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Tutti i dischi dei Dire Straits, dal peggiore al migliore

Riascoltare i film sonori della band di Mark Knopfler per decidere se è meglio il debutto, la fase centrale di ‘Making Movies’ e ‘Love Over Gold’ o il rock digitale di ‘Brothers in Arms’

Foto: Gie Knaeps/Getty Images

In un mondo di Clash e ABBA, pensarsi Dylan e J.J. Cale non era da tutti. Farlo come l’ha fatto Mark Knopfler era da pochi. Anzi, poteva farlo solo lui. Provenienti da un’Inghilterra marginale con canzoni che sapevano d’antico già nel 1978, mentre ben altre eccitanti novità scuotevano la musica popolare, nel giro di pochi anni i Dire Straits hanno messo a punto e imposto una variante sofisticata, romantica e personale del classic rock in cui convergevano i talenti assoluti di Knopfler come chitarrista e narratore che trasforma in musica quel che vede attorno a sé, prima ancora di cantare di sé.

Idolatrati ma schivi, di gran successo eppure refrattari alle regole del music business, moderati in tutto, per niente fighi, i Dire Straits sono diventati il simbolo d’un certo rock levigato, curato nei minimi dettagli, in cui lo stile chitarristico, per quando mutuato dal country, da J.J. Cale, da Eric Clapton e da altri, è riconoscibile dopo poche note, segno inequivocabile di grandezza. Il loro rock piccolo borghese e ben poco rivoluzionario, quasi nerd, da anti-eroi della musica chitarristica, probabilmente dice poco al pubblico di oggi. A metà anni ’80 vendevano più degli U2, nel 2023 hanno meno ascoltatori in streaming dei Måneskin. Ma se il talento musicale conta ancora qualcosa, magari non tutto ma qualcosa sì, il loro repertorio ha un valore duraturo.

Riascoltare i loro sei dischi dopo tanti anni fa uno strano effetto. Si riscopre la forza dei pezzi senza tempo e la debolezza di hit che oggi suonano piatte. Si ripete spesso, non sempre, uno schema in questi lavori usciti in buona parte nell’epoca del vinile e delle musicassette: una prima facciata fortissima con una, due canzoni da antologia e una seconda facciata più debole. Si nota anche la frattura fra due, se non tre periodi: la coppia dei primi album gemelli, l’espansione del suono nel terzo e nel quarto, l’incontro col pop di massa e la digitalizzazione negli ultimi due. Con Knopfler sempre al centro, per alcuni anni i Dire Straits sono stati una vera band pur con qualche cambiamento di formazione, ma nel finale sono diventati un brand, lo strumento multiforme attraverso cui si esprimeva il chitarrista. Secondo il bassista John Illsley, l’unico della formazione originale rimasto al fianco del leader, i Dire Straits avevano dentro di sé, come si usa dire, un altro album. Penso invece che Knopfler si sia fermato al momento giusto, per poi continuare da solo.

È probabile che questa classifica non sia come ve l’aspettate, del resto chiedendo a cinque appassionati di mettere in fila i dischi del gruppo ci si ritrova con cinque classifiche diverse. Per alcuni il meglio è rappresentato da Making Movies, per altri il debutto è inarrivabile, qualcuno apprezza Love Over Gold, altri sono sedotti da Brothers in Arms. Il criterio di questa classifica s’è manifestato riascoltando i sei album, considerando lo stile, la personalità, la forza delle composizioni. E finendo per preferire, lo si sarà forse capito, i dischi in cui si sente una band con un suo linguaggio e un suo mondo agli album di largo consumo, belli e importanti, ma non indispensabili. Questo mi sono domandato: se qualcuno mi chiedesse chi sono stati i Dire Straits, quali dischi gli farei ascoltare per primi?

