Rolling Stone Italia

Stefano D’Orazio l’autore: 10 brani scritti per i Pooh

Non è stato "solo" un batterista. Scriveva testi su politica, droga e amore, ma senza lo strato di melassa tipico del pop italiano. Da 'Eleonora mia madre' a 'Buona fortuna', ecco i pezzi da riascoltare

Foto: Morena Brengola/Getty Images

È molto dura per uno come me, che è un Poohlover doc, prendere atto che il timoniere della fu grande astronave Pooh è in viaggio nel cosmo e non tornerà più sulla terra. E a pochi giorni dalla dipartita di Gigi Proietti, vedere che un altro baluardo di una Roma oramai sparita ci lascia soli e svuotati è quasi inaccettabile.

Perché Stefano D’Orazio non è stato solo il batterista dei Pooh, quello che ha accettato il compito ingrato di sostituire alle pelli il guru Valerio Negrini nel 1971, ma anche un vero romanaccio della musica italiana, dal capello alla Ninetto Davoli, verace e ribelle cuore giallorosso (nel 1973 fu arrestato per aver difeso una ragazza da un carabiniere in borghese che l’aveva aggredita, per dire). Durante la sua adolescenza la sua voglia di andare a scuola è pari a zero, ma quella di suonare è invece totalizzante. Tant’è che pur di inseguire il suo sogno si ritroverà a suonare la batteria nella sua prima band millantando perizie tecniche, nella realtà imparando un solo ritmo in due settimane: nulla sembrava fermarlo, neppure la fame.

Si ritroverà anche a fare la comparsa a Cinecittà per vari spaghetti western e nel corto Il mostro della domenica reciterà ai piedi di Totò interpretando quello che in realtà lui era: il capellone, il beatnik. Oltre a fare il turnista a titolo anonimo alla RCA, entrerà a fare parte del giro underground, quello del teatro off, suonando la batteria negli spettacoli di Carmelo Bene e Cosimo Cinieri al mitico e controverso Beat ’72, come elemento disturbatore nelle affabulazioni dei due attori, che interrompeva con assoli nella grande tradizione beniana del “crearsi handicap irrinunciabili”. Non era raro che durante molti dei suoi ingaggi il pubblico poi andasse in centro a spaccare vetrine e a darsi a espropri proletari: e la contestazione era nel sangue de Il Punto, il primo gruppo di un certo peso in cui militerà nei primi anni ’70. Una band prog di culto, ricordata oltre che per la colonna sonora di In nome del popolo italiano di Dino Risi, anche per il singolo Il mio mondo, in cui Stefano dà sfoggio del suo rockeggiare sui tamburi, del suo pestare a servizio di una tecnica impeccabile.

Perché di D’Orazio si è detto tutto: si lodavano le sue capacità manageriali, essendo la testa commerciale della gallina dalle uova d’oro Pooh, poiché non sbagliava mai un colpo. Si esaltavano le sue capacità di comunicatore, sempre pronto alla battuta senza peli sulla lingua e dalla simpatia schietta e popolare che sapeva dire cose importanti (dal rispetto per l’ambiente fino alla sensibilizzazione antirazzista verso gli indios dell’Amazzonia) non prendendosi mai troppo sul serio. Ma forse si è troppo sottovalutato il suo contributo musicale ed è molto strano perché dalla sua entrata nei Pooh le cose cambiano da così a così.

In primis, oltre ad essere una delle voci soliste della band, D’Orazio era un batterista chirurgico ed essenziale a servizio dei brani, capace di stare in silenzio anche per svariati minuti se necessario, che non si pavoneggiava tecnicamente se non quando si lanciavano i solo dal vivo e in quel caso massacrava le percussioni con un vitalismo pari solo al suo grande amico Tullio De Piscopo, che infatti è stato tra i primi a onorarlo sui social. Insomma, seguendo le orme del suo mito Ringo Starr, D’Orazio è andato oltre ed ha probabilmente inventato la batteria pop nella musica italiana dei ’70, a volte anticipando anche certe tendenze minimali new wave con straordinario intuito.

A dimostrazione di questo, ecco a voi 10 brani in cui Stefano D’Orazio sfoggia un drumming caratteristico, ma non solo: tutti i testi sono suoi, in quanto secondo paroliere dei Pooh (ma non certo per importanza). Era dunque anche un autore attento sia a tematiche politiche, sia “trasgressive”, sia romantiche, ma assolutamente prive della tipica melassa del pop italiano. Riscoprire tali gemme è cosa doverosa per salutare in modo degno un autentico pioniere.

