Come i Casadei hanno trasformato il liscio in una sottocultura | Rolling Stone Italia
Musica

Come i Casadei hanno trasformato il liscio in una sottocultura

Da "Romagna mia" alla Ca' del Liscio, Secondo e Raoul Casadei hanno rivoluzionato un genere, facendolo entrare nella cultura italiana come musica del popolo, fatta per il popolo

Come i Casadei hanno trasformato il liscio in una sottocultura

Egizio Fabbrici/Mondadori Portfolio via Getty Images

Per un strano gioco del destino ho trascorso le mie prime serate fuori senza mamma e papà, diciamo tra i 5 e i 9 anni, nelle balere. Nei dancing dalla passa padana, quelli estivi come La Buca di Salice Terme e quelli al chiuso con nomi che ancora oggi conservano un certo gusto esotico come Antares o Sandalo Cinese, ho vissuto il mio primissimo svezzamento musicale, imparando ancora prima di conoscere le note, seduta su divanetti a fiori o in vellutino rosa e guardando i cocktail colorati e le acque brillanti nei bicchieri alti e cilindrici degli adulti, a capire che la polka è una musica in due tempi mentre la mazurca e il valzer ne hanno tre. Sono cresciuta nell’idea, smentita dopo poco con l’arrivo della musica pop nella mia vita, che la scaletta di un concerto fosse necessariamente composta dall’alternarsi di canzoni e brani strumentali e che non esistesse in alcun modo una gerarchia tra questi due mondi visto che, entrambi, esistevano nelle serate con uno scopo molto preciso: far ballare le persone. Per diverso tempo ho creduto che la musica dal vivo esistesse solo in funzione della danza, e che mentre io, bambina che dunque non ballava, me ne stavo seduta a guardare e inevitabilmente ascoltare, interiorizzare, imparare i testi delle canzoni che si ripetevano nei repertori delle orchestre da una serata all’altra, di quelle canzoni non importasse granché agli altri se non nella misura del loro essere semplici suoni da ballare.

In un documentario RAI di Claudio Rispoli del 1978, intitolato Lissio, Raoul Casadei parla anche di me e spiega che il liscio è la musica che fa uscire di casa le famiglie, che porta nei locali anche il bambino, e lo definisce come “l’altro genere musicale”, quello che, insomma, mobilita la maggioranza silenziosa, il genere che si contrappone al pop e ai fenomeni sottoculturali che vanno dal rock in su. Liscio Got Me Hardcore è una pubblicazione a cura del collettivo Ragazzi di Strada di Lorenzo Ottone, potremmo dire che è il numero a tema liscio di una fanzine dedicata alle sottoculture, è uscita in inglese (con traduzione italiana alla fine del piccolo volume) e si dedica a riconoscere a questo genere musicale il proprio ruolo sottoculturale.

Sebbene le altre sottoculture, dal punk alla new wave fino ad arrivare alla più pop, cioè l’italodisco, abbiano contribuito a renderlo bistrattato e musicalmente assai sminuito nel proprio valore artistico da gran parte della popolazione musicalmente attenta, il liscio ha in sé tutto ciò che serve per essere considerato una vera e propria sottocultura. Punta assoluta e popolare, unica e irripetuta nella forza dirompente e nella risposta del pubblico, del folclore italiano, il liscio ha generato una vera e propria estasi collettiva, in modo diverso eppure analogo ad altre scene sottoculturali che, come persino una bambina di 6 anni può notare, sono essenzialmente basate sul ballo, sul piacere estatico e liberatorio della danza: dal northern soul all’hardcore, appunto. Ad avvicinare questo mondo alle altre sottoculture, poi, ci sono anche fattori specificamente estetici, a partire dalla tipica divisa indossata dalle orchestre, look impeccabili da spettacolo con abiti satinati che nascono come divise eleganti e raggiungono negli anni ’70, con l’esplosione del genere e il moltiplicarsi delle formazioni, quella linea di confine in cui il pantalone a zampa d’elefante per lui e l’abito da soubrette in finta seta per lei, suggeriscono sì eleganza ma pure quello che Bowie chiamava “la parte sporca del glam”, vale a dire quel mix di lustrini e stoffe non esattamente di pregio che attraversano i live di borsa in borsa, di baule in baule e che fanno colore, spettacolo, messa in scena e, appunto, si addicono al folclore.

