Tutti i dischi dei Judas Priest, dal peggiore al migliore | Rolling Stone Italia
Difensori della fede metal

Tutti i dischi dei Judas Priest, dal peggiore al migliore

Il Vangelo secondo Halford (e non solo). Da ‘Rocka Rolla’ a ‘Invincible Shield’, dal 1974 al 2024, la classifica delle opere dei padri dell’heavy metal. La lezione che se ne trae: mai darli per finiti

Tutti i dischi dei Judas Priest, dal peggiore al migliore

I Judas Priest nel 1980

Foto: Paul Natkin/WireImage

Ok, in principio il Dio del metallo creò i Black Sabbath. Poi si accorse che nei dintorni di Birmingham il lavoro non era ancora concluso, anzi poteva essere persino perfezionato, con una delle più influenti band metal della storia: i Judas Priest. Quel verbo continua a fare seguaci, capace di resistere al passaggio del tempo, alle defezioni e agli acciacchi, e di arrivare a superare di fatto i 50 anni di carriera. Certo, alcuni dei loro adepti più celebri hanno ottenuto più successo di loro, hanno venduto molti più dischi e continuano a radunare folle oceaniche in ogni parte del mondo, ma nessuno potrà mai fregiarsi del titolo di padri assoluti dell’heavy metal, capaci per l’appunto di prendere le splendide intuizioni dei Black Sabbath per creare i canoni definitivi di uno dei generi musicali più popolari di sempre.

Poche settimane dopo l’uscita del nuovo album Invincible Shield e il passaggio in Italia per un concerto memorabile al Forum di Assago, abbiamo tentato l’impresa di metterne in fila i dischi, rigorosamente dal peggiore al migliore.

19

Demolition

2001

Se Jugulator aveva mostrato tutti i punti di forza del nuovo cantante Tim “Ripper” Owens, subentrato a Rob Halford pochi anni prima, unendoli a sonorità ancora vicine a quelle di Painkiller, Demolition ottiene in un battito di ciglia l’effetto contrario e distrugge quanto di buono mostrato quattro anni prima. L’avvicinamento a un certo suono alternative rende i Priest un gruppo anonimo e senza mordente, che non si salva nemmeno grazie alla perizia tecnica dei musicisti. Owens, poi, è sprovvisto di qualsiasi tipo di carisma. Qualcuno, ai tempi dell’uscita, scrisse che se ascoltate l’album al contrario, potete sentire Satana russare. Severo, ma giusto.

18

Redeemer of Souls

2014

Senza lo storico chitarrista K. K. Downing, che si era separato dal gruppo prima dell’Epitaph Tour, i Judas Priest ripensano all’idea del ritiro e tornano in studio col suo sostituto Richie Faulkner, classe 1980. Se dal vivo l’ingresso del giovane chitarrista è stato quasi indolore, in studio le cose vanno meno bene. L’attitudine è quella di sempre e alcuni brani sono assolutamente in linea col passato della band, ma nel complesso Redeemer of Souls appare più come un album di mestiere che come il frutto di una band con ancora molto da dire. Gli anni iniziano a farsi sentire e il rischio di scimmiottare i tempi che furono è alto, ma la storia insegna che dare per morti i Judas non è mai consigliabile.

17

Point of Entry

1981

Forti del successo straordinario di British Steel, la band torna in studio per sfruttare il momento di grazia e continuare un cammino che pare ormai inarrestabile. Forse proprio per questo, a fine lavoro, il gruppo si trova tra le mani solo una manciata di buoni brani e una serie di filler che penalizzano pesantemente il risultato finale. Più hard rock che metal, ma quello non sarebbe nemmeno un male: il disastro lo compiono brani come You Say Yes, una delle cose più indegne mai incise dal gruppo, e un ammorbidimento che invece di renderli mainstream rischia di fermarne la carriera.

16

Rocka Rolla

1974

Pur essendo acerbo, il debutto discografico dei Judas Priest mantiene un fascino immutato. Tra i suoi solchi è infatti possibile rintracciare tutte le influenze musicali di una band in cerca della propria strada. Il fatto di provenire dalle stesse zone dei Black Sabbath non poteva che influenzarne la poetica, che in più di un’occasione si avvicina infatti molto a quella di Ozzy e compagni. Il blues è quindi ancora la colonna portante del songwriting, anche se qua e là iniziano a comparire timidamente i primi segni di quel che verrà. Il meno sicuro delle proprie doti sembra ancora Rob Halford, forse più per un’innata timidezza che per mancanza di fiducia nelle proprie capacità. Molto amato dai fan.

15

Jugulator

1997

Fuori Rob Halford, che vuole espandere i suoi orizzonti musicali, e dentro Tim “Ripper” Owens, sconosciuto cantante di una cover band dei Judas reclutato dopo sette anni di silenzio discografico. La scelta potrebbe essere fatale, ma il gruppo vuole dimostrare di valere tantissimo anche senza il proprio iconico frontman e di poter replicare i fasti dell’osannato Painkiller. È proprio quel moto d’orgoglio, oltre all’ugola sensazionale di Owens, che rende un fallimento annunciato una felice sorpresa. Le sonorità in effetti ricordano ancora molto quelle classiche, anche se l’assenza di Halford e il suo fantasma si aggirano pericolosamente sul disco, facendogli inevitabilmente perdere forza.

