Tutti gli album dei Blur, dal peggiore al migliore | Rolling Stone Italia
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Tutti gli album dei Blur, dal peggiore al migliore

Esattamente trent’anni fa usciva il debutto della band di Damon Albarn e Graham Coxon. Ecco la classifica dei loro dischi, un bel viaggio nel pop, in un'altra epoca, nella britishness

Tutti gli album dei Blur, dal peggiore al migliore

Damon Albarn dal vivo in Olanda coi Blur nel 1991

Foto: Paul Bergen/Redferns

«Subito dopo lo scioglimento degli Smiths ho sentito dire che un gruppo così importante non potrà più esistere. Ebbene, i Blur esistono perché non accetto che questo succeda». È così, coerentemente con la grande tradizione delle band inglesi dalla lingua lunga, che il ventitreenne Damon Albarn presenta l’album d’esordio della band che ha formato assieme al chitarrista Graham Coxon sui banchi della Stanway Comprehensive School di Colchester, capoluogo dell’Essex dove il padre di Damon, artista già nel giro dei Soft Machine, era stato chiamato per dirigere la locale scuola d’arte.

Finite le scuole, Albarn rimane a casa per studiare teatro, mentre Coxon si trasferisce a Londra per studiare Belle Arti alla Goldsmiths, dove conosce il bassista Alex James, studente di lingue. Arruolato nel giro di poco tempo il batterista Dave Rowntree, i quattro si fanno chiamare Seymour e partono alla conquista del mondo, o perlomeno di un contratto discografico. Alla fine degli anni ’80 nel giro indie va per la maggiore la contaminazione fra rock e dance (basti pensare alla scena di Manchester, dagli Stone Roses in giù). È quindi in quella direzione che si muovono i Blur una volta assunto questo nome. Il singolo She’s So High è il primo frutto del contratto con la Food Records di Dave Balfe, già tastierista dei Teardrop Explodes, il cui riscontro frutterà a sua volta un contratto di distribuzione con la Parlophone. There’s No Other Way farà ancora meglio, aprendo la strada a una carriera diversissima da quelli degli Smiths, ma emblematica degli anni ’90 britannici almeno quando quella della band di Morrissey lo è stata per gli ’80.

8“Leisure” (1991)

Anche se si trova in fondo a questa lista, l’album d’esordio dei Blur non è comunque un brutto disco. Anche perché, di brutti dischi, i Blur non ne hanno fatti mai. Semplicemente non è ancora un album dei Blur, la cui identità non è ancora precisa. Ancora assenti, poi, i personaggi che caratterizzeranno i successivi tre album, quelli della trilogia brit pop. «La musica era ok», ha detto Damon Albarn, «ma ho scritto i testi cinque minuti prima di cantarli». Il settimo posto nelle classifiche di casa è un risultato di tutto rispetto, ma nello stesso periodo, sui due lati dell’Atlantico, escono album come Screamadelica e Nevermind, e Leisure viene presto dimenticato. Non da tutti in realtà, se è vero che Sing, che finirà anche nella colonna sonora di Trainspotting, diventerà fonte di ispirazione per i Coldplay di Lost!. Interessante, come in tutta la storia Blur, osservare il retrocopertina, in cui i quattro sono accompagnati da mucche pinkfloydiane. Un fantasma, quello di Syd Barrett in particolare, che aleggerà sempre negli album della band, pur non venendo mai citato esplicitamente come fonte di ispirazione.

7“The Magic Whip” (2015)

Unico album in studio frutto della reunion che dal 2009 in poi ha portato la band a esibirsi dal vivo a intervalli più o meno regolari, The Magic Whip deve la sua uscita proprio all’ostinazione di Graham Coxon, rientrato nei Blur ormai in pianta stabile. Trovatisi con alcuni giorni liberi da trascorrere a Hong Kong in seguito alla cancellazione last minute di un festival a Tokyo, nel maggio 2013 i quattro decidono di lavorare a del nuovo materiale. «Potrebbe essere uno di quei dischi che non escono mai», dirà Damon Albarn un anno più tardi. Ma il chitarrista non è d’accordo e a fine 2014 decide di lavorarci di nuovo a Londra: «Continuavo a pensarci», ha spiegato, «mi sembrava materiale davvero buono e se non ci fossi tornato sopra non me lo sarei mai perdonato». In realtà dopo otto album solisti di Coxon, quattro dei Gorillaz e diversi altri progetti solisti di Albarn, si fa fatica a cogliere in questo disco veri motivi di interesse. La sensazione è che, dal punto di vista del materiale in studio, le due principali forze creative della band abbiano preso ciascuna la propria strada e, a sedici anni dal loro ultimo album insieme, non siano davvero riuscite a incontrarsi.

6“13” (1999)

L’album con cui i Blur cercano l’ennesimo cambiamento, ma anche quello registrando il quale Damon Albarn e Graham Coxon iniziano ad allontanarsi. William Orbit sostituisce Stephen Street ai controlli: «Eravamo rimasti colpiti dai suoi remix per alcuni dei nostri brani, e il suo album Strange Cargo era uno di quelli che ascoltavamo più volentieri sul pullman durante i tour» spiega Alex James nella sua autobiografia Bit of a Blur, «e poi aveva aiutato Madonna a realizzare Ray of Light, il suo miglior album, il che faceva di lui il produttore più richiesto del mondo».