“Eleonora mia madre” (1974)

Il primo brano il cui testo, su musica di un ispirato Facchinetti, è depositato a nome D’Orazio è questa splendida ballata di rock sinfonico che parte come una evidente citazione dei Led Zeppelin di Babe, I’m Gonna Leave You per poi spezzarsi in un malinconico valzer quasi di scuola classico-romantica dell’ est Europa. La storia narrata da D’Orazio è quasi autobiografica: un ragazzo riscopre il duro passato della madre che ha trascorso una vita a dedicarsi a lui dopo una gravidanza inattesa. Improvvisamente si rende conto che, prima di essere madre, lei è una donna: e vorrebbe cancellare le rinunce che ha dovuto subire per allevarlo. Un testo di grandissima sensibilità femminista (come spesso nei Pooh) che è un biglietto da visita di grande poesia per il neo paroliere, tra l’altro inserito in un album che è forse il picco creativo del quartetto, Un po’ del nostro tempo migliore, imbevuto di decadenza aristocratica che preannuncia i grigi anni di piombo di un Italia in lenta decomposizione.

Qui Stefano escogita una batteria che parte come un’inquieta mitraglia a base di colpi di cassa e squassanti crash (che ricordano addirittura i piatti dei Cure periodo Three Imaginary Boys) per poi sciogliersi in una marcetta fantasma, un pianissimo dietro al missaggio che sa di puro dolore cosmico. Lucio Dalla (grande amico dei Pooh) probabilmente s’ispirerà a questo brano per le parti iniziali di batteria de La signora, che sono in tutto e per tutto identiche, quasi un omaggio a un tale gioiellino.

“Peter Jr” (1975)

Nel sequel del disco precedente, ovvero Forse ancora poesia, D’Orazio osa molto spingendo su quelle tematiche “controverse” che già Negrini aveva sperimentato nel disco Alessandra (del quale infatti si recupera l’orchestra di Gianfranco Monaldi), ovvero l’urgenza dell’amore carnale contro il ben pensare comune, e soprattutto contro i tabù. D’Orazio in questo brano su partitura di Dodi Battaglia ne parla in prima persona, mantenendo il carattere autobiografico di Eleonora mia madre. In questo caso è la storia di due ragazzi, sconosciuti l’uno all’altra, che decidono di fare l’amore seduta stante. Vanno a casa della ragazza, ma improvvisamente durante l’amplesso fa capolino in stanza il bambino di lei, creando un impasse micidiale. D’Orazio rompe gli indugi con “ho avuto anch’io la sua età / d’amore lui che ne sa?”, spezzando la catena della malizia, dell’amore visto come qualcosa di sporco, in piena botta di amore libero pre 1977 con argomenti sui quali i Gaznevada andranno più pesanti. L’atmosfera sognante del brano, ad altissimo tasso di psichedelia, suggerisce paradisi artificiali consumati durante quella nottata: D’Orazio si limita a partecipare con tamburello e triangolo usati in maniera distillata e certosina, come bagliori luccicanti nella notte dei sensi.

“Storia di una lacrima” (1976)

Dicevamo paradisi artificiali: i Pooh in quanto figli del loro tempo non erano estranei da certe situazioni. In storia di una lacrima D’ Orazio, su musica di Facchinetti, scrive uno dei suoi testi più allucinati, all’interno di un album come Poohlover in cui i nostri beniamini abbandonano le orchestrazioni patinate e pompose del produttore Lucariello per fare tutto da soli e tornare a suoni ruvidi persi durante gli anni ’60. Con dei testi che finalmente non parlano solo d’amore, ma soprattutto di gente ai margini, prostitute, carcerati, zingari, alieni, e via dicendo: insomma tematiche inaspettatamente hardcore.

Quella che sembra una favola di una lacrima trasparente in viaggio nel vento e caduta dall’occhio di una bimba che trova improvvisamente la morte cadendo sopra un fiore è in realtà la metafora di un bad trip di LSD (la lacrima appunto) assunto da una ragazza che finisce non male, ma malissimo. In una sequela di immagini degne di Lewis Carroll – “Ma una nuvola buia la rapì / Mille gocce strette accanto a lei / Ora il suo coraggio non c’è più / Come pioggia sta scendendo giù” – D’ Orazio si distingue al flauto traverso in uno degli intro a loop più acidi e malati del quartetto, optando dal punto di vista percussivo (oltre al glockenspiel) per una batteria slow quasi jazz, che poi si tramuta in un drumming nervoso, spezzato ma quasi gotico nella sua essenzialità fatta di piatti gonfi di phaser.