Casadei Sonora, foto di Giulia Cavaliere

La presenza massiccia di un’attenzione al look che le orchestre dovevano portare dal vivo, ci consente di parlare subito di Secondo Casadei, il vero fondatore di una musica che ancora non portava il nome di liscio e che era nata con Carlo Brighi, violinista e compositore, ai più noto con il nome ormai epico di Zaclén che, dopo una militanza nel teatro d’Opera (anche al fianco di Arturo Toscanini), si dedica a portare in giro per la Romagna in circoli, piazze e palazzi, la musica da ballo, essenzialmente fondata sull’alternarsi di valzer, polke e mazurke, i tre tipi di composizione che continueranno nel tempo a rappresentare il corpus musicale delle serate di liscio. Secondo Casadei si avvicina alla musica da molto giovane, viene dalla piccola Sant’Angelo di Gatteo e appartiene a una famiglia di sarti ma, pur imparando il mestiere, ne fa uso in sole due occasioni: quando durante la guerra i fascisti impediranno alle orchestre di esibirsi e dunque dovrà trovare un modo per (tentare di) sbarcare il lunario e quando, prima di allora, il 21 giugno del 1928, aveva deciso di debuttare in proprio con la sua prima orchestra al Dancing Rubicone di Gatteo Mare, e aveva felicemente imposto all’intera formazione eleganti divise che nel giro di pochissimo sarebbero diventare il marchio di fabbrica primo e più evidente del concetto stesso di orchestra romagnola.

Secondo Casadei, però, ha fatto di più, molto di più: non solo ha generato una vera e propria macchina dello spettacolo folk italiano unica e di proporzioni epocali e irripetute, ma è stato un musicista di alto livello, un artista con un progetto preciso portato avanti con devozione e dedizione assolute. Alla formazione sonora base del genere folk romagnolo, composta da violino, clarino in Do, contrabbasso e chitarra (che Zaclén aveva introdotto all’inizio dell’800), Secondo Casadei aggiunge il sassofono, la batteria e il cantante (spesso più d’uno). Aveva poi visto utilizzare il megafono e aveva deciso di inserirlo anche lui, dapprima uno in cartone per passare poi a una più prestigiosa versione in latta. Il suo lavoro in campo musicale si può sintetizzare riferendosi a una continua alternanza di tradizione e modernità che in alcuni momenti si fondono generandone l’automatico superamento.

Casadei Sonora, foto di Giulia Cavaliere

Detto lo Strauss di Romagna – le polche erano infatti l’anima di Strauss Jr. esattamente come le mazurche erano quella di Chopin – è però dalla vittoria nello scontro generazionale del primo dopoguerra che arriva il miglior soprannome di Casadei: l’uomo che sconfisse il boogie (ora anche titolo di un bel documentario a lui dedicato). Quando, infatti, dopo la carestia data dalla guerra e dall’impossibilità di esibirsi, arrivò lo scontro con i nuovi generi d’importazione americana (appunto il boogie woogie e lo swing in primis) Secondo Casadei, fischiato dal suo stesso pubblico e apparentemente dimenticato, non cedette e, anzi, lavorò alacremente per conquistarsi di nuovo la sua gente; in un momento in cui tutta la sua innovazione del periodo pre-bellico si è improvvisamente trasformata in roba vecchia da spedire al macero, in breve Casadei ricorda al popolo romagnolo di essere quello che sa usare un ritmo one step in una sua canzone, ponendosi in anticipo sui tempi e concedendosi lui per primo di essere contestato dai più tradizionalisti.

Secondo Casadei fu poi, soprattutto, un grande autore di canzoni: nell’arco della sua vita se ne contano circa 1050, di cui più di 600 scritte solo negli anni ’50 quando, una volta superata la battaglia con il boogie, Casadei e la sua orchestra arrivano a esibirsi in più di 365 concerti all’anno. Ma cosa sono, esattamente, le sue canzoni? Sono canzoni romagnole, scritte spesso ma non sempre in dialetto (prima di quelle canzoni in Romagna esistevano solo le Cante), brani che raccontano della vita quotidiana, d’amore, di tradizioni, di storie agresti ma anche, per esempio, di vicende pubbliche e di campioni dello sport. Come Lucio Dalla farà diversi decenni dopo, anche Secondo Casadei ha per esempio la sua Nuvolari. La canzone italiana, foss’anche la canzonetta pre-Modugno, ancora è lontana dall’esistere quando già esiste nascosta, e spesso più all’avanguardia nella scrittura di quanto si potrebbe pensare, dentro il genere periferico e provinciale, diciamo pure rustico, della canzone romagnola. L’orchestra di Casadei suona seduta davanti a un leggìo e le persone che la vogliono ascoltare macinano chilometri a piedi per seguirla, di serata in serata; le sale da ballo sono stanze coi pavimenti rovinati, con la polvere che sale ogni volta che una mattonella rotta si sposta sul terreno, ma queste stanze, che presto prenderanno il nome di balere sono quelle in cui ci si incontra quando si vive nello stesso paese oppure ci si vede per la prima volta, lì si formano centinai di migliaia di coppie, nascono moltissimi amori e altrettante famiglie. Il ruolo di Secondo Casadei mostra allora per la prima volta il ruolo pieno che avrebbero avuto i cantanti di canzoni di lì a poco: un ruolo sociale, dunque, non solo musicale. Un ruolo che, intrinsecamente in quanto ‘portatori’ della canzone al pubblico, non hanno poi mai più smesso di avere. 

