Dal lo-fi a Sanremo: guida agli album di Bugo | Rolling Stone Italia
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Dal lo-fi a Sanremo: guida agli album di Bugo

Il Beck delle risaie, come lo chiamavano vent’anni fa, ha una discografia piena di cose belle e bislacche, e uno sguardo sulle cose stralunato e naïf. Ecco la sua storia, dal'underground all’Ariston

Dal lo-fi a Sanremo: guida agli album di Bugo

Bugo

Foto: Mescal

Visto in tv a Sanremo 2020, Bugo rischia di passare un po’ come uno sprovveduto che aveva bisogno del ‘lasciapassare’ di un artista mediaticamente gigantesco come Morgan per rilanciare la propria carriera e gareggiare fra i big del festival. Se è vero che la notorietà è andata scemando (nel senso: non ha retto benissimo il cambio generazionale e ha fatto pochi lavori, di cui si è parlato meno che in passato) e che per molti versi questo Sanremo poteva essere l’occasione (ma magari non l’unica) per ritrovare il grande pubblico, non dobbiamo dimenticarci di che artista sia Christian Bugatti e di quante cose belle e importanti abbia fatto in passato.

Parliamo di un cantautore con oltre vent’anni di carriera, di cui i primi dieci di assoluta rilevanza per la nostra musica. Riascoltati oggi, i suoi album degli anni Zero sembrano venire da un’altra epoca, è vero, ma rappresentano in pieno il rinnovamento della scena alternative post 2000 – con lasciti anche nell’itpop. Certo, lui ha sempre evitato di ascriversi a una scena precisa, ma probabilmente è anche a causa di quest’indipendenza selvaggia se non passava in radio. La critica lo definiva il Beck italiano e i motivi erano tanti: capacità di inventare testi assurdi e nonsense, approccio stralunato ma accattivante, arrangiamenti caleidoscopici, talento nel rendere pop davvero qualsiasi cosa – un cellulare scarico, fare la fila, il gel per capelli. E poi c’era un’affiliazione ante litteram con la tradizione tricolore: i cantautori, un Battisti che è stato fra i primi a recuperare, garage rock che strizzava l’occhio a Vasco Rossi (anche qui, prima dei tempi). Infine il folk purissimo e di razza, i synth, l’aura da sfigato geniale: Bugo ha un curriculum invidiabile e avanti coi tempi.

Ha cominciato dal lo-fi più spinto, Bugatti, e poi ha ripulito il suo stile con l’elettronica senza perdere lo sguardo allucinato e l’approccio naïf. Dopo il 2010 è passato a una canzone d’autore più ‘qualunque’ (ma se glielo chiedete, lui dissentirà), infine è tornato alle radici rock, perdendo un po’ di mordente e (forse) una fetta d’ispirazione. Se ne è parlato di meno, e peggio. E poi è arrivato Sanremo, che rischia di fagocitarsi vent’anni, ma non deve.

“La prima gratta” (2000)

        

Il primo album di Bugo, quello con meno pretese di tutti, è anche uno dei suoi migliori. La prima gratta è la sintesi di anni di anni di gavetta e demotape, riuniti sotto un piccolo, insospettabile gioiello pop. Le coordinate sono un folk chitarra e voce con spruzzate di garage rock ed elettronica, ma tutto è rigorosamente lo-fi, con canzoni che sembrano bozzetti, opere sghembe ancora da completare, figlie di un approccio naïf alla musica. Eppure, lì in mezzo ci sono tesori: testi stralunati e nonsense, con sprazzi di genialità (Spermatozoi) e dediche a cellulari scarichi (Il cellulare è scarico), oltre a ritornelli killer che prendono in prestito Battisti (Quante menate che mi faccio) e lo svestono di ogni buoncostume (Sabato mattina). Si tratta ovviamente di un lavoro sporchissimo, ma che con brani pop da cameretta dedicati alle piccol(issim)e cose sembra persino anticipare l’itpop.

“Sentimento westernato” (2001)

A un anno da La prima gratta, Bugo bissa la formula con Sentimento westernato. La purezza melodica dell’esordio permane e tutto prende una forma più completa e curata, ma senza rinunciare all’aspetto folk e lo-fi. I testi – di una semplicità allucinata ancora disarmante – un attimo prima lo fanno sembrare uno sbandato, un momento dopo un poeta: ma un pezzo come Vorrei avere un dio, con tre accordi e un inciso leggendario, portato avanti da quella voce ruvida e incerta, lo possono scrivere in pochi. E le etichette discografiche se ne accorgono.

“Dal lofai al cisei” (2002)

Dopo i primi album pubblicati con l’indipendente Bar la muerte, nel 2002 Bugo firma con la Universal, in quello che all’epoca, nella musica indipendente, era inteso come un tradimento. Lui ci gioca sopra. Già dal titolo, Dal lofai al cisei segna la svolta stilista di Bugatti, che dal folk lo-fi passa a canzoni più tradizionali nella forma e ben prodotte, che guardano all’elettronica, a un abbozzo di hip hop, al noise-rock, al pop-rock… insomma, a mischiare generi e riferimenti in maniera (come sempre) naïf. Nasce l’appellativo di “Beck italiano” che tutt’ora si porta dietro, rafforzato da nenie taglienti come Io mi rompo i coglioni e inni brillanti allo stare in casa tipo Casalingo, che mette nello stesso testo scarafaggi domestici e suicidi. E l’Italia lo capisce: con i limiti del caso e di lavori con alti e bassi, la testa del cantautore novarese è comunque un vulcano di idee inqualificabili, sfigate e brillanti, che non puoi trovare altrove. E neanche imitare.

