Tutti i dischi dei Rush, dal peggiore al migliore | Rolling Stone Italia
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Tutti i dischi dei Rush, dal peggiore al migliore

Meglio ‘Moving Pictures’, ‘2112’, ‘Hemispheres’ o ‘A Farewell to Kings’? Una cosa è certa: Lee, Lifeson e Peart sono stati l’eccezione del rock anni ’70-80 (e oltre), un trio favoloso in grado di spaziare dall’hard al prog al pop. La fantasia e la tecnica al potere

Tutti i dischi dei Rush, dal peggiore al migliore

I Rush (Alex Lifeson, Geddy Lee, Neil Peart) nel 1978

Foto: Paul Natkin/Getty Images

Poche storie, qui siamo davanti a una band che ha venduto oltre 40 milioni di album in tutto il mondo facendo esattamente come le pareva, senza mai calare le braghe innanzi a nulla e a nessuno. Prima che gruppi come Iron Maiden, Metallica e Slayer raggiungessero la popolarità mondiale facendo a meno del sostegno di radio e stampa mainstream, i Rush hanno preparato il terreno, senza farsi ammaliare dai gusti musicali dominanti bensì plasmando i vari generi al loro volere.

I Rush sono conosciuti dai più per la loro esaltante combinazione di hard rock e progressive, ma definirli antesignani del prog metal sarebbe riduttivo. Nel corso della carriera hanno abbracciato un’ampia varietà di stili: dalla new wave all’elettronica, dal pop al reggae e alla world music. Il tutto condito da una maestria strumentale che non ha pari, tra i virtuosismi di Alex Lifeson, la versatilità di Geddy Lee alla voce, al basso e alle tastiere e l’inconfondibile stile di Neil Peart alla batteria, quest’ultimo (soprannominato non a caso Professore) anche autore di testi che sono stati in grado di spaziare dalla fantascienza alla politica.

Nella loro corposa discografia si va dalla fase hard rock iniziale a quella prog, salvo poi approdare a quella tecnologica e via sperimentando. Trattandosi di album in alcuni casi assai diversi l’uno dall’altro non è affatto semplice stilare una classifica, ma ci si può provare, sperando di suscitare discussioni creative intorno al vasto e affascinante corpus di lavori della leggendaria band canadese.

19

Test for Echo

1996

Non c’è un disco brutto dei Rush, ma alcuni forse mancano di una direzione definita e risentono di un po’ di stanchezza creativa. Test for Echo è uno di quelli. Tuttavia, anche il disco peggiore dei Rush ha i suoi bei momenti, vedi Limbo e Resist, che fanno ricordare la band dei vecchi tempi. Il problema è che nulla colpisce a fondo e alla fine si dimentica Test for Echo in fretta.

18

Rush

1974

I Rush alla ricerca del loro suono si lasciano tentare dall’emulazione. Nell’unico album con il batterista John Rutsey pagano un enorme debito ai Led Zeppelin. Ma un poco di personalità trapela, vedi il classico Working Man, spesso presente nei live. Fortunatamente sapranno presto dire la loro in maniera più perentoria.

17

Vapor Trails

2002

È il lavoro che ha segnato il ritorno di Neil Peart dopo la morte della moglie e della figlia. Nessuno pensava che i Rush sarebbero sopravvissuti, ma è successo. Purtroppo, il risultato musicale non è del tutto all’altezza della fama del trio; molte canzoni (costruite su jam) non sono memorabili e anche il mix non rende giustizia. Detto ciò, è incredibile che ce l’abbiano fatta.

16

Hold Your Fire

1987

Non molo amato dai fan, merita una rivalutazione. C’è Time Stand Still, che è una delle migliori canzoni degli anni ’80. Il rock tecnologico che si fa più caldo e ancora più progressive, vedi la splendida Mission. Non ci sono molti altri brani memorabili, ma il risultato è superiore alla somma delle singole parti.

15

Roll the Bones

1991

Nel 1991 si fanno produrre da Rupert Hine, che aveva lavorato con Howard Jones e Tina Turner. Eppure la collaborazione funziona. Dopo l’abbuffata tecnologica, i sintetizzatori scivolano in secondo piano e la band ci dà dentro con i grandi ritornelli di Dreamline, Bravado e Ghost of a Chance. C’è voglia di dare una nuova svolta alla musica, ma quando includono un simil-rap nella title track si capisce che non è proprio pane per i loro denti.

14

Fly by Night

1975

Esce John Rutsey ed entra Neil Peart, il trio cerca di liberarsi dalle catene zeppeliniane, il suo si fa più progressivo. La band prova a fare quello che fanno Yes e compagnia, ma (per ora) senza tastiere e il risultato arriva, specie negli otto minuti di By-Tor and the Snow Dog, capostipite di tanta epica dei Rush. Ci sarà ancora strada da fare, ma Fly by Night fa ben presagire il futuro.

13

Presto

1989

I Rush cominciano ad allontanarsi dalla loro fase futuristica e si avvicinano a un certo power pop americano, si notino Chain Lightning e The Pass. War Paint ha un bel ritornello (la frase “boys and girls togheter” si fa cantare come una sorta di inno) in un album forse sottostimato, ma con parecchie frecce al suo arco.

12

Counterparts

1993

È conosciuto come il disco “grunge” dei canadesi, con vaghi echi di Soundgarden e Pearl Jam. In realtà sono sempre i Rush, che non si piegano ad altri stili ma sanno piegarli al loro volere. Riescono così a far conoscere la loro proposta alle nuove generazioni e a riposizionarsi negli anni ’90.