6

On Every Street

1991

Mark Knopfler rimette assieme il gruppo per un ultimo album, seguito da un tour ancora più lungo di quello dell’85-86 che questa volta tocca anche l’Italia. Da anni ormai della formazione originale ci sono solo il cantante/chitarrista e il bassista John Illsley. Gli altri girano attorno al leader che chiama session men d’alto livello per ottenere il risultato che desidera in un ogni canzone. E a riascoltare On Every Street 30 e passa anni dopo, si capisce che Knopfler non voleva una sola cosa. Da una parte c’è la volontà di dare al pubblico quel che vuole, dall’altra la volontà mettersi alle spalle il circo dei Dire Straits iscrivendosi nella benemerita lista degli americani immaginari. E dunque l’ultimo (in tutti i sensi) disco della band è in parte il gemello diverso di Brothers in Arms, tant’è che alcune canzoni sembrano sequel deboli di quelle del 1985: Heavy Fuel di Money for Nothing, Calling Elvis di So Far Away, The Bug di Walk of Life. E in parte no, perché nel momento in cui il successo è vasto, il tono della musica si fa particolarmente riflessivo, le venature americane sono più marcate, le atmosfere folk deluxe oppure misteriosamente sinuose, un po’ come nei successivi album solisti di Knopfler. Il suono ha la definizione digitale che all’epoca era tanto amata quanto detestata: forse esagero, ma nel 2023 ha qualcosa di innaturale.

5

Communiqué

1979

I Dire Straits del ’79 sono quelli del ’78 senza l’effetto sorpresa, il brio, lo scintillio, la fame. E senza composizioni memorabili, forse perché buona parte del disco è stata scritta in fretta. O forse no, giacché Knopfler lavorava così nei primi anni: portava in giro Communiqué e già suonava i pezzi di Making Movies, faceva il tour di Making Movies e suonava Telegraph Road. Communiqué resta un bel disco e non mancano pezzi buoni, ma non c’è una Sultans of Swing e la band sembra un po’ più seduta. Resteranno nel canone della band Once Upon a Time in the West, la prima grande epica collettiva di Knopfler, e nel gusto del pubblico il singolo Lady Writer, che su Spotify è una delle canzoni del gruppo più amate (più di Tunnel of Love, per intenderci). Se il debutto era prodotto da Muff Winwood, fratello-di, su questo mettono le mani Jerry Wexler e Barry Beckett con l’idea (lo dice il bassista John Illsley) di replicare il suono dell’album uscito pochi mesi prima. La copertina è una pessima cartolina da grande magazzino, forse per mancanza di gusto, forse perché se ne fregavano dell’estetica. Del resto, pure scattare le foto promozionali era una rogna per i Dire Straits.

4

Brothers in Arms

1985

I primi quattro album sono una cosa, Brothers in Arms è un’altra. Nel bene e nel male. È il best seller dei Dire Straits, nonché uno dei dischi rock più venduti della storia (quando i dischi si vendevano davvero). Si stima siano state acquistate 30 milioni di copie fisiche, quando oggi per 1000 copie fanno un comunicato stampa. Il live Alchemy ha chiuso un’era, nel 1985 se ne apre un’altra in cui l’identità sonora dei dischi non è più univoca, ma varia da canzone a canzone: il rock’n’roll vecchio stile, l’hard rock in chiave pop, la ballata col sax, la carezza folk, tutto fatto meravigliosamente. Il pubblico cresce a dismisura, loro fanno un tour mondiale di 248 date (l’Italia è esclusa dopo che il gruppo è stato fregato più volte e ha assistito a immani casini), ma su disco si stenta a riconoscere i Dire Straits e il lato B ha composizioni decisamente meno forti del lato A (ma anche i pezzi deboli hanno sempre qualcosa d’interessante: succede quando sei un musicista vero). Il punto è che prima sentivi una band, anche coi suoi eventuali difetti, ora le canzoni sono il veicolo del songwriting di Knopfler, con più successo e meno carattere di prima. Brothers in Arms è anche il disco che spalanca le porte del mondo digitale: per come viene registrato e per come viene commercializzato, primo compact disc a superare il milione di copie vendute, con la band che diventa testimonial del supporto. Dei tizi partiti da Deptford e del loro essere operai della musica non c’è più traccia.