“La leggenda di Mautoa” (1978)


Nel 1978 tra i brani scritti da D’Orazio campeggia ancora una volta una favola, quella di un aborigeno che si innamora della sua stessa voce deformata dall’eco di una valle, che scambia per la voce di una lei che sembrava non tornare giammai. Inutile dire che alla fine “l’eco senza cuore / non gli rispose mai più” e il protagonista sarà condannato alla solitudine: il brano in realtà è una metafora del ’68 che a un certo punto ha cominciato a parlarsi addosso e a vivere di ideali traditi nel momento stesso in cui venivano enunciati. A suo modo è un manifesto del ’77 che si impone, e del suo movimento che si mette in netto contrasto con la classe dirigente prodotta dal ’68: musicalmente è un pestone kraut di sapore morriconiano impreziosito da un theremin e da sintetizzatori allucinogeni, sul quale D’Orazio impone il suo drumming secco e tribale, reminiscenze degli esperimenti degli Osage Tribe di Battiato (nei quali tra l’altro militava Canzian).

“Numero uno” (1980)

D’Orazio è famoso per essere stato il primo ad abbandonare i Pooh nel 2009, conscio che la vita della band lo stava assorbendo troppo, ma già da molto prima lanciava dei chiari segnali che una pausa di riflessione fosse dovuta. Il primo grosso segnale è …Stop, disco nato nel 1980 (il secondo segnale è contenuto in Anni senza fiato, dove esplicitamente dice di voler scendere dall’astronave che non scende a terra mai), che vorrebbe utopicamente concludere un ciclo in vista di uno iato imprescindibile. Eppure le cose andranno diversamente e per i Pooh non ci saranno più soste, anzi il successo aumenterà a dismisura.

In questo disco D’Orazio scrive Numero uno su musica di Facchinetti, per quello che è uno dei brani di funk bianco più interessanti della band, ricalcato sui Talking Heads. Il testo parla degli sciacalli delle hit parade, i “grandi artisti” che se la tirano e soprattutto tirano, cocaina. “Tira su finché ce n’è”, recita il testo che parla di gente che non ha etica e pensa solo a saziare il proprio narcisismo. Un brano di amara ironia, che avrebbe dovuto vedere il featuring di Antonello Venditti nel riff vocale, cosa che poi non andò in porto forse proprio per il tenore del testo. D’Orazio sceglie un ritmo disco funk a cassa dritta lasciando i compagni liberi di “sfunkettare”, ornando il tutto anche con percussioni esotiche che ricordano il suono di un serpente a sonagli. Che in questo caso è il successo, ovviamente.

“Lettera da Berlino Est” (1983)

D’Orazio in quello che è l’album apripista della trilogia digitale, ovvero Tropico del Nord, opta per un testo politico che tratta del Muro di Berlino. Da Berlino Est il protagonista vorrebbe passare dall’ altra parte, spinto dalla voglia di libertà, captando le radio FM dell’ovest con il loro bagaglio di innovazione. Allo stesso modo però è chiaro che Berlino Ovest è una piovra, lancia degli orrendi tentacoli che respirano alito pesante sul collo di chi presto si ritroverà in vetrina a prostituirsi (“ma non fanno giorno mille lucciole”). Insomma dalla padella alla brace, ma alla fine il protagonista opta per un sano anarchico immedesimarsi col sole: forse il vero sole dell’avvenire, quello che “in casa mia passaporto non ha / entra ed esce da sé”. È un brano particolarmente wave impreziosito dall’uso del Fairlight, primo campionatore digitale di cui i Pooh sono tra i pionieri in Italia. Un filmato del documentario sulla creazione del disco vede D’Orazio suonare i tamburi campionati colpendo con le dita a mo’ di bacchette direttamente i tasti del Fairlight, per ottenere dei fill robotici ad hoc. Il pezzo sarà usato per irrompere nel mercato tedesco, sia per le sue caratteristiche musicali elettroniche (brano tra l’altro scritto a quattro mani da Facchinetti-Canzian) che ovviamente per le tematiche scottanti.

“Stella del sud” (1984)

D’Orazio non è solo sensibile all’occidente libertario, ma anche a quelle zone del mondo che a torto viene considerato “terzo”. Stella del sud, tratta da Aloha e su note di Red Canzian, è praticamente la Africa dei Pooh, con quel ritornello che recita senza tanti giri di parole È “Africa / il colore delle nostre fantasie”. È un inno al continente nero e alla sua potenza tanto spirituale che sensuale, un inno al viaggio e alla scoperta di nuovi paradisi oltre il credo e la razza. Neri e bianchi si uniscono mossi dal fatto di essere “senza un cielo dove pregare” e cercano “tra le pieghe del mare / un’onda che ti porti via”. Non guasterebbe nel repertorio dei Police, con piccole spezie afrofuturiste e un D’Orazio che armeggia con una batteria elettronica a pad esprimendosi come un sequencer ben programmato.