14

Angel of Retribution

2005

Halford torna nella band dopo più di dieci anni e i Judas Priest giocano sul sicuro per l’attesissimo comeback. Ben prodotto e con una serie di brani di buon livello, Angel of Retribution è forse un po’ autoreferenziale e derivativo, ma di fatto dà ai fan ciò che volevano, senza grandi sorprese. I tempi di Painkiller sembrano finiti per sempre e lo stesso Halford non sembra poter più affidarsi alle urla di un tempo, eppure all’album non manca nulla, dalla splendida dichiarazione d’intenti Judas Rising fino alla follia finale di Lochness, passando per la toccante ballad Angel.

13

Nostradamus

2008

Ormai la band non ha più niente da dimostrare, tanto da potersi permettere di pubblicare il suo album più ambizioso e fuori dagli schemi. A quanto pare, il motore di questo concept basato sulla vita del più celebre veggente della storia è Rob Halford, che ha ormai ripreso completamente in mano le redini del gruppo. È un’opera mastodontica e temeraria, che abbandona quasi completamente gli stilemi del passato per seguire sentieri inediti, vicini al rock sinfonico e segnati dal massiccio utilizzo delle tastiere. In Pestilence and Plague Halford si esibisce addirittura in un ritornello in italiano. Un lavoro non facile, ma che col tempo è riuscito a conquistare anche i fan più oltranzisti.

12

Invincible Shield

2024

Come era successo per Screaming for Vengeance e il successivo Defenders of the Faith, Invincible Shield appare come il “fratello” del disco precedente, in questo caso Firepower. Le prime tre tracce lasciano di sasso: sentire Halford a quasi 74 anni urlare come nei primi anni ’90, sorretto da una band che pare formata da ventenni incazzati scalda il cuore e conferma che da band con questa storia è lecito aspettarsi grandi cose anche sul finire di carriera. Qualche brano meno spinto a metà dell’opera aiuta l’ascoltatore a prendere fiato, ma persino le bonus track dell’edizione deluxe confermano lo stato di grazia del gruppo.

11

Ram It Down

1988

Ram It Down è il classico album di transizione. I brani che lo compongono provengono in gran parte dalle sessioni di Turbo, che doveva essere un doppio album. Nel complesso, un po’ come accaduto con Screaming for Vengeance, è evidente il tentativo della band di tornare sui propri passi, offrendo ai vecchi fan ciò che avevano sempre chiesto loro: del sano e tamarro heavy metal tutto borchie, riff taglienti e grida belluine. Non a caso il disco si apre con un urlo agghiacciante di Halford, che ci tiene a mettere subito in chiaro le cose. Album quasi dimenticato da band e fan, Ram It Down contiene i semi da cui poco dopo nascerà lo straordinario Painkiller.

10

Turbo

1986

Il disco controverso dei Judas Priest per eccellenza. Come molte band, metal o meno, la metà degli anni ’80 significa sintetizzatori. La new wave ha invaso da qualche anno le classifiche di mezzo mondo e anche i Judas tentano di ammorbidire il proprio sound con l’uso massiccio di tastiere. L’entusiasmo porta la band a progettare un doppio album, ma l’operazione non convince l’etichetta, che opta per uno smussamento delle sonorità e per un prodotto più vendibile. Il pubblico reagisce malissimo, soprattutto perché gli ultimi due album hanno toccato vette di potenza inaudita. Eppure, i pezzi sono validi, come confermato dal tour promozionale e dalla costante rivalutazione dell’opera.

9

Sin After Sin

1977

Il processo di maturazione del gruppo procede spedito, da qui fino al 1982 praticamente al ritmo di un disco all’anno. Dopo il successo di Sad Wings of Destiny la band tenta il grande salto affidando la produzione all’ex Deep Purple Roger Glover. Il risultato è buono, ma paradossalmente penalizzato dal lavoro di Glover, che forse non ha ben compreso la direzione scelta dalla band. In ogni caso, i pezzi ci sono, anche se è ancora evidente una certa inesperienza, che conduce a una via di mezzo tra sonorità più accessibili (vedi la straziante Here Come the Tears) e violenza pura, come in Sinner e Dissident Aggressor.

8

Firepower

2018

Ci risiamo. Dopo il deludente Redeemer of Souls e il semi-abbandono di Glenn Tipton colpito dal Parkinson, in pochi credono che i Judas Priest possano avere ancora qualcosa da dire. Un po’ come accaduto alla fine degli anni ’80, ma con altri trent’anni sulle spalle ad aggravarne la situazione. Invece, come ogni volta in cui sono stati dati per spacciati, i Priest trovano la forza per registrare uno dei loro album migliori. Già la copertina che rimanda a Screaming for Vengeance è un chiaro messaggio a tutti: se devono sparire, lo faranno lasciando agli apostoli qualcosa da ricordare a lungo. Impossibile fare paragoni tra ere tanto differenti, ma Firepower potrebbe stare tranquillamente nella top 5 del gruppo senza obiezione alcuna. Halford non cantava così da decenni, Tipton è il solito maestro e Faulkner è ormai un membro fondamentale. Inossidabili.

