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Parliamo, per una volta, degli album di Rino Gaetano?

Ok, ci sono canzoni storiche come ‘Aida’ o ‘Ma il cielo è sempre più blu’, ma il non-cantautore ha pubblicato dischi eccellenti e sottovalutati. A 40 anni dalla morte, ecco la guida alla sua discografia

Foto: Angelo Deligio/Mondadori Portfolio via Getty Images

Sarà che due fra le sue canzoni più famose – Ma il cielo è sempre più blu e A mano a mano – sono la prima un singolo e la seconda una cover registrata a una concerto, insomma stanno entrambe senza un disco alle spalle, ma perché non si parla mai degli album di Rino Gaetano? Perché il non-cantautore per eccellenza, che fra il 1973 e il 1980 ha pubblicato sei LP in sequenza di cui almeno tre folgoranti, non ha il suo Bufalo Bill, il suo Come è profondo il mare, il suo Via Paolo Fabbri 43? D’accordo ricordare le varie Aida, Gianna, Mio fratello è figlio unico, Tu, forse non essenzialmente tu, però da un lato manca un discorso complessivo sulla sua musica, e dall’altro un lavoro che sia rimasto nella memoria collettiva, con quelle otto tracce di rito da imparare a memoria in sequenza, tramandandone la poetica come un monolite.

E dire che negli album non ci sono riempitivi. Anzi, i brani sono sempre coerenti al personaggio e ne completano il pensiero. Rino l’anarchico, lo “scomodo” nemico dei potenti, dei politici e degli uomini di potere, con sarcasmo a volte velato – molte sue frasi si prestano a multiple interpretazioni, persino “complottiste” – a volte sfacciato; Rino il poeta di strada, il cantastorie metropolitano lunatico e ironico, che cita nomi, oggetti, personaggi e icone della sua epoca; Rino l’esistenzialista malinconico, disincantato; Rino l’esule del Sud, il cantante a fianco degli ultimi, degli emarginati, uno dei pochi a raccontare le storie degli emigrati.

Anche per questo, a quarant’anni dalla sua morte, scriviamo questa piccola guida alla parte paradossalmente più sottovalutata del suo lavoro: gli album.

“Ingresso libero” (1974)

Tantissime idee, quasi tutte già ben sviluppate, per una personalità debordante, ma ancora non del tutto a fuoco. Il Rino dell’esordio – timido e restio a cantare, convinto a darsi una mossa solo dal produttore della IT Vincenzo Micocci – è un cantautore già atipico, con parecchie cose da dire e la voglia di distaccarsi dai canoni dei colleghi. Non sempre ci riesce (se si dovesse trovargli un gemello per questa prima versione di sé, diremmo Ivan Graziani, che all’epoca stava cominciando anche lui), ma Ingresso libero è lo stesso un diamante grezzo, sospeso fra un folk solare di acustiche e Hammond e testi che indicano già la via tracciata per il futuro. Mancano il gusto per la provocazione forte, la hit, ma non quello per le melodie. E ci sono già tutti gli elementi che ritorneranno più avanti: l’esistenzialismo lucido e malinconico (Tu, forse non essenzialmente tu, un pezzo di apertura da filosofo del terzo drink che non può che presagire una carriera illuminata), i quadretti allucinati (Ad 4000 D.C.), la satira ai potenti e alla società delle automobili (L’operaio della Fiat “la 1100”), l’emigrazione italiana e il Sud di cui lui, calabrese, è uno dei figli emarginati e in diaspora perenne (Ad esempio a me piace il Sud); e poi il sarcasmo, le ballate sgraziate, lo spleen, i testi che si prestano a dietrologie e interpretazioni. Il tutto, ovviamente, con l’ingenuità e gli spigoli di un esordio.