11

Caress of Steel

1975

Si calibra il suono per dar vita ai futuri capolavori. Il titolo sulle carezze d’acciaio è emblematico, c’è l’hard, ma anche un suono a tratti acustico, e c’è il primo tentativo di suite lunga un’intera facciata: i rivoli fantasy di The Fountain of Lamneth, un po’ slegati tra le varie parti ma anticipatori della 2112 che verrà. Poi i Rush sanno anche farsi dark nell’ossianica The Necromancer.

10

Snakes & Arrows

2007

I sintetizzatori scompaiono e si torna alle origini con un mood robusto e accattivante. I ritmi sono infuocati come non succedeva da tempo, i ritornelli spaccano (in particolare quelli di The Larger Bowl e The Way The Wind Blows) e l’abilità strumentale brilla ancora. Quando entra in gioco il riff di Armor and Sword sembra di essere di nuovo dentro Moving Pictures. Mica male.

9

Clockwork Angels

2012

È purtroppo l’ultimo album (a meno di miracoli), ma è una chiusura di carriera notevole. Un concept album con brani che sono un po’ la summa dei Rush di tutte le stagioni. I testi parlano dell’inevitabile viaggio verso la morte e oggi risultano ancora più toccanti, vista la prematura scomparsa di Peart.

8

Grace Under Pressure

1984

Dopo lo shock di Signals, i Rush continuano a darci dentro nella loro sbornia tecnologica. Molte sono le critiche (gli hard rocker proprio non amano tutto quell’armamentario tastieristico), ma loro se ne fregano. Anche se a volte paiono dei Police computerizzati, qui dentro ci sono Distant Early Warning, Red Sector A e Afterimage, tra le canzoni più belle che la band abbia registrato. Il tutto con l’angoscia della Guerra fredda, la paranoia, e l’alienazione distopica a fare da sfondo.

7

Power Windows

1985

Si spinge ancora più a fondo nella tecnologia, ormai il suono è una baraonda sintetica. Ma la personalità della band non ne risente, anzi, ogni cambiamento sembra perfettamente naturale nella loro evoluzione. In Power Windows ci sono la magniloquente Marathon e una hit single come Big Money; ovvero come unire alla perfezione creatività e commercialità.

6

Signals

1982

I fan sgranano gli occhi: come è possibile che le tastiere siano giunte a essere così preponderanti nel sound dei Rush? Ma è così, il razzo è partito verso le stelle e questo suono è ancora oggi di domani. Subdivisions e The Analog Kid hanno tempi dispari, vagiti pop, armamentari futuribili, tutto ciò che poteva far pensare ai Rush non come a un gruppo del 1982, ma del 2222.

5

Permanent Waves

1980

È sempre stato percepito come il fratello minore di Moving Pictures, ma ha momenti esaltanti, anzitutto l’exploit in classifica di The Spirit of Radio, poi i ritmi reggae che uno può chiedersi cosa c’entrino con i Rush, ma poi si capisce quanto magistralmente i tre abbiano saputo far loro tale influenza. I puristi prog sono accontentati con le suite di Jacob’s Ladder e Natural Science e addirittura fanno bella mostra di sé un paio di love songs: Entre nous e Different String.

4

2112

1976

Il colpaccio dei Rush che immaginano che in un mondo nel quale la musica è bandita un sovversivo, grazie a una chitarra, vuole riportare la fantasia al potere. Fallirà miseramente. 2112 è una suite (in realtà più un lato concept con le varie sezioni separate) che porta i Rush oltre i confini dell’universo, mai nessuno ha saputo sposare meglio hard rock, prog e fantascienza. In confronto il lato B pare poco significativo, ma il Mellotron di Tears è ancora oggi in grado di emozionare.

3

A Farewell to Kings

1977

La strumentazione si arricchisce con l’uso di Moog, bass pedal e diverse tipologie di percussioni, le chitarre fungono da orchestra. Gli 11 minuti di Xanadu sono regali, epici, indimenticabili, con saliscendi emozionali simili al poema di Coleridge che ha ispirato la canzone. Tutto l’album è un esempio di come rendere progressivo il suono senza rinunciare all’energia. Infine, arriva la prima parte di Cygnus X-1, un buco nero dal quale non fare più ritorno.

2

Hemispheres

1978

L’anno dopo A Farewell to Kings, le avventure dell’astronauta perso nella galassia del Cigno prosegue nell’entusiasmante composizione della prima facciata di Hemispheres. Il top di tutte le suite dei Rush con gli dei che combattono in nome della diatriba apollineo-dionisiaco, fino alla conquista dell’armonia. Il tutto tra tempi dispari, diorami acustici, chitarre metalliche, tastiere ai confini della galassia, una batteria che pare suonata da mille braccia, la voce di Geddy Lee che sa unire Jon Anderson e Robert Plant. E sul lato due c’è La Villa Strangiato, il momento più magnificamente circense dei Rush.

1

Moving Pictures

1981

È l’album di riferimento per tutti gli amanti dei canadesi; fresco ed emozionante, moderno, luminoso, unisce i Rush di tute le ere, anche quelle ancora da venire. Snocciola hit single (Tom Sawyer), saggi di bravura strumentale (YYZ), parabole oscure (Witch Hunt) e mini suite (The Camera Eye) nelle quali il rock progressivo si distacca da tutte le convenzioni barocche e viaggia sicuro verso il futuro.

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