Tutti i dischi degli Smashing Pumpkins, dal peggiore al migliore | Rolling Stone Italia
Il circo delle meraviglie

Tutti i dischi degli Smashing Pumpkins, dal peggiore al migliore

Dai disconi degli anni ’90 agli album inutilmente lunghi del post reunion, la classifica delle opere ideate da Billy Corgan e dal suo ego sconfinato

Tutti i dischi degli Smashing Pumpkins, dal peggiore al migliore

Gli Smashing Pumpkins nel 1991

Foto: Paul Natkin/WireImage

Gli Smashing Pumpkins, strani, fragili e megalomani, sono sempre vivi e girano il mondo in tour internazionali piuttosto attesi, forti anche di una parziale reunion della formazione originale con James Iha e Jimmy Chamberlin che fanno da cardinali alla beatificazione di san Billy Corgan. L’unica lasciata fuori è D’Arcy, la bassista bionda che era un po’ il simbolo della band nei ’90. Con lei se n’è andato anche il periodo dei capolavori e nonostante la discografia post primo scioglimento del gruppo sia molto lunga, con album infiniti sempre più billycorgancentrici, non hanno più raggiunto l’importanza stilistica fatta di singoloni cattivi come Bullet with Butterflly Wings, ballate drammatiche come Disarm, video in heavy rotation su MTV come 1979 e ammiccamenti sexy decadenti come Adore. Muri di suono che spettinerebbero anche il calvo Corgan, grondate di miele che neanche i Cure di Disintegration.

Tre ragazzi e una ragazza piuttosto male assortiti, che non hanno un figo atomico come frontman come quasi tutte le altre band di quel periodo e che sembrano timidi oltre ogni misura, che ad oggi hanno pubblicato 12 album in studio e una mezza dozzina di raccolte con inediti, che hanno cambiato un milione di formazioni per poi tornare ad essere quasi quelli del primo giorno, che hanno sempre lottato con l’ego spropositato di Billy Corgan, croce e delizia della band, unico responsabile del nome, delle canzoni e della riuscita o del fallimento dei dischi. Qui sotto li trovate tutti, dai disastri alle pietre miliari.

13

Cyr

2020

Smashing Pumpkins Cyr

L’anno del Covid non è stato proprio clemente con gli Smashing Pumpkins riuniti, quantomeno dal punto di vista dell’ispirazione. Corgan, James Iha e James Chamberlin si ritrovano in studio per il secondo volume di Shiny and Oh So Bright, eppure la svolta synth pop coi coretti di melassa non funziona per niente e sembra più un esercizio di stile che un album, con l’aggravante che contiene 20 canzoni e che arrivare fino in fondo in un’unica sessione è una gara di resistenza. Questa cosa della lunghezza dei dischi è un fattore determinante per mettersi al tavolo con Billy Corgan e pregarlo di scegliere meglio, che la vita è una sola e spenderla con lo skip è un incubo. Non è un caso che anche l’album successivo soffra del terrificante problema di logorrea creativa del quasi geniale Corgan.

12

Atum – A Rock Opera in Three Acts

2023

Gli anni ’20 del Duemila saranno ricordati per le canzoni velocizzate su TikTok e per il calo drastico dell’attenzione da parte degli ascoltatori. Billy Corgan lo sa bene, ma se ne fotte allegramente e pubblica un’opera rock in tre atti, dalla durata di più di due ore per 33 canzoni, suonate con la formazione originale (tranne D’Arcy) più Jeff Schroeder. Uno potrebbe pensare: dai, se Corgan se la sente così tanto chissà che non sia un nuovo Mellon Collie, un capolavoro aggiornato di cui parleremo anche tra trent’anni. Proprio no. Il problema del buon Billy – di nuovo – è la volontà di pubblicare tutto ciò che gli viene in mente e la ripugnanza verso ogni forma di collaborazione paritaria. In questo polpettone che spesso tocca vette di raro imbarazzo, la mancanza di un produttore che lo fermi quando esagera si sente eccome. Forse di 33 canzoni, 8-9 avrebbero composto un disco interessante, così invece anche i fan più sfegatati vorrebbero rivolgersi altrove.

11

Shiny and Oh So Bright Vol. 1

2018

La tanto pubblicizzata reunion a tre della formazione originale degli Smashing Pumpkins che culmina con un tour mondiale fortunatissimo è accompagnata da un nuovo album prodotto addirittura da sua maestà Rick Rubin. Già il fatto che sia di sole otto tracce fa ben sperare, visto quanto Corgan soffre di elefantiasi dell’ego; eppure le emozioni che i concerti – piuttosto commoventi – potevano promettere, non vengono mantenute quasi per niente. Qualche canzone carina, altre innocue non reggono il confronto col materiale di 20 o 30 anni prima. Le cose si muovono un po’ di più quando Corgan decide di scrivere con gli altri membri della band, ma sappiamo bene quanto lui odia farlo. E non è registrando una canzone che somiglia a 1979 meno ispirata che puoi salvarti dalla mediocrità. Hype alto per un disco dimenticabile.

