È stata l’estate in cui i sessantenni (e oltre) hanno cantato sui grandi palchi internazionali con le trentenni e le popstar hanno messo in mostra un nuovo ricercatissimo accessorio live, la leggenda del rock. È stata l’estate dei feat intergenerazionali dal vivo.
I duetti tra artisti di diverse età ci son sempre stati sui palchi, ma forse mai come in quest’estate concertistica sono stati spiazzanti. Non ci sono stati solo i cosiddetti passaggi più o meno immaginari di consegne tra musicisti che si riconoscono come simili, com’è accaduto in passato quando Bob Dylan è andato in tour con Tom Petty and The Heartbreakers o Neil Young s’è fatto accompagnare dai Pearl Jam. Ci sono stati anche duetti inaspettati fra cantanti che potevano essere padre e figlia e soprattutto hanno storie diversissime, profili divergenti, fanbase molto lontane l’una dall’altra.
È chiaro che il fenomeno visto dalla parte degli artisti più giovani è stato alimentato anche dalla ricerca dell’effetto sorpresa che piace non solo ai fan sotto al palco, ma anche a commentatori e frequentatori dei social, con l’effetto cercato e puntualmente ottenuto di far parlare del proprio concerto un po’ a tutti grazie all’ospitata inattesa: «Oh, ma hai visto chi c’era ieri sera da…?». Non è solo hype, il feat è ovviamente anche un riconoscimento da parte di un artista di comprovato spessore. Se poi significa da parte dell’allievo che c’è anche un certo livello di conoscenza della storia del pop e del rock, meglio ancora.
Forse c’è anche dell’altro e qui passiamo al lato degli artisti diciamo così vintage: nella musica settarismi e purismi hanno sempre meno sostenitori specialmente tra i rocker con una certa storia alle spalle, anche a costo di lasciare perplessi alcuni fan. Queste esibizioni possono magari aiutare ad allargare il pubblico in un’epoca in cui il fossato tra le generazioni e la musica che ascoltano è sempre più profondo? Anche, sì.
La campionessa di questa pratica è stata quest’anno senza dubbio Olivia Rodrigo, che ha ospitato sia il cupissimo Robert Smith di Cure, sia l’intellettualissimo David Byrne dei Talking Heads. La reazione dei fan over qualcosa? Qualcuno è stato spiazzato, qualcuno si è divertito, qualcuno si è detto disgustato, si va da «divertente» a «caduto in basso». Qualcuno non riesce a concepire che l’autore di Pornography duetti con l’autrice di Drivers Licence e quindi pensa che «lo fa solo per soldi». Ora, va bene tutto, ma se pensate che Robert Smith salga sul palco con Olivia Rodrigo per un guadagno personale, conviene che ripassiate la storia dei Cure. In quanto al valore musicale di queste collaborazioni estemporanee, è vario: ecco qualche esempio.
Olivia Rodrigo con David Byrne e Robert Smith
Quando Olivia Rodrigo ha potuto, ha sempre cercato di portare sul palco gli idoli della sua adolescenza. Se negli anni passati si era tolta lo sfizio di invitare Natalie Imbruglia (per Torn) e Lily Allen (per F*ck You), quest’estate la posta in gioco per l’americana si è alzata esponenzialmente. A inizio giugno al Governors Ball il suo surprise guest è stato David Byrne con cui ha eseguito Burning Down the House, il successo dei Talking Heads del 1983.
Racconta Byrne: «Ho visto il suo concerto al Madison Square Garden mesi prima. È una grande performer e si stava divertendo molto, si vedeva. Ci hanno presentato dopo lo show e mi è sembrata una persona vera, una che, crescendo nel mondo in cui è cresciuta, è riuscita a sopravvivere bene. Poi, dal nulla, è arrivato questo invito: “Ehi, ti va di venire con me al Governors Ball?”. La mia reazione è stata: “Sì. E se pensassimo insieme a qualche coreografia?”».
Poteva fermarsi qui la mother dei clash generazionali? Assolutamente no. Per il suo ritorno a Glastonbury, ecco un altro tuffo negli ’80 con «il miglior songwriter venuto fuori dall’Inghilterra», Robert Smith dei Cure, con cui ha duettato per Just Like Heaven e Friday I’m in Love. «Una leggenda per Glastonbury, un mio eroe», le parole di Olivia.
