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Le migliori 15 canzoni dei Monkees

A poche ore dalla scomparsa di Peter Tork, rileggiamo la classifica dei brani più importanti della storia dei Monkees, scelti dalla band nel 2016 per festeggiare i 50 anni di carriera

Foto IPA

Peter Tork, batterista e tastierista dei Monkees, una delle band più amate degli anni ’60, è morto dopo una lunga battaglia con un tumore – un carcinoma adenoido-cistico – che combatteva dal 2009. Creati a tavolino nella sala riunioni NBC come “risposta americana ai Beatles”, i Monkees sono famosi in tutto il mondo soprattutto grazie a I’m a Believer, il pezzo scritto da Neil Diamond che ha trovato una seconda vita grazie a Shrek e che, in Italia, è diventato Sono Bugiarda di Caterina Caselli.

Quella che state per leggere è una collezione dei brani più iconici dei Monkees, selezionati da Micky Dolenz, Michael Nesmith e Peter Tork nel 2016 in occasione delle celebrazioni per i 50 anni di carriera del gruppo.

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“Last Train to Clarksville” (1966)

Micky Dolenz: Parla di un ragazzo che va in guerra. Francamente, è una canzone pacifista. Parla di un ragazzo che va in una base militare, e dice alla sua ragazza che non sa se tornerà a casa. È la prima canzone dei Monkees, e mi sorprende sempre pensare che l’etichetta l’abbia pubblicata davvero. Non mi ricordo dell’incisione, perché in quel periodo succedeva davvero di tutto. Mi ricordo che (il co-autore) Bobby Hart voleva fare le voci in una nottata, diceva che ero pronto. Avevamo già registrato le tastiere e tutto il resto, ma io non avevo memorizzato il bridge. Hai presente quando canto “di da di di da di da”? C’erano delle parole in quel punto. Ma non sono riuscito a memorizzarle in tempo. Bobby mi disse okay, «dobbiamo chiudere stasera, quindi canta “di da di di da”». Mi ricordo quando l’abbiamo ascoltata in radio per la prima volta: eravamo in macchina verso Beverly Hills, abbiamo accostato e tutti avevano un sorriso enorme stampato sulla faccia.

“Mary, Mary” (1967)

Mike Nesmith: Questo è uno dei nostri primi brani. Non scrivevo da molto, ma mi interessava cercare un punto d’incontro tra il country e il blues. All’epoca lavoravo per Randy Spark, che aveva appena fondato una nuova società dopo il successo con i New Christy Minstrels, una band folk-rock. Mi ha assunto come autore, e un giorno ho scritto Mary Mary. Poi Randy ha venduto il mio catalogo a Screens Gems Columbia Musica, il catalogo dello show televisivo dei Monkees. Anche i Run-DMC ne hanno fatto una cover, anni dopo. Hanno cambiato un po’ il testo, ma non importa. Non è certo una canzone profonda.

“I’m a Believer” (1967)

Micky Dolenz: Anche in questo caso non ricordo esattamente quando l’abbiamo registrata. Lo show aveva bisogno di moltissimo materiale, e registravo anche due o tre canzoni a sera. C’era bisogno di almeno una nuova canzone per ogni episodio. Comunque, questa è probabilmente la canzone più famosa dei Monkees. Nove volte su dieci è l’ultimo brano in scaletta ai nostri concerti. Non so spiegare perché sia diventata così popolare. Non si può ridurre l’arte, soprattutto le cose collaborative. Non si può sapere davvero se Neil Diamond abbia scritto il testo, o la melodia. Oppure le voci del coro. Con le collaborazioni il tutto è più grande della somma delle parti.

“You Told Me” (1967)

Mike Nesmith: Quando sono entrato nei Monkees tutti dicevano “Dei scrivere una pop song”. Questa è una delle due che scrissi, l’altra era The Girl I Knew Somewhere. Ero molto felice del risultato, ed è uscita sull’unico album che abbiamo fatto solo con le nostre forze, Headquarters. Quando dico “noi”, intendo i quattro attori principali. La gente si sorprende sempre quando scopre che quattro tizi assunti per lavorare a un TV show abbiano formato una band. Ma io non ci trovo niente di strano. Non è così insolito se pensi a come andavano le cose a quei tempi. Negli anni ’60 bastava mettere quattro tizi in una stanza per formare una band. Noi non siamo riusciti a reggere perché siamo capitati in uno tsunami di interessi aziendali, era così anche prima della nascita della band. I Monkees erano un progetto enorme in termini di denaro investito, tempo e persone coinvolte, per non parlare degli autori.

