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Con ‘Black Is King’ Beyoncé mette finalmente al centro le radici della cultura nera

In un periodo in cui le discussioni sull'appropriazione culturale e sul valore delle vite dei neri tengono banco, la diva per eccellenza ricorda al mondo che l'hip hop e l'R&B sono solo la punta dell'iceberg

Screenshot via Youtube

La superficie dell’Africa consta di oltre 30 milioni di chilometri quadrati. I suoi abitanti sono quasi un miliardo e mezzo. Nel continente si parlano circa 2.000 lingue e dialetti diversi, e gli Stati sovrani che ne fanno parte sono attualmente 54. Se a questi dati aggiungiamo quelli della diaspora – ovvero di tutte quelle popolazioni che, per deportazione, colonialismo, necessità o scelta, sono emigrate altrove nei secoli e hanno dato vita a nuove comunità afrodiscendenti – i numeri aumentano ulteriormente.

La lezione di geografia in questione serve principalmente a porci una domanda: ha senso tentare di riassumere l’intera arte e creatività africana in un unico visual album, seppur con budget milionario e la mente geniale e visionaria di Beyoncé a dirigere le operazioni? Probabilmente no. E difatti Black Is King, l’opera in questione, non dovrebbe essere guardata con quello spirito, anche se il tentativo più o meno dichiarato di Queen Bey è proprio quello di pagare pegno a una cultura ampiamente saccheggiata dal pop, ma di cui raramente il pubblico riconosce la centralità. Se vi aspettate un trattato di antropologia, resterete delusi; se invece siete intenzionati a godervi un lungometraggio visivamente spettacolare e ricco di spunti e influenze lontane anni luce dalla musica patinata di oggi, sarà un’ora e mezza spesa bene.

Un passo indietro, per chi si fosse perso le puntate precedenti: l’anno scorso, Beyoncé è stata scelta come co-protagonista del live action de Il Re Leone, per prestare la voce a Nala, la futura regina leonessa. Siccome fare una cosa per volta non è esattamente nelle sue corde, contemporaneamente al film ha anche deciso di pubblicare un album, The Lion King: The Gift, ispirato in qualche modo alla pellicola (contiene diversi interludi parlati tratti dalle scene più celebri) e descritto dall’artista come “La sua lettera d’amore all’Africa”. La vera novità del disco è che ospitava numerosissime superstar della musica africana, spesso quasi sconosciute in occidente: Yemi Alade, Burna Boy, Shatta Wale, Salatiel, Wizkid… Non solo: anche il sound era dichiaratamente ispirato a sonorità che buona parte dei suoi fan non avevano neanche mai sentito nominare.

Dall’urban high life (una declinazione nigeriana dell’urban che unisce Fela Kuti alla trap) allo zouk (che mischia la musica delle Antille all’R&B passando per Parigi), dal ndombolo (la musica che va per la maggiore in Congo quando si tratta di ballare) alla dancehall e all’afropop.

Un esperimento lodevole ed estremamente interessante, insomma, che però non aveva ottenuto del tutto i riscontri sperati: era andato molto bene nelle classifiche R&B o di world music, ma non aveva fatto gli sfracelli che tutti si sarebbero aspettati da lei nelle classifiche pop. Non ci è dato di sapere se la scelta di realizzare un film che accompagni l’album sia stata dettata anche dalla voglia di regalargli una seconda chance, ma venerdì scorso, circa un anno dopo la pubblicazione di The Gift, è uscito in esclusiva streaming sulla piattaforma Disney + Black Is King, che è una rappresentazione per immagini di ognuno dei brani del disco. Nonché una glorificazione delle sue radici, in ogni forma e manifestazione possibile.