3

Dire Straits

1978

Venuti fuori dal nulla dalla periferia sudorientale di Londra con una canzone su un gruppo di jazzisti dopolavoristi ma appassionatissimi, nel 1978 i Dire Straits erano un’anomalia, una band fuori luogo proprio come i Sultans of Swing di cui cantavano. Lo erano nel debutto per il gusto che era rétro già in quegli anni, per il modo di suonare la chitarra di Mark Knopfler mutuato dal country eppure decisamente rock, per lo stile narrativo dei testi che descrivono un mondo piccolo e in rovina, una cartolina in bianco e nero di un angolo di mondo in crisi, l’Inghilterra di quegli anni lì, gli amanti che si baciano in anfratti scuri, gli artisti pretenziosi da una parte e la classe operaia dall’altra, la sparizione dei leader e l’amore che ti butta giù, la strada. È un debutto brillante di cui rimasti il sound, il singolo Sultans of Swing e il suo assolo memorabile, l’atto di nascita di un guitar hero fatto a modo suo. Riascoltato 45 anni dopo, senza l’effetto sorpresa del modo di suonare di Knopfler, si notano più nettamente le sfumature musicali cupe, da primitivismo urbano.

2

Love Over Gold

1982

Il processo di articolazione musicale e narrativa di Making Movies si fa radicale nel quarto album Love Over Gold, il primo prodotto da Mark Knopfler che vi sperimenta la sua idea di suono raffinato e ad alta risoluzione. È il lavoro più sofisticato del gruppo, segnato dalla presenza di Telegraph Road, l’epica americana definitiva raccontata dall’inglese nell’arco di 14 minuti. È un racconto lungo, un cortometraggio sonoro, una specie di suite in cui Mark Knopfler si lascia alle spalle la forma-canzone delle hit dell’80 per lanciarsi in una storia collettiva e personale piena di svolte, accelerazioni e decelerazioni, stop-and-go, assoli che “parlano”. Il singolo assurdo è Private Investigations, sette minuti d’arte sonora noir in cui l’aria attorno alle note conta quanto le parti musicali. Un po’ come in Making Movies, le composizioni della seconda facciata non sono all’altezza di quelle delle prima, ma sono comunque un gran bel film, con un pizzico di ironia che non guasta in un singolo chiamato Industrial Disease sulla decadenza economica e la follia della società del tempo. Non sempre si trova Love Over Gold fra i due, tre dischi più amati dei Dire Straits. Io ci sento invece il punto più alto della ricerca di Knopfler, oltre cui difficilmente poteva andare. Allo stesso tempo, sento che sono ancora i Dire Straits, quelli di quattro anni prima. Dal 1985 in poi non sarà più così.

1

Making Movies

1980

I Dire Straits crescono, le sale in cui si esibiscono s’allargano, il suono diventa più poderoso, stratificato, più rock e americano, curato con Jimmy Iovine. Ma anche paradossalmente pop, largo, per tutti, con un’importanza crescente data alle parti di tastiera e pianoforte (Roy Bittan, dalla E Street Band di Bruce Springsteen). L’epica del quotidiano e delle relazioni diventa epica musicale, il romanticismo si fa più smaccato, le parti strumentali sono sempre più narrative, i pezzi si dilatano fino a durare sei, sette, otto minuti. Certe canzoni hanno un pathos inedito, sollecitano forse per la prima volta un’ampia partecipazione emotiva del pubblico. Quelle da antologia sono due, Tunnel of Love e Romeo and Juliet. Il resto è godibilissimo, ma inferiore, come del resto accade in tutti i dischi della band. I Dire Straits diventano gli anti-eroi dei rock dall’approccio no-bullshit e no-nonsense, Knopfler uno dei simboli di chi fa musica per la musica. Tra le canzoni nate dal suo talento d’osservatore c’è Les Boys, ritrattino di un gruppo di drag queen inglesi “glad to be gay” che ha visto all’opera a Monaco di Baviera, con tanto di cappelli delle SS, una cosa oggi inimmaginabile. Sono film per le orecchie, parafrasando l’idea base di Skateaway. Il successo è vasto e meritato per l’impatto delle canzoni e forse perché Knopfler, solitamente narratore distaccato, getta sui suoi personaggi uno sguardo compassionevole. Riascoltato oggi, sembra la cosa migliore fatta dai Dire Straits.

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