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Cos’è rimasto degli Smiths?

La domanda nasce dopo aver visto 'Shoplifters of the World', il film di Stephen Kijak che racconta l'impatto dello scioglimento del gruppo di Morrissey sulle vite dei ragazzi degli anni '80

Cos’è rimasto degli Smiths?

Ellar Coltrane in 'Shoplifters of the World' di Stephen Kijak

Foto press

L’unica band che conta: una definizione della quale nella storia del rock si sono fregiati diversi gruppi-monumento, da Rolling Stones ai Clash passando per gli Who. Atipici rappresentanti della categoria – che sottintende devozione assoluta e fideistica da parte dei fan, per i quali le band in questione rappresentano qualcosa di realmente “più grande della vita” e nelle quali la loro, di vita, si rispecchia totalmente – sono stati anche gli Smiths. Atipici perché, in un mondo tendenzialmente virile e virilista come quello rock, hanno tenuto a battesimo una comunità di anime fragili che nella anti-epica del gruppo di Manchester (l’esatto contrario di quella “sex & drugs & rock’n’roll”) hanno trovato un rifugio. O addirittura, enfatizzando un po’ ma forse neanche tanto, una chiesa. Con Morrissey nella parte del Papa, dispensatore di encicliche su vinile che hanno fattto da guida spirituale lungo quel trauma chiamato adolescenza per molti ragazzi e ragazze spaesati degli anni ’80. Fino al punto da ispirare dimostrazioni di amore spinte all’estremo.

Proprio come quella raccontata in Shoplifters of the World, il film di Stephen Kijak che ha aperto l’ottava edizione di Seeyousound, il festival sul cinema a tematiche musicali (finamente tornato in presenza, dopo due edizioni tormentate per i noti motivi) in corso a Torino fino al 24 febbraio. Kijak, apprezzato autore di documentari rock (dagli Stones di Exile on Main Street, anche questo in cartellone al Seeyousound, a Scott Walker) ha preso spunto da un fatto pare realmente accaduto: nella primavera del 1987, un ragazzo di Denver distrutto dal dolore per lo scioglimento degli Smiths, nonché desideroso di fare colpo su una amica forse ancora più smithsiana di lui, prende in ostaggio il dj di una radio locale 100% metal e classic rock e lo obbliga, puntandogli addosso una pistola, a passare per tutta una notte esclusivamente canzoni di Moz e compagnia, scatenando l’entusiasmo della (improbabile) enclave denveriana di fan della band.

Tanto suggestivo il plot quanto oggettivamente fiacco il risultato. Troppi cliché, troppe didascalie, battute a volte simpatiche ma più spesso telefonatissime, un taglio innocuo e patinato da videoclip e personaggi che – con i loro parka e le loro spillette, l’eyeliner e le acconciature cotonate, la confusione sessuale e le insicurezze esistenziali – sembrano le classiche figurine da oleografia Eighties. Oleografia della quale gli Smiths fanno parte a pieno titolo, esattamente da quella primavera del 1987 in cui salutarono il mondo consegnandosi al mito.

Kijak ha, per sua stessa onesta ammissione, voluto fare un tributo alla sua gioventù. Niente di male, ma forse il problema sta proprio lì: la mitologia degli Smiths è inscindibile da quel periodo, è rimasta e rimane viva nelle madeleine di chi aveva 18 anni allora, ma difficilmente riuscirà ancora a trasmettersi alle nuove generazioni. Al di fuori del perimetro della nostalgia, l’impressione è che sia poco spendibile in un presente molto più lontano dagli anni ’80 di quanto ci piace pensare, dai quei riti di passaggio e da quelle contrapposizioni.

Prima della proiezione – la prima in pubblico – il regista di Shoplifters of the World ha scherzosamente notato che «viste le pettinature in sala, sono sicuro che qua siamo tutti fanatici degli Smiths». Forse con “haircut” intendeva calvizie, vista l’età media degli spettatori. La fedeltà di quel Salford Lads Club allargato di quaranta-cinquantenni (e oltre) rimane inscalfibile, certo, ma vale la pena chiedersi se quelle canzoni firmate Morrissey & Marr, al di là della indiscutibile bellezza di molte di esse, possano ancora connettersi ai sentimenti e ai bisogni degli adolescenti di 35 anni dopo. La ricerca della propria identità è una costante in qualunque generazione, così come il bisogno di trovare uno specchio di se stessi in qualche tipo di manifestazione artistica e in primo luogo nelle canzoni, ma viene il sospetto che agli equivalenti odierni dei protagonisti del film di Kijak il romaticismo estenuato e il “miserabilismo” (si perdoni l’orrido termine) dei testi morrisseyani non parlino più, non dicano nulla della loro vita. Un po’ come il dj che meritava l’impiccaggione in Panic. Per averne la certezza si dovrebbe chiedere a loro, ovviamente, ma sarebbe interessante verificare la reazione di un giovane disoccupato o precario a vita di oggi davanti a strofe come “cercavo un lavoro e poi ho trovato un lavoro, e dio solo sa quanto sono infelice adesso”.

Un nocciolo di universalità nelle canzoni degli Smiths, così come in qualunque capolavoro della musica pop, ci sarà sempre, ma il conflitto tra “noi e loro”, tra gli adolescenti e “il mondo che non vuole ascoltare” oggi si sviluppa lungo linee di faglia diverse, più sfuggenti e allo stesso tempo più problematiche. In questo senso, gli scambi di battute tra il fanatico degli Smtihs e il dj metallaro (ma alla fine di buon cuore) sono la parte più divertente e più significativa del film, proprio perché raccontano un mondo che non esiste più. «Gli Smiths sono la più grande band di sempre», «Solo perché non hai mai ascoltato i cazzo di Twisted Sister». Ecco: la divisione in tribù, connotata secondo codici estetici e appartenenze musicali, è qualcosa che oggi è sostanzialmente sparita.

L’eccezionalità degli Smiths in quel contesto dipendeva anche da quello. Così come da un immaginario spalmato su una serie di copertine di dischi che sono diventate l’avatar di una generazione (o una sua parte). Se ne vedono tante di copertine, in Shoplifters of the World. Si vedono vinili maneggiati, accarezzati, che ruotano su un piatto. «Lo vedi questo disco? Mi ha cambiato la vita». Oggi può un disco cambiare la vita? E non solo nel senso di serie di canzoni, ma proprio come oggetto fisico. Un rapporto esclusivo, intimo, quotidiano, che diventa sia un segnale di riconoscimento visivo tra simili sia un portale di ingresso in un mondo in cui ti senti finalmente a casa, e per il quale la schermata di Spotify non può che essere un misero surrogato.

Naturalmente queste considerazioni valgono per qualunque band di qualunque epoca, ma forse per una band così identitaria come gli Smiths valgono un po’ di più. La loro importanza e il loro posto nella storia del pop rimangono, ci mancherebbe. D’altra parte, se il mito ha resistito all’evoluzione del personaggio Morrissey può resistere a qualunque cosa, almeno per i coetanei di quei ragazzi di Denver.

A un certo punto del film, il saggio metalhead ammonisce il fan che lo tiene in ostaggio: «Crescerai, e ti accorgerai che i tuoi idoli ti deluderanno e non rappresenteranno più quello in cui credevi». Probabile che a Morrissey questa battuta sia sfuggita, altrimenti non avrebbe dato l’ok all’utilizzo di una ventina di canzoni degli Smiths. Oppure che, nel suo infinito egocentrismo, abbia pensato si riferisse a Johnny Marr.

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