“Randy Scouse Git” (1967)

Micky Dolenz: Fino a questo punto, non avevamo mai avuto la possibilità di dire la nostra sugli album. Non che non volessimo farlo. Ci dissero, semplicemente, “zitti e prendete i soldi”. Mike e Peter, soprattutto Mike, erano molto frustrati. Ma non posso fargliene una colpa. Lui era un cantautore e gli avevano promesso che avrebbero usato la sua musica. Quando scrisse Different Drum gli dissero “Questa non è una canzone dei Monkees”. L’ha data a Linda Ronstadt, e il resto è storia. Noi non vedevamo nemmeno la copertina.

Con Headquarters, invece, volevamo fare tutto da soli, e così abbiamo fatto. Ho scritto Randy Scouse Git durante il tour in Inghilterra. I Beatles ci avevano portato a una festa in un famoso nightclub, c’erano gli Stones e un sacco di altra gente. Ho scritto la canzone la mattina successiva, nella mia stanza. I “four Kings of EMI” sono i Beatles, ovviamente.

“Daydream Believer” (1967)

Peter Tork: Questo brano è nato in quello che io chiamo il periodo “mixed-mode”. Nella prima fase della nostra carriera Don Kirshner gestiva gli album, era tutto sotto il suo controllo. Poi abbiamo fatto Headquarters completamente da soli. “Mixed” era una via di mezzo. Ho scritto Daydream Believer al piano, e credo che la sua forza sia nel cambio di accordi tra “Jean” e “Cheer up sleepy Jean”. Credo sia molto dolce, attira la tua attenzione. È Davy a cantare questo pezzo, aveva davvero molto talento. Probabilmente il migliore attore dei quattro, forse anche la mente più musicale. Il miglior cervello e forse il miglior cuore.

“Tapioca Tundra” (1968)

Mike Nesmith: All’epoca i Monkees suonavano molto dal vivo, e il testo di questo pezzo è ispirato a quei momenti. Erano concerti molto grandi, con 20mila persone. Sul palco eravamo solo in tre, io, Micky e Peter. Davy suonava le percussioni. Ogni volta che salivamo sul palco succedeva qualcosa di straordinario. Suonare dal vivo ci trasformava. Peter lo chiamava “il quinto membro della band”, il pubblico. Il testo è scritto dalla prospettiva di chi è appena sceso dal palco, di come i Monkees prendessero vita con il pubblico. Forse è un po’ metafisico.

“Porpoise Song” (1968)

Micky Dolenz: Il film Head fu creato da Bob Rafelson, Bert Schneider e Jack Nicholson. Non parla tanto dello scioglimento dei Monkees, ma lo sfrutta come una metafora per la crisi dell’industria di Hollywood. Credo fosse vietato ai minori di 17 anni. Da un punto di vista commerciale, fare quel film è stata una pessima idea. Ma non volevamo fare un episodio di 90 minuti del Monkees show. E poi, quelli avevano girato Easy Rider, potevano davvero fare qualcosa. Porpoise Song è una delle canzoni che preferisco cantare, ed è un po’ il tema del film.

“Can You Dig It?” (1968)

Peter Tork: Questo brano fa parte di una serie di giri di accordi che ho scritto quando ero al college, e di cui non sapevo cosa fare. Poi, un pomeriggio, ero nel camerino del set del tv show dei Monkees. Avevo una chitarra e un piccolo testo, e quegli accordi sono tornati all’improvviso. È per questo che il brano ha un’atmosfera armonica vagamente arabeggiante. Era perfetta per la colonna sonora di Head.

“Circle Sky” (1968)

Mike Nesmith: Anche questo è un brano che ho scritto durante il tour. Volevo esplorare le possibilità del power trio. Eravamo abbastanza bravi. Micky era un vero batterista garage. Io ero un chitarrista rumoroso e Peter era molto preciso. Poteva suonare passaggi interessanti e bei giri di basso. Il power trio, quindi, fu esplorato. Il testo parla di televisione.

“Listen to the Band” (1969)

Mike Nesmith: Questa canzone ha un pedigree interessante. Le ho dedicato quasi un capitolo intero del mio libro, perché è stata scritta in un momento molto insolito. La serie dei Monkees era finita, e avevamo già girato il film. Io volevo andare a Nashville, avevo ancora un po’ di soldi e volevo che le mie canzoni venissero suonate dai musicisti del giro come David Briggs, Jerry Carrigan e Norbert Putnam. Quella era gente che scriveva musica straordinaria, che ha lanciato un’intera rivoluzione culturale: Wilson Pickett, Aretha Franklin e tutto il resto dell’r&b.