“Mio fratello è figlio unico” (1976)

Già al secondo tentativo arriva la perla. Non ci voleva molto: bastava aggiustare le ingenuità. E così, smaltito il successo un po’ casuale del singolo Ma il cielo è sempre più blu, che nell’estate 1975 vende 100 mila copie, Rino Gaetano si rimette a lavoro allontanandosi un altro po’ dal cantautorato classico, per melodie rotonde e arrangiamenti con strumenti come il banjo e il sax. Siamo ancora da quelle parti, ma lui già si solleva dal suolo con otto brani scuri e coesi, ironici e disperati, fra l’intimo, l’umoristico e la politica, confondendo volentieri i piani dentro una musica impegnata, ma senza aplomb. Sono gli anni di Fantozzi, degli emigrati nelle miniere (Cogli la mia rosa d’amore), degli impiegati poveri e arrivisti e dei padroni con le poltrone in pelle umana, e allora ecco che quel paesetto piccolo borghese di vizi e miserie viene ritagliato nelle icone, nel linguaggio, e importato in musica. Nella title track, ballata idealistica e schiumante di frustrazioni sottoproletarie, consumismo sotto forma di cut-up, emarginazione e denuncia sociale, che si dà la spalla col melodramma Sfiorivano le viole; nell’altro classico di incastri e doppi sensi del lotto, Berta filava e il suo “santo vestito d’amianto”; e nella filastrocca giocosa e feroce, invito ad andare a lavorare ai nobili di corte, di La zappa il tridente il rastrello. Per non parlare di Al compleanno della zia Rosina, l’episodio più introspettivo: esistenzialismo intimo e malinconico ripreso da Tu, forse non essenzialmente tu, per uno dei pezzi sottovalutati della sua carriera. A fronte di un disco, forse, che è la sua vetta creativa e di ispirazione.

“Aida” (1977)

Lo step successivo, a questo punto, svela già una certa maturità, per ambizioni e profondità delle composizioni. Aida – la title track, che cita Giuseppe Verdi – è meglio di un’enciclopedia, con l’andazzo cadenzato a ripercorrere cento anni di storia d’Italia, rigorosamente secondo la poetica della casa. L’Italia, ovvero “l’Aida” che “sfogliava i suoi ricordi”, dove trova “il gran conflitto”, “marce e svastiche”, il dopoguerra (“e poi il ritorno in un Paese diviso, più nero nel viso e più rosso d’amore”), “la povertà, i salari bassi”. Ma poco importa: proprio per i drammi e le contraddizioni, viene comunque da dire “Aida, come sei bella”. Segno di una voce – raschiata, sgraziata, sua – che è “del popolo”, ma al contempo lucida fra biasimo, sarcasmo, rabbia e compassione. E, rispetto al passato, qui il tono si fa anche più consapevole e sardonico. Come nel folk da Dylan mediterraneo di Spendi spandi effendi, di una freschezza micidiale e che fa satira sul consumismo del mercato dell’automobile senza sconfessare giochi di parole al veleno. O come in Standard, in cui pronuncia “alla francese” un elenco di nomi dei leader democristiani, in anticamera a Nuntereggae più. Puro cazzeggio insomma, o anche no. È con Aida infatti che Rino – oltre a staccarsi quasi del tutto dal cantautorato, complici anche le prime atmosfere latine – scopre la voglia di parlare a tutti, anche provocando. E si prepara per il grande salto.

“Nuntereggae più” (1978)