Il bassista racconta però che gli altri impegni del produttore e dello stesso Albarn hanno prodotto una certa frustrazione all’interno della band, abituata fin lì a considerare i propri album come la cosa più importante da fare nel momento in cui si decide di entrare in studio. Il risultato è in effetti disomogeneo e per la prima volta le canzoni memorabili sono davvero poche. Brillanti eccezioni, il gospel di Tender, assai poco Blur ma destinato a diventare un classico live («Un grande sforzo di collaborazione tra Damon e Graham in un momento in cui il loro rapporto non era dei migliori», ha detto James) e soprattutto Coffee & TV, cantata dallo stesso Coxon e scelta in seguito dal New Musical Express come miglior brano della carriera della band.

5“Think Tank” (2003)

«Quando abbiamo iniziato a registrarlo», ha detto Alex James, «Graham non si è presentato. Forse avremmo dovuto aspettarlo ma abbiamo iniziato lo stesso, sperando che ci avrebbe raggiunti. Eravamo cresciuti sia come musicisti sia come songwriter, ma l’equilibrio di una band è sempre delicato e non sapevamo come avrebbe funzionato senza Graham». Non malissimo, a giudicare dai risultati. Dopo una prima parte di lavoro negli studi di Damon Albarn in Ladbroke Grove, la band si trasferisce in Marocco in cerca di ispirazione. «Noi funzioniamo solo quando c’è qualcosa che ci stimola, e i nostri stimolanti sono cambiati man mano che cambiavamo come persone», ha detto il bassista. «L’alcol è sempre un buon punto di partenza, le droghe vanno bene per un album, non di più. L’amore va sempre bene, che sia un nuovo amore o un amore perduto. Nel caso di Think Tank abbiamo pensato che ci saremmo sentiti più vivi se ci fossimo allontanati dal nostro contesto abituale per andare in un posto dove non eravamo mai stati. Ci siamo rasati i capelli e abbiamo inserito gli spinotti. C’era sempre qualcuno ammalato, il cibo era disgustoso e il posto era un disastro, ma la musica non era mai stata così bella». Rispetto al resto della carriera Blur quest’ultimo è un giudizio avventato ma, come detto, il risultato è tutt’altro che disprezzabile, anche se disomogeneo come già accaduto in 13. Produce Ben Hillier con un paio di brani affidati a Fatboy Slim e uno a William Orbit, mentre la copertina è dell’ormai lanciatissimo Banksy. Una squadra decisamente à la page per quello che per dodici anni sarà l’ultimo album dei Blur.

4“Modern Life Is Rubbish” (1993)

Se questa fosse la lista degli album più importanti per la carriera dei Blur, Modern Life sarebbe al primo posto per distacco, la sliding door con cui il gruppo riesce a reinventarsi mentre sta rischiando di sparire. Il vagone in cui i quattro si infilano è quello della metropolitana di Londra, a bordo della quale salgono abbigliati da mod degli anni ’90, come si vede nella retrocopertina. «La musica pop è l’unico luogo della società inglese dove ci si può reinventare, dove indossare una giacca nuova può sembrare un gesto politico», illustra Jon Savage nel suo Il sogno inglese. Ed è quello che fanno i Blur, ripescando elementi sonori ed estetici di una sottocultura che aveva attraversato decenni di cultura pop britannica. «Non c’è bisogno di essere originali», ha detto Damon Albarn, «ci sono tantissimi elementi del passato che si possono combinare senza bisogno di inventare nulla di nuovo». Il disco avrebbe dovuto essere prodotto da Andy Partridge degli XTC e intitolarsi England Vs America, ma le cose con Partridge vanno male per incompatibilità di carattere. Si decide quindi di affidarsi al mite Stephen Street, che si è già fatto un nome con gli Smiths e sarà a lungo il “quinto Blur”, per poi rimanere in ottimi rapporti con la band fino ai giorni nostri. «Avevamo ben poco da perdere», ha detto Albarn, «bevevamo di brutto prima dei concerti, suonavamo male e una volta non ci siamo proprio presentati».

Il disco, come detto, è un compendio del meglio della storia pop britannica. Ci sono i Kinks e le loro buone cose di pessimo gusto, basti pensare a Sunday Sunday e ai personaggi che da qui in poi popoleranno le canzoni dei Blur, eredi di Terry e Julie, gli innamorati di Waterloo Sunset, testo sacro del brit pop se mai ce n’è stato uno. Ma anche l’oscuro Alan Klein, il cui Well At Least It’s British è il disco che ha cambiato la vita di Damon Albarn. O almeno così dichiara in un’intervista rilasciata a Q. Il titolo del disco deriva dalla scritta su un muro in Bayswater Road. «Non ho bisogno di fare come Bobby Gillespie e andare a Nashville», dice Albarn riferendosi al viaggio intrapreso dai Primal Scream per registrare Give Out But Don’t Give Up, «se fai un giro a Londra è tutto molto più interessante, ci sono molti più psicopatici di quanti si possa immaginare». Quindicesimo posto in classifica, carriera salvata e il meglio deve ancora venire.