Fisicamente, la storia e l’eredità di Secondo Casadei stanno tutte in quella che mi piace chiamare la Graceland italiana, cioè la sede delle edizioni Casadei Sonora di Savignano sul Rubicone, a pochissimi chilometri da Sant’Angelo di Gatteo e da Gatteo Mare. Se il cancello della fiabesca abitazione di Elvis a Memphis ha infatti le sembianze di uno spartito musicale riprodotto in ferro battuto, lo stesso accade alla porta d’ingresso del museo Casadei, dove mi sono recata l’estate scorsa e  dove la figlia Riccarda Casadei e le nipoti Letizia e Lisa mi hanno condotta in un viaggio privatissimo e approfondito tra gli oggetti del liscio e del mondo estetico e sonoro di Secondo e di quel frammento di storia musicale italiana. Mentre noto il numero di una rivista musicale decisamente lontana dall’occuparsi di liscio sulla scrivania, Riccarda mi racconta di come suo padre amasse la musica a tutto tondo e le avesse insegnato a essere critica nei confronti degli ascolti senza mai disprezzare il lavoro musicale altrui e mentre mi specifica di essere cresciuta in una famiglia votata alla musica in tutto e per tutto, dove persino i nomi degli animaletti di casa, cani, gatti o uccellini che fossero, portavano i nomi di grandi compositori o di generi musicali, mi rendo conto di trovarmi in un luogo che racchiude non solo le reliquie di una realtà musicale precisa e definita ma di una realtà musicale italiana più tentacolare e vasta di quanto si potrebbe pensare, una realtà che è stata capace di raggiungere il grande pubblico pur essendo nata in una dimensione non regionale ma, addirittura, provinciale e circoscritta in una specifica area geografica e umana.

Casadei Sonora, foto di Giulia Cavaliere

L’apertura artistica e musicale di Secondo Casadei si è declinata non solo nell’avanguardia di molte delle sue scelte artistiche ma pure nella capacità di essere una figura completa: compositore, musicista, capo orchestra (il che significa naturalmente scrivere le parti e dirigere ogni strumento) produttore, ma pure promotore del suo stesso lavoro e grande organizzazione dello stesso. Mi racconta proprio Riccarda che quando Secondo stava morendo il successo su scala extraromagola, diciamo pure pop, non solo era alle porte ma stava finalmente raggiungendolo dopo tanto lavorare e faticare, dopo la guerra e una vita di devozione alla gente di Romagna. Il successo del suo brano Romagna Mia, che diventa subito una sorta di vero e proprio inno regionale e dello spirito di quella terra cioè di una precisa area antropologica della nazione, alla fine degli anni ’50 raggiunge infatti Radio Capodistria e infine la redazione di Alto Gradimento trovando il gradimento, appunto, di Renzo Arbore.

L’orchestra Casadei – che a quel punto non è più solo di Secondo Casadei ma di Secondo e di Raoul Casadei – viene invitata da Vittorio Salvetti al Festivalbar e, seppur non in gara, appassiona le folle, anche le più scettiche, e soprattutto molti dei cantanti in gara, in particolare Lucio Battisti che chiede entusiasta di poter ascoltare bis e altri brani. Quando Secondo Casadei muore, dunque, l’orchestra va tutta nelle mani di Raoul, il nipote a cui Secondo aveva regalato la prima chitarra e che, grazie a un’erdità guadagnata proprio all’apice del consenso per questo fenomeno musicale, riesce grazie a una spiccata passione per le persone ereditata anch’essa dal suo zio e maestro, a mettere a fuoco nel modo migliore possibile. È proprio con Raoul Casadei, venuto a mancare ieri a causa del Covid-19, e che dal 2001 aveva lasciato tutto il lavoro nelle mani del figlio Mirko, che Casadei diventa un vero e proprio marchio non solo in Italia ma in Europa e nel mondo. Se musicalmente le invenzioni di Raoul sono state esigue, dal punto di vista imprenditoriale e di promozione dell’Orchestra e del marchio Casadei, il suo è stato un lavoro di grande capitalizzazione e messa a fuoco pop di quanto avvenuto nei decenni precedenti grazie a Secondo: una sorta di felice capitolo 2, al punto che nel mondo, molti, a oggi, legano erroneamente il cognome Casadei non a Secondo ma a Raoul e così anche la firma di molte canzoni, compresa proprio Romagna mia.

