Tutti i dischi dei White Stripes, dal peggiore al migliore | Rolling Stone Italia
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Tutti i dischi dei White Stripes, dal peggiore al migliore

Sfuriate garage rock e canti gioiosamente infantili, blues del Delta e pezzi da romantici in un mondo di cinici, regole rigide e trasgressioni musicali: un viaggio nella discografia di Jack e Meg White alla ricerca dell’album migliore

Tutti i dischi dei White Stripes, dal peggiore al migliore

White Stripes

Foto: Patrick Pantano

Il percorso dei White Stripes è di quelli alla vecchia maniera. Partono con pochi strumenti e grande talento e senza troppa fretta, con il tempo si affinano e perfezionano capacità e mezzi fino a raggiungere un apice al quale fa seguito il desiderio di sperimentare qualcosa di nuovo e di mettersi alla prova in contesti sonori differenti. Magari vorrà dire sacrificare quel suono peculiare che li ha resi immediatamente riconoscibili, ma vorrà anche dire dimostrare di essere una band – o un musicista, vedi il percorso solista di Jack White dopo lo scioglimento dei White Stripes – completa e matura, in grado di regalare grandi momenti anche tra evoluzioni e variazioni ed entrando infine, anche per questa ragione, nel novero delle più grandi rock band di sempre.

Per un gruppo che non ha mai cambiato genere e ha lavorato più sul miglioramento che sulla netta trasformazione, è una questione di equilibrio, ma anche di cura e limatura riuscire a far stare insieme il blues del Delta del Mississippi con lo sguardo di romantici fuori posto in un mondo cinico, la furia del punk, la goliardia e le supercazzole, l’amore per i folksinger, la denuncia delle sfrenate logiche del profitto dietro alle grandi fabbriche di Detroit.

In cima a questa classifica ci sono quindi i dischi in cui convivono più armonicamente tutti questi aspetti, che hanno portato gli Stripes a distinguersi dalle altre band. A riascoltarli oggi, a circa 25 anni dal debutto, per quanto la qualità non ne esca minimamente intaccata, suonano vintage, poco di tendenza, forse fin troppo essenziali. Ma a pensarci, Meg e Jack White erano vintage già allora, convinti di poter fare faville suonando blues con due soli strumenti e con amplificatori e metodi di registrazione degli anni ’60.

6

The White Stripes

1999

I due, all’epoca moglie e marito, partono dalla gavetta, più concretamente dall’appartamento di Jack White dove è stata registrata la maggior parte del disco. La futura big thing del rock statunitense si presenta attrezzata unicamente di chitarra e batteria, con un suono grezzo e diretto come la scena di Detroit di quegli anni, alla quale il chitarrista si sente profondamente legato. Suonano un garage rock carico, potente e monotono: la batteria di Meg crea una struttura ritmica basilare e martellante mentre Jack inanella un riff dopo l’altro senza mai allontanarsi troppo dagli schemi del blues. Durante la lavorazione dell’album Johnny Walker dei Soledad Brothers insegna a Jack come suonare la chitarra con la tecnica slide, che utilizzerà moltissimo in futuro. La band sta prendendo le misure alla ricerca di un proprio stile, anche nella ridefinizione dei classici (l’album contiene le cover di One More Cup of Coffee di Bob Dylan, Stop Breakin’ Down di Robert Johnson e Cannon del bluesman Son House, al quale il disco è dedicato, e la versione della band del traditional St. James Infirmary Blues) costruendo un lavoro provvisto di molti dei tratti tipici dei White Stripes, inclusi i momenti di tenerezza infantile qui preannunciati da Sugar Never Tasted So Good, la prima di una lunga serie di ballate acustiche spesso volutamente e giocosamente nonsense. Prodotto oltre che da Jack White anche dall’ex Dirtbombs Jim Diamond, l’album è il primo mattone di un maestoso palazzo.