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La trama, mai esplicitata del tutto ma chiarissima dal fluire dei vari raccordi, segue la storia di un giovane principe africano di un’epoca e una zona imprecisata del continente. Costretto a separarsi dalla madre, interpretata da Beyoncé, intraprende un lungo viaggio di formazione che comincia come quello del profeta Mosé, abbandonato dai genitori in una cesta galleggiante nelle acque del Nilo per sfuggire alla persecuzione del faraone nei confronti degli ebrei. Da lì in poi, è un tripudio barocco di giungle, deserti, ville opulente, slum, transizioni oniriche e potenti e soprattutto coreografie, acconciature e costumi ispirati alla tradizione locale. Girato nel corso di un intero anno tra Ghana, Sudafrica, Nigeria, Europa e Stati Uniti, Black Is King vede una serie di comparse eccellenti, tra cui perfino Naomi Campbell, nonché buona parte della famiglia Knowles-Carter coinvolta – la madre Tina, i figli Blue Ivy, Sir e Rumi, il marito Jay-Z e la cugina Kelly Rowland.

Grazie a una serie di azioni altamente simboliche, Beyoncé ha sottolineato senza ombra di dubbio che il focus del progetto non è su di lei, ma sulla cultura black e le sue origini. Il primo video estratto Black Parade, ad esempio, è stato reso disponibile su YouTube il 19 giugno, altrimenti noto come Juneteenth, una ricorrenza non ufficiale che gli afroamericani celebrano per festeggiare la fine della schiavitù negli Stati Uniti. L’esclusiva mondiale che la piattaforma streaming Disney + detiene sul film, inoltre, non vale per l’Africa: Bey ha fortemente voluto che, in un continente in cui spesso c’è una sola tv per villaggio e Internet non è così diffuso, Black Is King fosse trasmesso sulla televisione generalista, là dove avrebbe potuto raggiungere e ispirare il maggior numero di spettatori, e così sarà.

Beyoncé è da sempre una donna e un’artista che centellina le sue dichiarazioni, o meglio, preferisce inserirle in un contesto in cui ne ha il pieno controllo creativo e intellettuale. Non è la prima volta che usa dischi, canzoni e video per lanciare un messaggio. Come è ormai noto a tutti , lo ha fatto nel privato quando ha denunciato in mondovisione il tradimento di suo marito Jay-Z con un intero album, Lemonade. Ma negli anni ha anche compiuto gesti molto più politici. Con il film Homecoming, che seguiva il suo attesissimo concerto al Coachella, ha messo in luce le tradizioni delle università afroamericane, con le loro marching band e i gruppi di step, dimostrando che non hanno niente da invidiare a quelle bianche e conservatrici della Ivy League; con il video di Formation ha denunciato la criminale gestione della macchina dei soccorsi durante l’uragano Katrina a New Orleans; con la presenza della scrittrice e femminista nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, di cui campionò un discorso per includerlo nella sua Flawless, ha messo bene in chiaro come la pensa sulla disparità di genere.

Anche Black Is King è un atto profondamente strategico, nel senso più nobile del termine: in un periodo in cui le discussioni sull’appropriazione culturale e sul valore delle vite dei neri tengono banco, la diva per eccellenza ricorda al mondo che l’hip hop e l’R&B sono solo la punta dell’iceberg, e che per apprezzare la cultura nera bisogna apprezzarla tutta, scavando per comprenderne ogni recesso e tributandone i meriti a chi di dovere. Non a caso il film è dedicato al suo unico figlio maschio, Sir, che secondo le statistiche, in quanto afroamericano, quando crescerà rischierà di finire in carcere con un tasso di probabilità cinque volte superiore rispetto a quello di qualsiasi suo coetaneo bianco. Non va certo meglio in Africa, dove violenza, analfabetismo e povertà sono tuttora dilaganti in moltissimi Paesi. Se la bellezza e l’arte possono servire anche solo in minima parte a combattere percezioni distorte, a diventare motivo di orgoglio e ispirazione e a servire da alternativa a tutto ciò, dateci altri dieci, cento, mille Black Is King.

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