“Golia e Melchiorre” (2004)

Fra il folk acustico degli esordi indipendenti e l’elettronica-party di quel figlio di una major che è Dal lofai al cisei, nel 2004 Bugo decide di prendersi tutto. L’all-in si chiama Golia e Melchiorre: un album doppio, con un disco di sintetizzatori e uno di ballate chitarra e voce. E se il primo, Arriva Golia!, è sostanzialmente cazzeggio, con Il sintetizzatore che è un manifesto tracotante e giocoso di questo nuovo stile, a dominare la coppia è il ritorno alle origini di La gioia di Melchiorre, un upgrade levigato a La prima gratta, con dentro Che diritti ho su dite che è un pezzo d’amore con gli occhi strabuzzati e il tocco naïf, eppure dolcissimo e struggente. Un esempio – uno dei più brillanti – di quanto di unico, se ispirato, Bugatti riesca a tirare fuori dalla sua (non più) cameretta.

“Sguardo contemporaneo” (2006)

In pieno stile trasformista à la Beck, Sguardo contemporaneo sposta le coordinate dalle parti di un rock alternativo purissimo arrangiato da Giorgio Canali. A dominare, stavolta, sono le chitarre elettriche, che – come i synth nel 2004 ne Il sintetizzatore trovano espressione in Plettrofolle, una canzone dedicata semplicemente a un plettro; come del resto Ggeell è scritta per il gel per capelli, e così la sua poetica dell’assurdo delle piccole cose si rafforza ancora. Ah, e se non bastasse c’è Oggi è morto Spock, una sorta di testamento generazionale, nerd e stralunato, che consacra lo stile bizzarro di scrittura di Bugo nella musica italiana.

“Contatti” (2008)

Magari Contatti non è il lavoro più spiazzante del lotto, ma è sicuramente il più completo, riuscito e ispirato. Col dj Stefano Fontana alla produzione, Bugatti trova l’equilibrio giusto per fare un album pop con tutti i crismi, coi ritornelli killer ma non banali e gli arrangiamenti elettronici e ballabili sempre curatissimi, senza rinunciare al suo sguardo stralunato sul mondo. Il compromesso, insomma, è un pop alternativo che non sacrifica niente: Nel giro giusto e C’è crisi diventano due successi radiofonici incredibili, mainstream, in un momento in cui la musica alternativa faticava a uscire dai propri circuiti, mantenendo un tocco goffo e naïf purissimo. E Bugo, dopo dieci anni di gavetta, si prende la scena avendo sempre fatto di testa propria.

“Nuovi rimedi per la miopia” (2011)

Eppure, sul più bello, qualcosa si rompe. Nuovi rimedi per la miopia esce tre anni dopo, e se è vero che bissare la formula di Contatti non sarebbe stato nello stile del cantautore, qui molti aspetti segnano un passo indietro. Siamo davanti a un album diviso fra un indie-pop abbastanza innocuo e un pop d’autore ben fatto, sì, ma senza guizzi. La dolcissima canzone d’amore I miei occhi vedono non ha, per esempio, nessuna frase à la Bugo, nessuno sguardo stralunato, nessuna melodia killer a sorpresa: è un pezzo d’amore come gli altri, ben scritto ma senza sorprese. E quando Bugatti si allinea agli altri, be’, parte già in svantaggio. Soprattutto, però, la sensazione è che l’ispirazione e la follia del passato stiano un po’ svanendo, e il suo declino – perlomeno a livello mediatico – non a caso inizia da qui.

“Nessuna scala da salire” (2015)

 

Quando esce Nessuna scala da salire, Bugo appartiene ormai alla generazione dei ‘vecchi’, mentre la musica italiana si sta profondamente rinnovando. Disinteressato – almeno apparentemente – a competere coi nuovi, il cantautore novarese attua una sorta di restyling: non più Beck, ma Vasco Rossi e gli Oasis. Il rock non è quello alternativo di Sguardo contemporaneo, ma una forma morbida e melodica a metà fra Bollicine e (What’s the Story) Morning Glory?, che Bugatti sembra cantare più per sé stesso che per il pubblico. Dopo quattro anni di silenzio i riflettori intorno si sono diradati, e quest’album – nonostante i riferimenti pop – contribuisce a ridurre ancor di più le attenzioni. Del resto, è un lavoro leggermente calligrafico, privo di spunti sorprendenti e con testi abbastanza sui generis, da musica leggera. Poi certo: è ben scritto e suonato, ma è poco originale ed è anacronistico. E così, con l’itpop alle porte, Bugatti sparisce dai radar.

“Cristian Bugatti” (2019)

Alla fine, spero solo che Cristian Bugatti non venga divorato dal caso Sanremo, perché è di gran lunga il miglior lavoro dai tempi di Contatti. La dirompenza, certo, non sarà quella del 2008, né l’ispirazione ai livelli de La prima gratta, ma rispetto a Nessuna scala da salire tutto è meno calligrafico, anzi molto più felicemente confuso. La scrittura, coi dovuti termini, torna finalmente sghemba e sporca, senza giovanilismi ma comunque personale (Quando impazzirò, Nel paese), Liam Gallagher (sempre lui) è tirato a lucido (Fuori dal mondo) e si guarda dietro (Sincero con Morgan, per dire) come pure a un inedito dream pop curatissimo. Magari, ecco, non ha i riferimenti più in voga né i ritornelli killer per il 2020, e non servirà da rilancio per lui. Il tempo passa, ed è anche normale. Ma dopo dieci anni in cui l’ispirazione sembrava sparita, ci dice che Bugo è tornato, eccome.

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