Quando sono arrivato in studio ho trovato un’atmosfera completamente diversa da quella di Los Angeles. Quei tizi facevano pubblicità, roba orchestrale, trasmissioni tv e tutto il resto. A Muscle Shoals, era r&b tutto il giorno. Erano musicisti eccezionali. Gli ho suonato qualche canzone e hanno detto: “Sì, questo è fico”. Abbiamo registrato tutto, e tornato a Los Angeles ho aggiunto i fiati.

“That Was Then, This Is Now” (1986)

Micky Dolenz: Nel 1986 MTV ha iniziato a trasmettere il vecchio show. Ed è esploso di nuovo. Abbiamo fatto il tour più ricco dell’anno. Il nostro catalogo, all’epoca, era di Arista. Clive Davis mi ha contattato e mi ha detto: “Ascolta, questa cosa è diventata enorme. La reunion per i 20 anni è diventata enorme. Ristamperemo una raccolta con i vostri classici e sarebbe bello se registraste qualcosa di nuovo”.

Noi eravamo già in sala prove per il tour, volevano che ci inventassimo qualcosa in due settimane. Io ho pensato: “Wow! È grandioso. Chiamate il mio agente, chi vi pare, sarebbe bellissimo”. Peter accettò, David no. Non voleva partecipare a quelle registrazioni. Due giorni dopo, però, ho inciso le voci di questo pezzo. Due settimane dopo era nella Top 20. Vance Brescia, l’autore, è diventato un buon amico. Suona ad alcuni nostri concerti, quando ci serve un altro chitarrista. Suoniamo sempre la sua canzone.

“Run Away From Life” (1996)

Peter Tork: Michael aveva iniziato a uscire con (la futura moglie) Victoria. Le suonava la colonna sonora di Head. Lei voleva sapere chi suonava il basso e lui ha detto: “Quello è Peter”. Poi lei ha chiesto, “Chi ha scritto quella parte?”. “Oh, è stato Peter”. Allora Michael pensò di chiamare me e Micky per suonare un po’ insieme. Non succedeva dal 1969.

Io ho suonato il basso, Micky alla batteria e Michael alla chitarra. Suonavamo come una volta. È stato grandioso. Ci siamo divertiti un mondo, abbiamo chiamato Davy e scritto Justus. Credo che tutto l’album sia molto sottovalutato. Io scrissi Run Away From Life. È un pezzo sarcastico, e quello era un album in cui volevamo superare alcuni limiti. Credo che sia stato un peccato non aver suonato più chitarre in questo pezzo. La batteria di Micky, però, è davvero feroce.

“Admiral Mike” (1996)

Mike Nesmith: Ho scritto Admiral Mike dopo aver letto un articolo su un ammiraglio che si era suicidato perché la stampa sosteneva che avesse fatto qualcosa di disonorevole, ma non c’erano le prove. Non fu mai processato, ma la stampa l’aveva distrutto, non era stata neutrale nel dare la notizia. Io pensai: “Devo scrivere qualcosa sui giornalisti, sulla responsabilità di dire la verità”. È un pezzo ancora molto rilevante.

L’album in cui è inserito, Justus, è stato incompreso. Volevamo scrivere un disco sul tempo passato insieme come una band, ma poi non ci siamo visti per anni. Avevamo un intero team che lavorava per noi, cioè i ragazzi che erano dietro le quinte dello show. C’era anche un team per i tour, e un altro per le canzoni. Non avevamo molto a che fare con le forze artistiche dietro ai Monkees.

“Me and Magdalena” (2016)

Micky Dolenz: Questa è semplicemente una canzone bellissima, scritta da Ben Gibbard dei Death Cab for Cutie per il nostro album Good Times!, e prodotta da Adam Schlesinger. Volevo davvero cantarla, ma abbiamo finito per registrare un duetto tra me e Mike. Sono armonizzazioni che ho sempre adorato.

Peter Tork: Questa canzone è commovente. Non ho mai sentito Michael cantare in maniera così coinvolgente. Le recensioni che hanno scritto di questo disco sono una bella gratificazione, ma una parte di me sa che il disco non è davvero più bello di quanto abbiamo fatto in passato. La stampa non ha più un approccio moralista, e riesce a godersi davvero la musica. E bisogna aggiungere anche che l’ethos della band che si scrive da sola le canzoni è praticamente sparito. Ci aiuta l’effetto nostalgia, siamo ancora qui dopo 50 anni. È grandioso. È straordinario ritrovarsi in mezzo a queste cose. Mi guardo intorno e penso: “Cosa sta succedendo?”

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