“Per noi che partiamo” (1985)

Nell’ipertecnologico Asia non Asia D’Orazio scrive due testi uno meglio dell’altro: il primo è entrato oramai tra i classici della band, quel Se c’è un posto nel tuo cuore cantato proprio da Stefano su musica di Red Canzian, una ballata romantica e accorata su un amore impossibile tra una teenager e il nostro D’Orazio (una tematica già toccata con la pruderie di Canzone per Lilli, inedito del 1984). Quello che invece prendiamo in esame è una riflessione sull’osare nella vita, sul “farsi trasportare dall’alta marea” facendo naufragare la fantasia in una tazza di tè, forse corretto con psilocybe. Ad ogni modo il pezzo può essere sintetizzato nella fantastica frase “Stranieri si nasce / e ovunque arriviamo/ ancora partiamo”. Un’ode contro le frontiere e contro la paura, per vivere “spogliando la vita e toccarla dove capita” abbracciando con fiducia il destino. Un brano che oggi come oggi sembra più prezioso che mai nel suo messaggio coraggioso e nella sua musicalità orientale degna di un Sakamoto.

“La ragazza con gli occhi di sole” (1989)

Tornando ai brani prettamente romantici di D’Orazio, questo ha un posto particolare. Esce in Oasi, un disco con pochi interessanti guizzi della band e soprattutto drammatiche cadute di stile. Fortunatamente questo brano è un commovente ricordo di un giovane D’Orazio che si innamora di una fantomatica lei sul pullman per la scuola, alla quale non rivolge neanche la parola, ma che è una specie di ideale femminile sul quale lui fantastica. Un brano delicato dai sapori mediterranei, che sfiora la tradizione napoletana ma anche le colonne sonore di Pasolini, quelle di Modugno e di Morricone, tutte mandolini, baracche e lacrime. Per uno conosciuto come lo scapolo d’oro dei Pooh, dalla fama di sciupafemmine, questo pezzo rappresenta il vero io del nostro, quello che vede l’amore come qualcosa di diafano, superiore, irraggiungibile, quasi da non consumare per non rovinarlo. E lo interpreta magistralmente.

“Buona fortuna” (1981)

E per concludere non poteva mancare il pezzo simbolo di D’Orazio: la sua autobiografia da sfrenato rocker del segno della Vergine, che vive la vita non stop, tiene in finestra l’erba di California (a buon intenditor…), ci beve su, fa l’amore da sé (e anche qui chi vuole capire…) e gioca la vita tutta in una partita portandosi a letto “anche la fortuna”. Ad ogni modo, nonostante la fama di essere la mente razionale dei Pooh, rimane l’approccio fatalista del domani che, va da sé, è appunto caratteristica dell’indole del vero giocatore. Buona fortuna è uno dei pezzi ritmicamente più complessi del quartetto (e forse implicito omaggio al Frank Zappa più pop) in cui si può ascoltare il perfetto timing del nostro in una partitura dispari, rockeggiando come non mai in un album di per sé particolarmente duro (prodotto in parte da Brian Humphries, fonico di Wish You Were Here e Animals dei Pink Floyd per intenderci) che prende il nome proprio da questo brano. Nel retrocopertina i simboli della fortuna (il quadrifoglio e la coccinella) che nella cover art campeggiano invincibili a pelo d’acqua, affondano e spiccano il volo miseramente in pochi secondi, perché ogni grande fortuna nasconde dentro di sé un grandissimo fallimento, quel “niente è gratis / niente è a posto” di memoria Sex Pistols.

A proposito di memoria: il mio personale ricordo di D’Orazio fu quando a circa 11 anni mi imbucai grazie ad amicizie di famiglia al matrimonio di sua nipote: partecipai alla festa che era proprio nella villa di Stefano a Ostia e fu un’esperienza surreale, a metà tra un ricevimento vip tutto tuffi in piscina da vestiti e una verace grigliata alla Caffarella. A fine party gli regalai un elefantino, animale di cui faceva collezione, e mi abbracciò. Conservo ancora una foto di quella giornata che mi chiesero di non divulgare e della quale distrussero il negativo per evitare speculazioni. Quell’incontro probabilmente mi ha fatto capire che a volte i sogni diventano davvero realtà e di questo sarò sempre grato a quell’eterno ragazzo: perché da lì non ho più smesso di fare e spingere la musica, credendoci come fosse una legge naturale e irreversibile, più forte di qualsiasi morte. E quindi grazie ancora Mr. Buona Fortuna, Cento di queste vite, come dicevano i Pooh.

Iscriviti