Ci sarà un motivo se, quando si dice che un artista si ispira al brit pop (pure in Italia: dal paleolitico Daniele Groff a Gazzelle), si parla di ritornelli in zona Fab Four, cori da stadio e melodie morbide e spettacolari, nonostante il movimento britannico sia stato – appunto – un movimento e non un genere specifico, con dentro nomi anche lontanissimi da queste coordinate tipo Blur e Pulp, no? Esatto: si finisce sempre lì, ai primi Oasis, che con una manciata di classici hanno cristallizzato a modo loro nella memoria collettiva – per estetica, struttura dei pezzi, modo di cantare – una scena in realtà eterogenea, lasciando la polvere (a livello di influenza culturale) ai colleghi, Verve di Bitter Sweet Symphony compresi.
E il merito, più di tutti, è di (What’s the Story) Morning Glory?, che oggi compie gli anni anni (usciva il 2 ottobre 1995) ma potrebbero anche esserne due, o centocinquanta, visto il suo essere anacronistico e faro che puntualmente torna ad accendersi per i posteri. La formula era e resta semplice (a dirsi): riprendere i Beatles, attualizzarli (tipo nella produzione, poco altro), sporcarli ancora di droga e al tempo stesso smussare gli angoli dell’esordio di Definitely Maybe, che pure era un sacrario di Lennon, ma in salsa garage rock. E questa stessa formula, però, era e resta anche difficile (a farsi): trovatela, una penna come quella che Noel aveva allora, da mettere in fila Wonderwall, Don’t Look Back in Anger, ma pure le minori Cast No Shadow e Morning Glory.
Insomma: parliamo di un classico della cultura pop che travalica i confini della Cool Britannia, con una copertina iconica e insensata e frutto di uno stato di grazia creativo, che scolpirà il nome dei Gallagher nell’Olimpo del pop-rock. Paradossalmente, era partito con cattivi auspici (la sconfitta nella battaglia dei singoli di lancio coi Blur, dove Roll With It era arrivato dietro a Country House), ma una volta pubblicato impiegherà appena un paio di settimane per diventare un bignami del brit pop, divorandosi Albarn e soci e trasformando i fratelli Gallagher in icone dei ’90, fino al culmine dei due concerti di Knebworth dell’agosto dell’anno dopo, con 250 mila paganti e l’isteria collettiva tutta intorno.
E allora, proprio perché è un disco recitato a memoria da tutti dall’inizio alla fine, ci sentiamo di fare questa cosa qui: mettere in classifica i suoi brani, dal meno riuscito al più ispirato ed esaltante. Una specie di tributo, perché è un privilegio che pochi album possono permettersi.
10Hello
È paradossale che un lavoro come (What’s the Story) Morning Glory? abbia il suo tallone d’Achille proprio nella canzone che lo apre. Ma c’è poco da girarci attorno: Hello è una falsa partenza. Musicalmente è uguale al resto del lotto, ma la lentezza della melodia (molto oasisiana, per carità) è priva delle curve dolcissime degli altri classici, mentre il testo non ha le trovate lisergiche imbeccate altrove (“Life is a game we play”, argh) e il sound levigato finisce col far rimpiangere la sporcizia di Definitely Maybe. “Hello, it’s good to be back”, canta spaccone Liam, citando Gary Glitter, allo zenit della canzone: ed è bello, sì, ma ce ne accorgeremo dal prossimo pezzo.
9Roll With It
Appunto, il prossimo pezzo. Chiariamoci: siamo su un altro livello rispetto a Hello; ma l’album è, almeno all’inizio, un crescendo, così che Roll With It – che è il secondo in scaletta – finisce col sembrare ancora vagamente un riempitivo. L’arrangiamento coi chitarroni affila gli artigli, l’attacco di rKid (“You gotta roll with it / You have to say ok”) è iconico del modo di intendere – boh – la vita da parte dei Gallagher; però, ecco, a livello di cavalcate-manifesto qui si trova molto di meglio (chi ha detto Morning Glory?).
8Hey Now!
Quando su Hello citavo la lentezza, mi riferivo proprio a questo: Hey Now! viaggia a 20 all’ora, eppure il ritmo è marcato, quasi marziale, mentre Liam mostra i muscoli e Noel si sbizzarrisce, seducente, con chitarra elettrica e qualche accenno di psichedelia, che più avanti darà i propri frutti. E, nel suo essere un episodio minore è già un bel breviario di scrittura, segno di come The Chief all’epoca sapesse firmare brani accattivanti anche quando meno ispirato.
7She’s Electric
In un disco sostanzialmente rock, She’s Electric è l’episodio che ricollega il cordone ombelicale della band ai padri fondatori dei Beatles. Di fatto, è quello che più di tutti potrebbe portare la firma Lennon-McCartney e non è una bestemmia: inciso fluido, catchy; arrangiamento che gioca la carta vintage unendo il pianoforte alla chitarra elettrica; testo frivolo e paraculo il giusto (parliamo sempre di un lavoro scritto in un inglese da prima elementare, in cui la parola è suono e che proprio per questo rimarrà alla storia). Quasi un divertissement, perfettamente a fuoco come sorta di tributo ai Fab Four da parte del gruppo che, più di tutti, può permetterselo – e hai detto niente.