Dopo il tuffo negli anni ’80, l’estate di Olivia Rodrigo si è condita di un ritorno ai ’90 coi Weezer con cui ha suonato Buddy Holly e Say It Ain’t So al Lollapalooza. Non resta che chiedersi: chi saranno i prossimi?
Sabrina Carpenter con Duran Duran e Earth, Wind & Fire
«Ululate alla luna», ha chiesto Sabrina Carpenter al pubblico di Hyde Park il 6 luglio prima di introdurre una cover di Hungry Like the Wolf dei «leggendari Duran Duran» con ospiti due di loro, Simon Le Bon e John Taylor. Ci sta? Ci sta. Oltre ad essere una che conosce la storia del pop e che strizza l’occhio anche agli anni ’80, Carpenter condivide coi Duran uno sguardo ironico sul pop e un’idea di musica per niente elitaria. Al Lollapalooza, nel nome del groove, ha portato sul palco Philip Bailey e gli Earth, Wind & Fire per un medley di Let’s Groove e September. Se Carpenter intende scolarizzare i suoi fan sulla musica anni ’70/’80, siamo dalla sua parte.
Dua Lipa con Jamiroquai e Neil Finn
«Un grande pioniere della musica britannica», ha detto Dua Lipa. Lo è in particolare per la miscela di pop, soul e funk che fanno i Jamiroquai. Ci sta quindi benissimo che la popstar, che di quella musica (sbilanciata verso il pop) è diventata la reginetta inglese, abbia invitato Jay Kay per fare assieme a Wembley a giugno Virtual Insanity, un pezzo uscito quando lei aveva appena un anno di vita. Di solito gli ospiti del suo Radical Optimism Tour sono artisti più o meno contemporanei legati alla città in cui si esibisce, ma ad aprile ha invitato Neil Finn dei Crowded House, a maggio gli Scorpions e gli Alphaville.
Lauryn Hill con Drake
Al londinese Wireless Festival Drake ha voluto fare le cose in grande, portando sul palco alcuni dei migliori rappresentanti della scena rap made in UK come Central Cee, Dave, Skepta. Nell’esercito di ospiti presenti – da 21 Savage a Rema, da Vanessa Carlton a PartyNextDoor – a spiccare è stata la presenza della più importante MC americana, Lauryn Hill. I due hanno eseguito il successo del 1998 di Hill, Ex-Factor, seguita da Nice for What, brano del rapper che contiene proprio un sample di Ex-Factor. Ms Lauryn Hill ha poi condiviso un suo pensiero sui social: «Grazie a Drake per l’invito. Ricordiamoci, e non dimentichiamo, che siamo gente piena di talento. Non facciamo che divisioni e sabotaggi ci facciano perdere di vista questo obiettivo».
Clipse con Kendrick Lamar
La faida tra West e East Coast ha segnato i giorni più oscuri dell’hip hop, ma al contempo spinto le due fazioni a migliorarsi a colpi di beat e rime. Ora che la guerra tra le coste si è placata, è piuttosto comune vedere artisti volare da una parte all’altra degli States. Per l’atteso ritorno dopo 16 anni dei Clipse, lo storico duo della Virginia formato da Pusha T e No Malice ha unito le forze con Pharrell Williams per un album che, tra i featuring, vede spiccare quello di Kendrick Lamar. E proprio nella città di Kendrick, Los Angeles, il duo si è esibito nei giorni scorsi vedendo il rapper raggiungerli sul palco per Chains & Whips, il brano contenuto di Let God Sort Em Out.
«Questa è nostra città» ha dichiarato Kendrick dal palco riferendosi al pubblico in sala, «ed è un privilegio essere di fronte a queste leggende». Per poi concludere: «Vengo a sentire il concerto in mezzo a voi, questa è la mia gente».