10

Zeitgeist

2007

Quando uscì, erano passati sette anni da Machina, che martella i chiodi sulla bara dei primi, veri Smashing Pumpkins. Quando la band si riformò, era costituita da Billy Corgan, Jeff Schroeder, Ginger Reyes e da Jimmy Chamberlin, che picchia come un indemoniato e mostra quanto del suono tipico degli SP sia dovuto alla sua batteria. Qui la risurrezione porta bene a Corgan che mette a segno diversi pezzi molto potenti, dai suoni aggiornati al nuovo millennio, che pestano e scuotono. Non un capolavoro, ma un disco a cui dare una nuova chance ancora oggi, perché quando uscì fu a dir poco massacrato dalla critica che lo ritenne inutile. Ma si sa, le mode sono tanto influenti quanto passeggere e oggi un disco così trova una sua dimensione nella capsula retromaniaca della MTV Generation.

9

Oceania

2012

Possibile che un album degli Smashing Pumpkins del 2012, con una formazione del tutto diversa dall’originale, possa suonare così simile ai dischi dell’età d’oro degli anni ’90? Abbastanza, e se la cosa pareva aver dato fastidio a un sacco di critici, oggi paradossalmente Oceania si fa ascoltare con un certo piacere, nonostante la line-up sia composta da Corgan, Jeff Schroeder, Nicole Fiorentino e Mike Byrne. Quando uscì nel mezzo degli anni ’10, ci fu ben poca gente disposta ad ascoltare 13 nuove canzoni degli SP, tra ballate e pseudo singoloni fuori tempo massimo, teenage grunge, suite infinite ed elettronica annacquata. Eppure oggi è uno dei dischi da rivalutare, con le idee più a fuoco di un periodo in cui la retromania per gli anni ’90 non era ancora pervenuta. La copertina, invece, è di rara bruttezza e il disco meriterebbe un repack con nuova grafica.

8

Machina/The Machines of God

2000

Gli Smashing Pumpkins nella formazione originale entrano nel nuovo millennio con l’album che segna il ritorno alla chitarra elettrica che pesta, ma il disco patisce un po’ la mancanza di ispirazione di alcune canzoni e la direzione confusa. Sembra che la band abbia già dato al mondo i suoi capolavori e che non si adatti benissimo alle nuove mode, che in quel periodo riguardavano soprattutto crossover e nu metal. Resta la testimonianza a tratti deliziosa, a tratti noiosa della fine di una band importantissima che di lì a poco si sarebbe sciolta. Intendiamoci: Machina non è un brutto disco, ma dopo le invenzioni miracolose durante gli anni ’90, il circo delle meraviglie sembra aver chiuso i battenti. Resta qualche singolo che ancora oggi funziona molto bene live.

7

Machina II/The Friend and the Enemies of Modern Music

2000

Siamo piuttosto abituati alle decisioni poco convenzionali di Billy Corgan, ma quando decise di regalare letteralmente un nuovo album con outtake e canzoni inedite tratte dal concept di Machina spiazzò i fan e i colleghi (pensate alla battaglia dei Metallica contro Napster). Grazie alla condivisione in rete questo disco girò e fece notizia più del precedente e, a onor del vero, contiene tracce molto più spinte e vitali del primo Machina. A ripensarci oggi sembra facile perché siamo abituati a fruire della musica in modo quasi gratuito, ma al tempo la discografia era ancora in piedi e la mossa di far uscire un album in free download fu rivoluzionaria.

6

Monuments to an Elegy

2014

Probabilmente, questo è il disco più bello degli Smashing Pumpkins anni 2000 e rotti: le sperimentazioni di Billy Corgan, che detiene il nome della band col solo Jeff Schroeder e con un quintale di turnisti, vanno quasi tutte a segno ben più delle precedenti (e, ahinoi, successive) fatiche. Alla batteria c’è Tommy Lee dei Mötley Crüe che cambia del tutto il suono tipico della band, ma aggiunge una semplicità e un’energia nuova che, non si capisce bene come o perché, riesce a interagire perfettamente con il suono della band e aggiunge nuove sfumature. Anche quando le canzoni diventano elettroniche riescono a sorprendere come poche altre cose che il gruppo ha fatto negli ultimi anni. In qualche modo è l’album indie rock degli Smashing Pumpkins, che mostrano di avere ancora qualcosa da dire anche in anni non proprio semplici per la musica che viene dai ’90.

5

Pisces Iscariot

1994

Eravamo indecisi se mettere o meno in classifica una raccolta di B-side, ma con Pisces Iscariot vale sempre la pena, perché è un disco che coccola e spara elettricità, in cui trovano spazio cover dolcissime e ballate sussurrate, ma anche sferzate soniche e brani lo-fi che lo rendono ancora oggi molto godibile. Ai tempi, il suo successo fu una sorpresa perché nessuno avrebbe puntato su una raccolta di canzoni minori o comunque non scelte per gli album ufficiali, oggi invece rappresenta la testimonianza di una band in stato di grazia, nel periodo d’oro tra i suoi due capolavori.

