zeppelin e mi ritrovo ora a ghignare e ora a versare lacrime. Sentite una versione a caso di Since I’ve Been Loving You e vi scoprirete a ridere e piangere nello stesso tempo. Per Page, la chitarra non è solo uno strumento. È un traduttore di emozioni.

Quando John Bonham suonava la batteria sembrava non sapesse che cosa sarebbe accaduto da un momento all’altro, pareva sempre sull’orlo di un precipizio. Nessuno ha mai fatto qualcosa del genere e nessuno, credo, ci si avvicinerà mai. È e resterà il più grande batterista di tutti i tempi. Ho passato anni in camera mia – parlo davvero di anni – ad ascoltare le tracce di batteria di Bonham e a cercare di imitarne lo swing, il modo in cui restava indietro sul beat, la velocità, la potenza. Non volevo solo imparare a memoria quel che suonava. Volevo ereditare il suo istinto. Ho tatuaggi di Bonham ovunque: sui polsi, sulle braccia, sulle spalle. Me ne sono fatto uno a 15 anni: sono i tre cerchi che rappresentano il suo simbolo su Zeppelin IV e che erano riprodotti sulla sua grancassa.

Black Dog, da Zeppelin IV, rappresenta i Led Zeppelin al top della potenza rock, è l’esempio perfetto di quant’erano possenti. Non avevano bisogno di grandi distorsioni o di suonare velocemente: erano heavy e bastava. Avevano pure un lato sensibile, una cosa che la gente tende a non prendere in considerazione perché li vede come animali rock, ma Zeppelin III era pieno di momenti belli e delicati. È stata la colonna sonora ai giorni in cui stavo mollando la scuola. Lo ascoltavo ogni giorno sul mio Maggiolone e intanto riflettevo su quel che avrei fatto nella vita. Per un motivo o per l’altro, quel disco mi ha regalato un po’ di luce.

Li ho sentiti per la prima volta negli anni ’70 trasmessi da una radio AM. Era il periodo in cui Stairway to Heaven era popolarissima. Avevo 6 o 7 anni e stavo cominciando a sentire musica, ma solo con l’adolescenza sono arrivato ad ascoltare i primi due dei Led Zeppelin. Me li passarono dei fattoni. Ce n’erano in sacco nelle periferie in Virginia, col loro armamentario di muscle car, fusti di birra, Zeppelin, acidi, erba. Quando c’era uno di questi elementi, c’erano anche gli altri. A me però gli Zeppelin pareva avessero un che di spirituale. Frequentavo una scuola cattolica e stavo mettendo in dubbio l’esistenza di dio, però credevo nei Led Zeppelin. Avevo fede, ma non in senso cristiano: avevo fede nei Led Zeppelin in quanto entità spirituale. Mi fecero capire che la musica proviene da un altro luogo e che gli esseri umani la canalizzano. Quella musica non veniva da un songbook, non da un produttore e nemmeno da un insegnante. Veniva da quattro musicisti che la portavano in posti in cui non era mai stata. Avevo l’impressione che venisse da un altrove. Ecco perché i Led Zeppelin sono il più grande gruppo rock di sempre. Non poteva essere altrimenti.

Il testo che avete letto fa parte della lista 100 Greatest Artists che Rolling Stone USA ha pubblicato tra il 2004 e il 2005. Potete leggerla qui.

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