6Some Might Say
Se She’s Electric ha un gusto rétro, senza scomodare i classici da milioni di copie si può dire che Some Might Say sia il saggio perfetto dello stato di ispirazione del Noel dell’epoca a livello compositivo, nonché un bignami del brit pop arrivato intatti ai posteri. Che dire: chitarra elettrica di che avanza con l’incedere di un carro armato che lascia le proprie tracce sul selciato; attacco di Liam epico e stralunato; bridge rapidissimo ma essenziale per segnare la svolta verso un ritornello fulminante. E poi: melodia micidiale, arrangiamento tendente il giusto all’alt rock. Potevano anche fermarsi qui, insomma, e sarebbe andata benissimo lo stesso.
5Cast No Shadow
Cast No Shadow è il pezzo malinconico per eccellenza dell’album, quello dedicato a Richard Ashcroft in cui i suoni elettrici di tutto l’album incontrano la dolcezza beatlesiana di alcune soluzioni unplugged (è una chitarra acustica a farsi carico degli impegni, per dire). Più che altro, è l’esplosione di quell’intimità che in Definitely Maybe era solo abbozzata come una possibile strada per il futuro (Married With Children) e che qui invece trova in rKid un partner orgoglioso e puntuale per sorreggere una melodia aperta, nostalgica. Lo senti, e già te lo immagini in punta di piedi, con le mani dietro il parka a seguire le sua salite e discese armoniche.
4Morning Glory
Dicevamo prima delle cavalcate e di come Roll With It – pur avendo quelle velleità – rimanesse quasi un riempitivo. Ecco: il cazzotto in faccia di Morning Glory mostra davvero, in questo senso, dove possono arrivare gli Oasis di metà anni ’90. In cinque minuti c’è un breviario di tutto-ciò-che-è-Gallagher: ritornello da stadio, melodia killer quasi da pogo ma mai dozzinale, chitarra alt rock violenta e affilata, voce di Liam tiratissima e cattiva, psichedelia, e testi fra autocelebrazione (“Walking to the sound of my favorite tune”), nonsense, droghe e citazioni (“Tomorrow never knows”). Amen, così sia.
3Wonderwall
Ok, è il momento di spiegare perché il brano più conosciuto dell’album – e della band, e forse del pop-rock dei ’90 – non ne sia anche il miglior episodio. Banalmente: ha un testo senza particolari acuti in ottica nonsense o evocativa, oltre a un arrangiamento fin troppo “puritano” rispetto ad altri episodi del lotto. Altri episodi che, ovviamente, al di là di questo gli si trovano anni luce indietro. E i motivi di questa supremazia – tradotto: la melodia aperta e leggendaria, il bridge da manuale, il ritornello da stadio, i tre accordi della struttura circolare del brano, il romanticismo epico – non c’è neanche motivo di spiegarli. Oppure: chi non ha mai cantato Wonderwall? Appunto.
2Don’t Look Back in Anger
Credo significhi molto, il fatto che la sua intro di pianoforte sia molto, molto simile a quella di Imagine dell’amato Lennon e che, nonostante ciò, sentendola si pensi comunque subito a Don’t Look Back in Anger. Siamo davanti al manifesto più lucido del brit pop, nonché a una delle hit pop-rock per eccellenza, che non teme gli accostamenti coi Beatles fra la voce – a sorpresa – di Noel vagamente malinconica, un testo iconico e al tempo stesso senza senso (Sally che “non può aspettare”, la “rivoluzione” che parte “dal mio letto”, l’invito a non mettere la propria vita “nelle mani di una band rock’n’roll”) e un ritmo lento e pieno di dolcissime curve, fino all’esplosione un ritornello che conferma The Chief come il miglior trovatore di melodie della sua generazione. E, se ci fossero dubbi, (What’s the Story) Morning Glory? esiste proprio per ricordarcelo.
1Champagne Supernova
In vetta, perché la (non a caso) conclusiva Champagne Supernova è il trip per eccellenza degli Oasis: si pone come una suite rock, con le ambizioni del caso; ma riesce a tenere fede a tutti gli elementi pop della scrittura di Noel di quegli anni – il ritornello quasi arena rock, la struttura circolare, la melodia killer – in un impasto sostanzialmente unico, più semplice nell’esecuzione ma non lontano nelle idee dall’A Day in the Life di Sgt. Pepper. In un crescendo lisergico e ridondante, vengono fuori, in armonia, dei quadretti senza senso (“Slowly walking down the hall, faster than a cannonball”), dei mantra (“Where were you while we were getting high?”), un assolo e un cantato che scala le montagne a mani nude, in pieno spirito spaccone e vitalistico della band. Dura quasi otto minuti, ma sarebbe potuta andare avanti per il doppio del tempo e non ci saremmo comunque stancati di ascoltarla, neanche dopo 25 anni. Come tutto (What’s the Story) Morning Glory?, in effetti.