7

Stained Class

1978

Nel 1978 i Judas pubblicano addirittura due album, con il successivo tour che culminerà nello splendido live Unleashed in the East. Stained Class è un nuovo passo avanti verso la definizione riconosciuta universalmente di musica pesante, con la band che spinge ulteriormente sull’acceleratore come dimostra perfettamente Exciter, per anni un must assoluto dei concerti della band. Saints in Hell e Beyond the Realms of Death sono altre due pietre miliari, ma a segnare il disco sarà la cover di Better by You, Better than Me (Spooky Tooth), che anni dopo porterà la band in tribunale con l’accusa di aver istigato al suicidio due adolescenti americani.

6

Killing Machine

1978

Dove ha inizio l’immaginario metal fatto di vestiti di pelle, borchie e motociclette? Da qui. Un outfit mutuato quasi completamente da quello del BDSM e del fetish tanto cari a Rob Halford, ma che in un attimo si trasforma in qualcosa capace di unire tutti i metalheads della terra. La trasformazione definitiva della band è ora compiuta. In soli quattro anni i Judas sono riusciti a passare da un blues quasi innocuo e poco originale ad essere i veri pionieri di un genere che popolerà le classifiche di tutto il mondo. Lo fanno anche passando per Top of the Pops, che consente loro di portare il Verbo a un pubblico mai raggiunto in precedenza. Hell Bent for Leather diventa l’inno di ogni adepto del gruppo.

5

Defenders of the Faith

1984

Prima ancora che i Manowar si auto-proclamassero difensori della fede e del vero metal, i Judas avevano già ampiamente messo il concetto in musica e intitolato così il loro nono album. Ormai vere star della musica dura e considerati padri assoluti del genere da tutte le nuove leve, i Priest confermano quanto mostrato con il precedente Screaming for Vengeance, con l’aggiunta di una maggiore orecchiabilità e qualche coro da stadio. È il caso delle super catchy Some Heads Are Gonna Roll, Rock Hard, Ride Free e Heavy Duty.

4

Screaming for Vengeance

1982

La vendetta evocata nel titolo si riferisce idealmente a chi ha criticato la band dopo il fiacco Point of Entry. I Judas rinascono per la prima volta dalle proprie ceneri con un album quasi perfetto, che li pone nuovamente in vetta all’universo metal, nell’anno in cui gli Iron Maiden sfornano il classico The Number of the Beast. I Judas Priest, però, non temono niente e nessuno: il binomio The Hellion/Electric Eye e You’ve Got Another Thing Coming da solo vale la spesa, così come la conclusiva Devil’s Child. Un’altra parte imprescindibile del vangelo del metallo.

3

British Steel

1980

Conclusione ideale della prima parte di carriera del gruppo, che riesce a racchiudere il meglio delle proprie sonorità anni ’70 e allo stesso tempo si pone come punta di diamante della New Wave of British Heavy Metal. I Priest vogliono apparire pericolosi e anche se oggi alcune trovate come il video di Breaking the Law possono far sorridere, ai tempi l’effetto era assicurato. Su tutto comunque spicca il songwriting, più asciutto e meno elaborato, ma ormai da band di livello mondiale, che porterà a singoli come la citata Breaking the Law e l’inno alla Kiss Living After Midnight. Puro acciaio britannico.

2

Sad Wings of Destiny

1976

Il secondo album è sempre il più difficile? Tutte cazzate. Come per molte band dell’epoca (vedi Led Zeppelin e Queen), la seconda prova in studio dei Judas ne svela le caratteristiche che ne accompagneranno la carriera. In Sad Wings of Destiny si trova infatti già tutto quello che la band svilupperà negli anni successivi: ritmi serratissimi, duelli chitarristici epici e un cantante capace di alzare l’asticella a livelli irraggiungibili per chiunque. In soli due anni dal debutto, Halford e compagni maturano a tal punto da sembrare veterani. Pezzi come Victim of Changes, Dreamer Deceiver e The Ripper non si erano mai sentiti, sia per la struttura musicale, sia per i continui cambi di registro del cantante. Nulla sarà più come prima.

1

Painkiller

1990

Esiste l’album metal perfetto? Sì, è questo. Nessuno si sarebbe mai aspettato che una band di quarantenni, dati ormai per bolliti, potesse tirare fuori un disco del genere. Invece, proprio poco tempo prima di implodere, il gruppo fa tesoro della violenza già mostrata in parte nel precedente Ram It Down, portandola a livelli mai raggiunti prima. In Painkiller non c’è nulla che sia sbagliato, nulla che sia fuori posto, nulla che non sia di una violenza inaudita. Halford tira fuori la più grande prestazione vocale della sua vita, così come il gruppo, mai così solido dopo l’arrivo alla batteria di Scott Travis. Da segnalare, oltre alla title track, uno dei brani metal più iconici di sempre, la potenza di Hell Patrol e l’epicità di Touch of Evil.

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