3“Parklife” (1994)

Se questa lista dovesse invece valutare la capacità di cogliere lo spirito di un’epoca, lo zeitgeist, come dicono quelli bravi, allora questo sarebbe l’album da mettere al primo posto. I Blur sanno che potrebbe essere il loro momento e rispetto al disco precedente variano ancora di più, a partire dal singolo Girls & Boys, con una tastiera che sarebbe piaciuta ai primi Roxy Music e un basso parecchio duraniano. Di quest’ultimo nessuno si accorge, ma nel 2021 proprio Graham Coxon sarà il chitarrista delle registrazioni di Future Past, nuovo album della band di Simon Le Bon.

Parklife è una sorta di seguito dell’album precedente, ma ancora più a fuoco, nel quale Albarn presensta nuovi personaggi del suo pantheon, tra impiegati statali che amano vestirsi da donna (Tracy Jacks) e il perdigiorno protagonista della title track, la cui voce narrante è affidata a Phil Daniels, già protagonista di Quadrophenia, il film tratto dall’album degli Who in cui interpreta un giovane mod. Illuminante anche in questo caso la retrocopertina, con i quattro Blur in tribuna alle corse dei cani, come personaggi dei Territori londinesi di Martin Amis, dichiarata ispirazione letteraria. Al terzo tentativo la Gran Bretagna decide che sono la band da seguire: primo posto in classifica e status di superstar, non solo in casa.

2“The Great Escape” (1995)

C’è un momento nella storia delle band di successo in cui possono permettersi di fare quello che vogliono. Per i Blur quel momento arriva con The Great Escape, sulla cui retrocopertina sono abbigliati in stile Savile Row e laccati come finanzieri della City. Possono permettersi di scherzare, soprattutto su se stessi, perché possono contare su canzoni fortissime, scritte da un Albarn in straripante stato di grazia. Un’altra leggenda Blur, la più improbabile, vuole addirittura che nello stesso periodo abbia scritto anche l’album degli Elastica della fidanzata Justine Frischmann, uscito qualche mese prima.

Si parte con il singolo Country House, che cita Apeman dei Kinks (e sarà una caso se c’è un brano dei fratelli Davies che si chiama House in the Country?) e permette di vincere la battaglia dei singoli contro la Roll With It degli Oasis (la guerra andrà diversamente, ma questa è un’altra storia). E poi una varietà ancora maggiore rispetto a Parklife, grazie anche a brani “minori” ma imperdibili come l’affresco desolato di Best Days, la cartolina giapponese di Yuko and Hiro e una He Thought of Cars che, fatte le debite proporzioni, è la loro A Day in the Life. «Noel Gallagher vuole essere John Lennon, i Blur vogliono essere Lennon e McCartney», scrive il New Musical Express all’indomani dell’uscita, cogliendo perfettamente nel segno.

1“Blur” (1997)

In cima a questa lista c’è l’album che, ascoltato oggi, suona meglio. Impossibile non cogliere nella trilogia brit pop i segni del tempo che è passato. Blur invece, fin dal titolo, può essere considerato l’album per eccellenza della band, di nuovo chiamata a reinventarsi. Gli album precedenti erano stati registrati in maniera tradizionale, ma per questo disco Stephen Street propone un nuovo modo di procedere. «Le canzoni e le loro parti potevano essere tagliate, montate, rallentate, accelerate, mandate al contrario, di nuovo tagliate e incollate insieme», ha detto Alex James. «Essex Dogs, il brano che chiude il disco, è probabilmente il più compiuto che abbiamo mai realizzato: contrappunti sofisticati, ritmi incrociati, virtuosismi. Ma queste non sono mai le canzoni che la gente si ricorda». In effetti no, ma per fortuna ce ne sono altre che riescono a coniugare valore e immediatezza. Come la beatlesiana Beetlebum e il primo brano della storia Blur cantato da Graham Coxon: You’re So Great. Per non parlare di Song 2, realizzata nel giro di un quarto d’ora e uovo di Colombo per conquistare finalmente il tanto agognato mercato Usa.

A proposito di Stati Uniti, Blur (registrato tra Londra e Reykjavik) viene spesso descritto come l’album americano dei Blur. In realtà, pur con innegabili ma non così evidenti influenze da parte di band come i Pavement, è il disco in cui Graham Coxon e Damon Albarn riescono a comporre per l’ultima volta le loro differenze. «Il miglior chitarrista del mondo è Thurston Moore», ha detto Coxon, «e anche se non somigliamo per niente ai Sonic Youth credo ci sia anche qualcosa di loro nella combinazione di elementi che fa di noi ciò che siamo». Dopo il grande successo pop, «volevamo fare di nuovo paura a chi ci ascoltava». Il risultato è una nuova, riuscitissima mutazione, evidenziata anche dai testi di un Albarn che torna a parlare in prima persona e dall’assenza di immagini della band nella retrocopertina.

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