Cosa hanno in comune De André e Bowie? La solitudine e il fallimento dell’impresa di vivere | Rolling Stone Italia
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Cosa hanno in comune De André e Bowie? La solitudine e il fallimento dell’impresa di vivere

I concept album di ricerca, il confronto con i maestri della chanson francese, la consapevolezza della fine: Morgan racconta i punti di contatto tra due musicisti che hanno scavato «ai lati opposti della stessa montagna» e suona un brano ispirato a 'Tutti morimmo a stento'

Cosa hanno in comune De André e Bowie? La solitudine e il fallimento dell’impresa di vivere

Morgan

Foto: Paolo Gepri

Hanno praticamente lavorato in parallelo come due scavatori ai lati opposti della stessa montagna e sono arrivati al centro nello stesso punto, partiti da due posizioni opposte. Molti non sanno che nel 1968 Fabrizio de André ha inciso un suo album in inglese poi mai pubblicato intitolato Chant of the Junkies. Non è sorprendente pensare a “We know Major Tom’s a junkie”? E Major Tom è del ‘69. Il junkie di De André è del ’68. Poi nel ‘72 Bowie fa il concept album sul “disadattato” Ziggy Stardust, e De André nel ‘73 fa anche lui il concept album sul disadattato. Uno è un alieno, l’altro è un impiegato.

Nel 1972 in Italia da qualche anno ed esattamente dal ‘68 De André lavora nella forma del concept album con la poetica del personaggio, del 1971 infatti è Non al denaro non all’amore né al cielo dove i personaggi sono ben nove e del 1973 Storia di un impiegato. De André lavora costruendo personaggi universali, problematici, disperati, sfortunati, umili, in cui identificarsi. Bowie invece costruisce personaggi esagerati, non comuni, eccezionali e irregolari. Cosa hanno in comune? La solitudine. Il fallimento dell’impresa di vivere. In Ziggy Stardust, Bowie crea una sorta di clone di se stesso, perché non si mette a costruire una figura vicina a ciò che veramente lui è come persona, ma un alter ego che è una replica con variazioni di una rockstar alla moda, teen icon, che ha un gruppo ed è un provocatore, vestito in modo assurdo, anticonformista e sessualmente libero, anarcoide, libertario. De André invece in Storia di un impiegato non fa altro che costruire una versione letteraria di se stesso con la sua visione politica, la sua disillusione sentimentale e la sua azione comportamentale estremamente critica e di lotta: nei confronti della società è modello di dissidenza, verso la relazione privata è un modello filosoficamente evoluto e culturale. In sintesi è un’epica libertaria.

All’inizio degli anni ’70, mentre facevano i concept album di ricerca musicale e letteraria, entrambi si misuravano con i loro maestri, cioè facevano cover, così, da una parte divulgavano l’opera importante dei loro padri artistici – rivelando così anche le loro radici – e dall’altra apprendevano in modo approfondito la scrittura dei maestri, la assorbivano facendone tesoro per le loro opere. Ed è interessante notare che entrambi, apparentemente così distanti – anche geograficamente – si trovavano ad attingere dal repertorio francofono, facendo la traduzione dal francese alla loro lingua. De André traduceva le canzoni di Georges Brassens in italiano; Bowie quelle di Jacques Brel in inglese (ma con le traduzioni di Scott Walker, il primo che tradusse Brel in inglese). Quindi abbiamo questo parallelismo che porta ad individuare nella canzone francese l’archetipo compositivo formale. Perché? Perché erano curiosi e colti, erano degli intenditori di musica e degli appassionati di storia, avevano radici profonde nella loro cultura e in quanto poeti e rivoluzionari si sono incontrati per affinità elettive nel territorio della “chanson”, perché entrambi erano degli “chansonnier”, ovvero dei cantautori, possiamo anche dire dei “song-writers”.

La madre poetica di De André è la Francia rinascimentale dei trovatori, è la lingua d’oc e il romanzo cavalleresco, ed è anche François Villon, maledetto ante litteram, è anche la filosofia esistenzialista di Sartre e Proust e sono le canzoni anarchiche, ni dieu ni maître, né Dio ne padrone, ed è certamente Jacques Brel, che fu davvero folgorante per chiunque avesse passione per la musica e le canzoni, perché era veramente un Dio. E infatti anche Bowie è stato travolto dalle canzoni di Jacques Brel e nel ‘72 ne faceva addirittura più di una nei suoi concerti rock’n’roll, noncurante che a quei ragazzini truccati da fulmine, o da alieni, quel repertorio, appunto, risultasse alieno, ma Bowie divulgava, sperimentava e faceva ciò che gli piaceva. E la Francia anche per Bowie era assoluto modello poetico in Rimbaud e Baudelaire e da buon anglosassone dandy (cosa che era anche De André, ma il dandy mediterraneo è estivo e ha l’eremo in una antica masseria tra aranci e limoni, quello nordico dimora in castelli arroccati sui ghiacciai) è penetrato profondamente dal romanticismo di Chopin e dalla triade benedetta Debussy-Satie-Ravel, perché, a differenza di De André, Bowie è un eroe romantico, mentre de André è un antieroe (ovviamente in termini letterari).