E dire che fino ad Aida rimane comunque outsider per pochi. Invece nel 1978, convinto dalla RCA, partecipa a Sanremo in tradimento verso i cantautori. Tant’è: con Gianna si sdogana dai colleghi e inventa un pop da filastrocca, catchy e colorato ma che sotto gli strass nasconde una satira sociale feroce e ambigua (Gianna che, ehm, “proteggeva il suo salario dall’inflazione”), con esibizioni istrioniche e televisive, nazionalpopolari nei toni quanto poco nelle intenzioni. Elio, Lo Stato Sociale e sabotatori vari del Festival – ma anche Caparezza, per dire – sono figli suoi. E Nuntereggae più, che contiene il pezzo ed è ultimo tassello di un trittico di altissimo livello iniziato con Mio fratello è figlio unico, segue la bussola senza indietreggiare nella polemica, rendendo per tutti la speculazione edilizia (grazie alla ballata spericolata e ironica Fabbricando case), le vite degli emigrati (E cantava le canzoni, con ritornello da stadio), persino facendo nomi e cognomi in una title track che è pura provocazione, un reggae bianco ballabile e anarchico da manifesto a tutta la sua produzione, con tanto di riff di fiati iconico. E sono spesso foto nitide, queste del disco, ma rigorosamente dal filtro rassegnato, poetico, malinconico. Mentre le composizioni risultano complesse, capaci di rileggere stornelli, melodia popolare, spesso la musica latina. E, ovviamente, fra riferimenti agli Agnelli, ai democristiani, a segreti di Stato e alla P2, su Nuntereggae più si alza un polverone da prima repubblica. Lui, per difendersi, definirà la canzone solo uno sfottò. Ma c’è molta più politica in un’operazione così, che nei comizi. Un’operazione grazie a cui, soprattutto, Rino trova la quadra.

“Resta vile maschio, dove vai?” (1979)

La quadra, sì, che dura. L’anello debole di una catena fittissima – quasi da un disco all’anno – in maniera paradossale arriva proprio quando si tratta di dare un seguito al suo disco più venduto e quel pop malandrino che ha trasformato Rino in una popstar senza che lo volesse nemmeno lui. All’improvvisa popolarità corrisponde una crisi: nei suoni, registrando un album (anche) a Città del Messico imbevuto di quegli echi latini che prima erano una trovata brillante, e che ora diventano dogma, tanto più mentre i colleghi (Baglioni, De Gregori) seguono la stessa strada; e nei testi, in cui impegno, ironia e riferimenti all’attualità risultano un po’ stinti. Se infatti la title track – l’unico pezzo di sempre con il testo non suo, ma di Mogol – è efficace nel riprendere la canzone d’autore tramite un resoconto da satira di costume di un threesome, e la filastrocca Nel letto di Lucia se la prende bene con “ministri scaldapoltrone”, “ciarlatani”, “ombrellai” e il resto della fauna, già Anche questo è sud è una A me piace il sud minore, mentre Ahi Maria riempie di mariachi un amore finito in realtà già sentito. E non a caso, comunque, il riscontro a livello commerciale di questo disco sarà tiepido: un giro a vuoto, sul più bello.

“E io ci sto” (1980)

Così, dopo il semi-flop di Resta vile maschio, dove vai?, Rino prova a reinventarsi senza compiere un passo indietro dal punto di vista dell’impegno e della satira. E l’ultimo – suo malgrado – album sa di epitaffio paradossale anche per questo, perché in risposta alla crisi post successo dell’anno prima apre diverse porte. Non siamo ai livelli di Mio fratello è figlio unico, ma la ripresa è evidente specie nel sound, con episodi di blues latino (Michele ‘o pazzo è pazzo davvero), ancora reggae (Jet set, ennesimo scherzo ben congeniato alle star da rotocalco dell’epoca) e soprattutto rock. Come la stessa titl -track, per esempio, o come l’umorismo metropolitano di Ping pong, con melodia appiccicosa e in anticipo di un decennio con un circo grottesco di conti della SIP “che non tornano” e Premio Campiello che è tutto posa. Ma è un umorismo diverso, comunque; più amaro, sempre sarcastico ma estremizzato per rabbia e rassegnazione. Fra il “mi alzo al mattino con una nuova illusione, prendo il 109 per la rivoluzione” che apre l’album, il ritornello della title track (“E mi accorgo che son solo, ma in fondo è bella però è la mia guerra e io ci sto”) e la filastrocca per emarginati Ti ti ti ti (“A te che ascolti il mio disco sorridendo, giuro che la stessa rabbia sto vivendo”), ci passano in maniera inedita una piccola caduta e il tentativo di rinascita di un artista. Ed è un peccato: E io ci sto è un bozzetto di ciò che sarebbe potuto essere Rino Gaetano dopo la ripresa; uno che chissà come avrebbe raccontato gli anni ’80, Mani pulite, gli influencer, noi tutti quanti.

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