A partire dagli anni ’70, con l’arrivo di Raoul, il liscio diventa tale – prendendo questo nome per il suo essere una danza morbida, che accarezza il dancefloor ma che è vorticosa e tutt’altro che lenta – le orchestre si moltiplicano in tutto il nord Italia, se ne formano in Lombardia e in Piemonte mentre intanto la Romagna diventa la vera e propria cattedrale del folk italiano. A metà dei 70s Raoul Casadei fonda la Ca’ del Liscio, a Ravenna, una enorme balera votata a superare la vocazione dell’esecuzione del liscio e a includere una scuola di ballo, piscine, pizzerie, sala congressi e altro ancora, inserendosi in una vera e propria nuova rete di locali romagnoli. Alla Ca’ del Liscio passeranno in tantissimi: da un giovane Ligabue a Enrico Ruggeri fino a Vasco Rossi con una data del suo Bollicine tour del 1983 (online si può ancora trovare la scaletta). Una grande struttura che ricorda molte altre tipiche discoteche romagnole, a metà tra un’opera di architettura radicale in stile Gruppo 9999 e il tipico UFO in cemento ora andato in rovina di tante discoteche in cui non possiamo più trascorrere le notti. All’interno colori fluo, spazi dilatati, centinaia di divanetti e tavolini per cocktail colorati e acqua brillante in bicchieri a cilindro.

Casadei Sonora, foto di Giulia Cavaliere

Se l’opera di Raoul Casadei è dunque di messa a fuoco commerciale del lavoro dello zio con un tempismo perfetto su scala nazionale, va anche detto che proprio lui è stato in grado, anche dati i tempi della sua ascesa così coincidenti con quelli della Contestazione e del Movimento, di conferire, pur trasversalmente, un forte valore politico all’uso e consumo del liscio romagnolo. Il liscio, dichiara in più occasioni Raoul Casadei, non ultima proprio durante una presentazione della su Ca’ del Liscio nel 1975, è la musica semplice per le persone che dopo aver lavorato – tradizionalmente la terra ma ormai anche nelle industrie o nelle officine come operai e perché no in qualche azienda – vogliono ballare, vogliono semplicemente divertirsi in un modo sì facile, ma non stupido. In questo senso il liscio è musica del popolo, fatta per il popolo, se da una parte abbiamo la disco music che impera, dall’altra abbiamo i suoni e le danze della classe operaia, i suoni del venerdì e del sabato sera per il proletariato e la piccola, piccolissima borghesia romagnola. A ben vedere, però, tra i due mondi non esiste, fuor di sound, alcuna contrapposizione; basta, in effetti, translare lo scenario: se negli USA Tony Manero, dopo aver lavorato come commesso in un negozio di vernici, trova sollievo e realizzazione nel ballo e nella febbre del sabato sera nella sala del 2001 Odissey, in Romagna il suo corrispettivo umano va a divertirsi alla Ca’ del Liscio. 

Se siamo tutti d’accordo col fatto che sia difficile immaginare un futuro semplice per quasi ogni manifestazione popolare – Raoul Casadei andò come concorrente persino all’Isola dei Famosi e il figlio Mirko ha chiamato l’Orchestra Casadei “Casadei Beach band”, scelta, ammettiamolo, di contestabile e un poco forzato ammodernamento – è anche vero che qualcosa rimane sana, per fortuna. Lo abbiamo visto, in modo davvero eccezionale, sul palco dell’ultimo Festival di Sanremo, dove gli Extraliscio di Mirco Mariani e Moreno “Il Biondo” Conficconi (dieci anni al fianco di Raoul Casadei e ora direttore artistico delle edizioni Casadei Sonora) hanno mostrato come nella più apparentemente tradizionale storia folcloristica italiana possano annidarsi desideri di gioco e di sperimentazione: basti pensare a quella versione di Rosamunda con Peter Pichler al trautonium, lo strumento berlinese degli anni ’20 che crea un suono che scivola via come quello di un violino e che senz’altro sarebbe tanto piaciuto anche al violino di Secondo Casadei.