Dunque, entrambi lavorano a stretto contatto con la materia vocale scritta e orale, perché sono cantautori, e così è un cantautore, un poeta con la chitarra, un mago delle parole, che sa usarle in modo potentissimo, e si accompagna facendosi una colonna sonora da sé. Ma lavora sodo, e poi se è, in più, un cantautore di ricerca, allora sperimenta, intraprende progetti audaci senza nemmeno sapere dove lo porterà il viaggio in territorio ancora inesplorato. Entrambi sono stati degli inventori e l’invenzione del concept album infatti nasce da un’esigenza narrativa, un bisogno di ampiezza, ma le canzoni, invece, sono cose corte, limitate, allora il racconto si fa organico. Entrambi hanno attinto da libri importanti: il concept album di De André del 1971 Non al denaro non all’amore né al cielo è una versione cantata dell’Antologia di Spoon River scritta nel 1915 dal poeta americano E.L. Masters, e il concept album fantapolitico di Bowie del ’74 Diamond Dogs è la versione cantata di 1984 di George Orwell.

‘I fiori che non ho’ è un brano eseguito da Morgan
sulla base dei tre intermezzi di ‘Tutti morimmo a stento’,
l’album di Fabrizio De André del 1968

A un certo punto la vena creativa ha avuto bisogno di nuovi stimoli, entrambi alla fine degli anni ‘70 hanno iniziato a lavorare insieme a collaboratori con cui facevano squadra fissa e creavano dei team di lavoro, che sono diventati dei marchi di fabbrica, perché si tratta di quelle persone che stanno costantemente accanto all’artista, in tutte le fasi della sua produzione artistica, diventando un tutt’uno di fatto. Ecco che De André inizia a scrivere con Massimo Bubola, e farà ben tre album in cui la simbiosi è totale e determina il suono, lo stile, gli accordi, il canto, il testo, persino l’aspetto grafico, stessa cosa più tardi con Mauro Pagani, i due dischi “etnici”, con i testi dialettali e la sperimentazione timbrica-ritmica-armonica.

Questa grande intelligenza di saper riconoscere i propri limiti e affidarsi ad altri in nome della bellezza e del non accontentarsi ma andare sempre oltre per fare sempre, ogni volta, un’opera interessante, fresca, nuova, originale e non banale, che abbia sempre un peso e un senso, la ha avuta anche Bowie, che da un certo punto ha fatto squadra con Fripp e Eno in due album dove esattamente come De André ha condiviso ogni fase, dalla scrittura delle canzoni fino al mixaggio, e questo team è durato dal ‘76 all’82. Poi addirittura Bowie si è costruito una vera e propria band, un’esperienza di pura condivisione e di musica d’assieme, i Tin Machine, uno dei momenti più alti di tutta la sua carriera, perché il fatto di poter essere arretrato gli ha permesso di esprimersi più liberamente proprio come songwriter, e una volta conclusa l’esperienza si è tenuto vicino il chitarrista Reeves Gabrels, con il quale ha realizzato i suoi dischi di tutto il decennio degli anni ‘90, che da un punto di vista della visione sonora sono l’apoteosi di tutto il suo universo “espressionista”.

Nell’83 De André rivoluziona totalmente il suo stile, scopre l’elettronica e farà il suo disco più importante che influenzerà tutto il cantautorato italiano: con il produttore italiano più sperimentale e intelligente, Mauro Pagani, e una batteria elettronica fa il suo disco più d’avanguardia, Creuza de mä. Nell’83 anche Bowie rivoluziona completamente il suo stile e fa il suo disco più popolare, che rivoluzionerà completamente il pop anglo-americano. Mentre tutto il mondo della musica è assorbito nell’elettronica (che Bowie però aveva fatto nel ’77-‘79), lui prende il produttore più intelligente e più bravo, Nile Rodgers, un basso una chitarra e una batteria e fa il suo disco più pop, Let’s Dance.

Entrambi sono morti ancora giovani, ma provati fisicamente, in eterna lotta con il bisogno di smettere le varie dipendenze nocive, ogni tanto riuscendoci, ogni tanto no. Entrambi sapevano che stavano morendo, con la stessa piena consapevolezza che avevano avuto della vita e nella vita, hanno sempre e solo parlato e scritto di morte. Su trecento canzoni di De André quelle che non parlano di morte saranno al massimo cinque, Bowie invece accettava ruoli cinematografici solo se il personaggio che interpretava moriva. Però era sempre stata la morte degli altri quella di cui hanno fatto arte e capolavori, a un certo punto è arrivata la loro, e anche loro, come tutti gli esseri umani, hanno dovuto accettare ma gli sono anche girati i coglioni pesantemente. Fabrizio sul letto di ospedale, quel gigante che ora pesava forse quaranta chili ha detto, bestemmiando, a Mauro Pagani: «Non è una bella cosa morire», l’altro ha direttamente staccato la spina del macchinario che lo teneva al mondo in uno stato inaccettabile. Il meraviglioso bellissimo impeccabile, l’uomo più elegante del mondo, l’amato David si è spento il 10 gennaio; il grande, il più grande patrimonio culturale, l’ironico, ribelle con il ciuffo fantastico e la voce di Dio, Fabrizio, si è spento il giorno dopo. Che brutto che siano morti, una vera merda.