5

De Stijl

2000

Con il secondo album i White Stripes aggiungono ulteriori tasselli alla formulazione del loro sound, arricchendolo di nuove sfumature e concedendo maggiore spazio anche a un rock più classico (leggi Led Zeppelin in I’m Bound to Pack It Up e Jimi Hendrix in Why Can’t You Be Nicer to Me). Come The White Stripes, anche De Stijl è amato dagli amanti del garage rock, ma non contiene i brani memorabili che inizieranno ad arrivare con l’album successivo. Ci si avvicinano Apple Blossom, Sister Do You Know My Name? e la Why Can’t You Be Nicer to Me. È l’album che fa intravedere il futuro del gruppo, mostrandone la versatilità e la capacità di mantenere intatto un proprio stile qualsiasi viaggio musicale intraprendano. Tornano gli omaggi al blues con Death Letter (Son House) e Your Southern Can Is Mine (Blind Willie McTell) ed emerge con più chiarezza il lato nerd della band, che dedicando l’album al progettista Gerrit Rietveld, tra i principali esponenti del movimento artistico olandese De Stijl dal quale il disco prende il nome, chiarisce come l’estetica e le scelte della coppia – ormai solamente in arte, Jack e Meg White hanno divorziato tre mesi prima della pubblicazione del disco – abbiano ben poco di casuale. Se si fosse fermato a De Stijl, pubblicato come il debutto con l’etichetta indipendente di Long Gone John, Sympathy for the Record Industry, il duo sarebbe diventato probabilmente una band di culto per una ristretta nicchia di fini intenditori, un meraviglioso esempio di punk-blues ruvido da consigliare all’amico in viaggio per Detroit. Fortunatamente per noi, è stato invece il trampolino di lancio di una straordinaria carriera, già a partire dall’anno seguente.

4

Icky Thump

2007

Quando Icky Thump è uscito nessuno poteva immaginare che sarebbe stato l’ultimo album della band, nemmeno gli stessi Stripes. Sarà anche per questo che il disco non sembra chiudere alcun capitolo, non sembra un commiato, non è un disco che torna vistosamente alle origini per salutare i fan della prima ora e nemmeno il disco svogliato e stanco di chi non sa più cosa inventarsi. Al contrario, è un album ricco e ricercato, spesso di difficile ascolto, ma non certo per mancanza di estro creativo e di energia, ma per il vistoso desiderio della band di tirare dritto sulla via della sperimentazione già embrionalmente intrapresa con il precedente Get Behind Me Satan. Non c’è un drastico stravolgimento rispetto allo stile del gruppo, ma le canzoni si sfilacciano e perdono coerenza tra la cavalcata hard rock di Little Cream Soda, la cornamusa della title track e le grida di battaglia di Conquest. Ci sono più rabbia (“Americani bianchi, non avete niente di meglio da fare? Perché non te ne vai, anche tu sei un immigrato”, canta Jack White nella traccia d’apertura), ma anche più positività, come sottolineato da White che nelle interviste ha raccontato «la gioia di essere vivi e felici» sottesa al disco. Per quanto Icky Thump occupi un posto di tutto rispetto nella discografia del gruppo risulta più disorientante e privo di classici, anche se contiene brani rilevanti come You Don’t Know What Love Is (You Just Do as You’re Told), Bone Broke e Rag and Bone. Il disco apre la strada al percorso solista di Jack White e delle sue numerose band, tutt’altro che cloni dei White Stripes.

3

Get Behind Me Satan

2005

Per giustificare la presenza di Get Behind Me Satan fra i tre migliori lavori della band sarebbero sufficienti i primi 40 secondi del disco, l’inizio di Blue Orchid, tra i brani più significativi del repertorio del duo di Detroit. Se ci fosse un disco della svolta dei White Stripes, sarebbe questo, il primo in cui dopo aver definito una precisa cifra stilistica Jack e Meg White iniziano a distaccarsene. Sparisce la bicromia di chitarra e batteria e arrivano nuovi strumenti, su tutti il piano, il mandolino e la marimba. I pezzi sono tendenzialmente più ritmati e i classici riff di elettrica non sono più in primo piano. Tra i brani migliori come Forever For Her (Is Over For Me), I’m Lonely (But I Ain’t That Lonely Yet), My Doorbell e Blue Orchid, spuntano esperimenti come Red Rain, un pezzo delirante che più di altri fa intravedere la direzione che la band avrebbe preso nel successivo, ultimo lavoro. Tra i dischi più amati del gruppo, Get Behind Me Satan ci ricorda anche il talento di polistrumentista di Jack White, che qui suona quasi tanti strumenti quanti sono i brani che lo compongono. Sono passati sei anni da quando la band ha iniziato a incidere a casa di White, che ora ha a disposizione gli studi di registrazione dell’etichetta da lui stesso fondata, la Third Man Records. Dopo White Blood Cells ed Elephant, il disco conferma gli Stripes come una delle migliori band a livello mondiale, ma lascia anche intendere che Jack White non ha alcuna intenzione di ripetersi, a costo di non scrivere mai più un’altra Seven Nation Army.