4

Gish

1991

Come per altre band del periodo (a parte Pearl Jam e pochi altri), l’album di debutto non è mai quello più a fuoco. Gish però rappresenta perfettamente gli Smashing Pumpkins che saranno: duro, dolce, psichedelico, risente delle influenze new wave come del prog rock, più vicino ai Jane’s Addiction che ai Nirvana, una pietra grezza dalle mille sfaccettature, colorata e strana come i suoi componenti. Il bello vero sarebbe ancora dovuto arrivare, ma a riascoltarlo oggi mette un sacco di tenerezza. Sarebbe stato bello sentire più canzoni cantate da D’Arcy anche negli album successivi, la varietà vocale avrebbe di sicuro giovato agli Smashing Pumpkins visto il glorioso lamento felino nelle corde del capomastro Billy Corgan, che alla lunga può dare fastidio.

3

Adore

1998

Dopo i due capolavori di cui parleremo più avanti, gli Smashing Pumpkins perdono Jimmy Chamberlin, il batterista, per storie di dipendenze varie. Rimasti in tre, creano un nuovo sound che non ha più niente a che vedere con il muro di suono a cui ci avevano abituati. Questo cambiamento forzato però fa bene alla band, che inventa un calderone stregato di gotico lynchano, elettronico, sexy e super depressivo, che fa ballare e riempie i cuori oscuri in una rinascita estetica e musicale che dura il tempo di un album, poi tutto inizia inesorabilmente a crollare. Le atmosfere di Adore erano talmente fuori dal tempo nei distorti anni ’90 da essere un perfetto esempio di antiquariato moderno ancora oggi, nero e pieno di glitter.

2

Mellon Collie and the Infinite Sadness

1995

Non è facile scansare la pioggia virtuale di ortaggi che arriva dalla decisione di non mettere come primo in classifica il doppio, meraviglioso album che ha reso gli abrasivi 90s un po’ più dolci, ma il paradosso sta proprio lì: se nella storia del decennio del grunge Mellon Collie ha una sua posizione assolutamente prestigiosa, che descrive benissimo il senso di smarrimento di una generazione allo sbando (da poco privata dello spirito guida Kurt Cobain), all’interno della discografia degli Smashing Pumpkins non è il capolavoro assoluto a causa del tasto skip. Mellon Collie ha al suo interno tantissime canzoni iconiche, varie, dai monoliti distorti alle ballate con gli archi e riesce a farti piangere ma anche a spaccarti a merda dentro il pogo, a gridare in cameretta e tutto il resto dei cliché del giovane alternativo. Purtroppo però, il doppio disco mostra anche i sintomi di una dittatura corganiana che rende tutto ampolloso, galattico, faraonico. In Mellon Collie ci sono alcune canzoni che oggi non riusciamo più ad ascoltare, che vengono skippate avanti per arrivare a quelle bellissime. Ecco l’unico motivo per il quale l’album più famoso degli Smashing Pumpkins non è al primo posto. Resta comunque un disco che ha cambiato la vita di un sacco di gente, anche la nostra.

1

Siamese Dream

1993

Cercavate il disco perfetto degli Smashing Pumpkins? Lo avete trovato. Siamo agli inizi dei ’90, la band è formata dal padre padrone Billy Corgan con la faccia da bambino e la voce da felino chiuso dentro la lavatrice, insieme all’esotico James Iha, alla bionda D’Arcy e l’anziano (per modo di dire) Jimmy Chamberlin. Dopo un disco di presentazione, gli SP vanno subito al sodo con un album di una freschezza assurda, che mischia il muro di chitarre in stile My Bloody Valentine col sentimentalismo dei Cure, le istanze della post adolescenza disagiata, la rabbia del metal urlata con la voce di un ragazzino impaurito, gli assoli alla Dinosaur Jr. che si fanno ancora più psichedelici. Sono hipster prima di tutti, non c’entrano niente col grunge di Seattle, eppure vengono associati col movimento di Nirvana e Pearl Jam pur essendo totalmente diversi da quei suoni e da quelle intenzioni. Alla produzione c’è Butch Vig (sì, quello di Nevermind), che affina il suono creando le chitarre soniche perfette, le canzoni sono tutte fantastiche, nessuna esclusa, dalla carta d’identità Cherub Rock alla ballata strappacuore Disarm al singolo in stile MTV Today. E poi c’è Mayonaise (sapevate che sta per My Own Eyes?), uno dei brani più importanti di tutti gli anni ’90 alternativi, quello che meglio descrive una generazione fallita, persa dentro sé stessa, che rivendica con orgoglio di esistere. “Can anybody hear me? I just want to be me”. Questi sono gli Smashing Pumpkins.

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