Zach Bryan con Bruce Springsteen
Quando Zach Bryan è nato, nel 1996, Bruce Springsteen aveva pubblicato non solo i grandi classici, ma pure Human Touch/Lucky Town e The Ghost of Tom Joad. Insomma, Bryan avrebbe potuto ascoltare altra musica, eppure quand’era ragazzo lui e i suoi amici mettevano Born in the U.S.A. a ripetizione nel jukebox. La coppia non è inedita: nell’album di Bryan dell’anno scorso The Great American Bar Scene c’è un duetto tra i due intitolato Sandpaper, la cui base strumentale può ricordare nella strofa una versione accelerata di I’m on Fire. Quando Bryan a luglio si è esibito al MetLife Stadium del New Jersey non una ma tre sere ha chiamato Springsteen per Atlantic City e per la sua Revival. È la storia eterna del maestro che stima l’allievo e lo fa sapere al mondo. Ed è una storia molto, molto americana: da noi Bryan non è granché noto, negli Stati Uniti The Great American Bar Scene non è arrivato al numero solo per via di Taylor Swift.
Rosé con Psy
Da un lato Psy, uno dei più grandi artisti del k-pop, nonché il primo a sfondare anche nel nostro Paese con la hit Gangam Style, dall’altro Rosé delle Blackpink, il gruppo femminile k-pop più influente di sempre, capace di costruirsi una carriera globale capace di trainare il genere oltre la moda. Un incontro, il loro, avvenuto a Summer Swag, il mega appuntamento estivo di Psy, in cui hanno eseguito Apt., il brano di Rosé in coppia con Bruno Mars capace di raggiungere i 2 miliardi di ascolti su Spotify in poco meno di un anno.
«Rosé mi ha contattato perché voleva vedere la mia esibizione. Le ho suggerito di venire come ospite. Sono rimasto sorpreso mentre provavo con lei. Ho imparato molto», le parole di Psy, un passaggio di testimone netto tra chi ha portato il k-pop al successo globale e chi invece l’ha consolidato e affermato.
Gracie Abrams con Robyn
Tutte le popstar contemporanee amano Robyn. Charli XCX l’ha voluta nella versione remix di 360 del fortunato Brat, Ariana Grande l’ha ampiamente citata in We Can’t Be Friends, uno dei brani più riusciti del suo ultimo album e varie artiste – da Taylor Swift a Christine and the Queens – l’hanno citata come ispirazione per la loro musica. Ultima in quest’ordine è stata Gracie Abrams che per il suo ritorno al Lollapalooza ha voluto Robyn al suo fianco per una cover del successo del 2010 Dancing On My Own, forse il brano più rappresentativo di Robyn.
«La mia canzone preferita, forse la canzone meglio scritta di sempre», il commento di una Abrams visivamente emozionata, che su Instagram ha poi aggiunto: «Hai dei poteri magici e, per qualche miracolo, sei anche così generosa da averli condivisi con noi ieri sera… Grazie per aver scritto la mia canzone preferita».
Bleachers con Rufus Wainwright
Jack Antonoff non ha bisogno di riconoscimenti, essendo il produttore di alcuni acclamatissimi e vendutissimi dischi pop, da Taylor Swift a Lorde passando per Sabrina Carpenter. E non è certo un ragazzino. La presenza a Newport a sorpresa sul palco dei suoi Bleachers del «one and only» Rufus Wainwright, ormai da tempo “grande saggio” del cantautorato pop, è stata una bella sorpresa ed è giusto che stia qui anche se fra i due corrono solo 11 anni. Hanno fatto 45 dei Bleachers, che ha un che di springsteeniano, e Not Dark Yet di Dylan. Sul palco coi Bleachers si sono visti anche Jeff Tweedy (Wilco) e un cast all-star.
Japanese Breakfast con Beck
La presenza di un artista come Beck, un classe 1970 che tra gli anni ’90 e i primi 2000 ha davvero scritto la storia del pop, ha un valore particolare, anche se il musicista non si è mai risparmiato in quanto a collaborazioni e apparizioni. Come quella di venerdì scorso al Greek Theatre di Los Angeles, dove ha duettato con Michelle Zauner sulle note di The Golden Age, dal suo Sea Changes. Ma soprattutto, seduti su una grande conchiglia d’ostrica, i due hanno fatto anche Men in Bars di Zauner con Beck che, leggendo il testo da un foglio poggiato a terra, ha interpretato la parte che su disco è affidata a Jeff Bridges.