2

White Blood Cells

2001

Più di una volta Jack White ha chiesto all’ingegnere del suono coinvolto nella registrazione dell’album, Stuart Sikes, di non farlo «suonare troppo bene», di non puntare troppo alla qualità del suono. Per la prima volta la band utilizza un registratore a 24 tracce e non vuole correre il rischio di perdere il timbro lo-fi che sta tanto a cuore al polistrumentista. Per quanto duramente il rocker si sia impegnato per tenere alla larga qualsiasi rifinitura, registrando molto velocemente per catturare al meglio l’energia della band, White Blood Cells si stacca nettamente dal sapore quasi amatoriale di The White Stripes e di De Stijl e fa fare al duo un balzo in avanti. I brani assumono una struttura radiofonica e una forma più concisa, sono perfettamente costruiti e allo stesso tempo, proprio come voleva Jack White, le sporcature e l’essenzialità dei pezzi li mantengono in linea con quanto già prodotto. Col terzo album la band passa dal fare grande musica a fare grandi canzoni. Per la prima volta un album degli Stripes entra nella Billboard 200 pur senza raggiungere i numeri che il successo planetario di Seven Nation Army porterà. Nella top 5 dei brani della band più ascoltati su Spotify ci sono Fell in Love with a Girl e We’re Going to Be Friends, la prima adrenalinica, la seconda il racconto di un’amicizia tra bambini, talmente delicata da suonare come una ninnananna, un ottimo esempio della dualità della musica del gruppo. Lo stesso contrasto potrebbe valere per I Think I Smell a Rat da un lato e Hotel Yorba dall’altro. Tra gli esperimenti più riusciti spiccano anche pezzi che, diversamente da quelli citati, fondono l’amore per la ballate acustiche e quello per la potenza del garage rock con un lavoro di sintesi inedito, su tutte Dead Leaves and the Dirty Ground, Now Mary e I’m Finding It Harder to Be a Gentleman. A riascoltarlo nel 2024 sembra assurdo che la band non abbia voluto arricchire il suono di brani tanto efficaci con alcuno strumento tranne chitarra e batteria. Che l’inizio di Offend in Every Way (“I’m patient of this plan, as humble as I can / I’ll wait another day before I turn away”) sia a questo proposito una piccola profezia?

1

Elephant

2003

Elephant è White Blood Cells con le hit. È difficile che un appassionato di musica rock non conosca i White Stripes e questo dipende principalmente da questo album, che in Gran Bretagna porta il duo in cima alla classifica dei dischi più venduti e negli Stati Uniti al terzo posto. Come spesso accade nella musica il successo è anche frutto della qualità e dell’ottima accoglienza di pubblico e critica del disco precedente, che ha comunque poco da invidiare a Elephant. Con riff come quello di Seven Nation Army, ma anche di Black Math, tra i migliori usciti dalla chitarra di White, l’album è definitivamente proiettato nel mainstream e tutte le anime della band trovano il loro spazio in un suono più pieno del solito, arricchito per la prima volta da un basso e da una seconda chitarra d’accompagnamento. L’equipaggiamento resta decisamente vintage e le 14 tracce, nel 2002, vengono registrate con strumentazione tecnica interamente antecedente al 1963: i White Stripes sono l’unica band orgogliosamente rétro del revival post punk di Strokes, Killers, Franz Ferdinand, Bloc Party, Arctic Monkeys, Libertines. Nello spirito di White Blood Cells, pezzoni come The Hardest Button to Button o Ball and Biscuit non oscurano pezzo minori come l’incredibile versione di White di I Just Don’t Know What to Do with Myself di Burt Bacharach e Hal David o la prima canzone cantata da Meg White, In the Cold, Cold Night, che dà all’album quel tocco di follia bambinesca (nel precedente disco affidato a Little Room) che distingue gli Stripes dai colleghi dell’epoca. Seven Nation Army è la canzone che alla band era sempre mancata, quella che ancora oggi insegnano quando stai imparando a suonare la chitarra e quella che chiunque abbia seguito i mondiali di calcio del 2006 ha cantato o sentito cantare a squarciagola nella forma dell’allora onnipresente po-popo-popo-po-po. Elephant è la vetta più alta raggiunta da Meg e Jack White e l’ultimo grande album dei White Stripes.