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Le 20 canzoni fondamentali di Little Richard

«Sono l’innovatore! Sono l'architetto! Sono il rock’n’roll!», ha detto una volta il musicista americano. Ecco una manciata di pezzi per capire che forse non aveva tutti i torti

Foto: Michael Ochs Archives/Getty

Che cosa potremmo dire di Little Richard che non abbia già detto lui, e pure meglio? «Sono l’innovatore! Sono il creatore! Sono l’emancipatore! Sono l’architetto! Sono il rock’n’roll!», ha detto a un intervistatore, per poi aggiungere: «E non lo dico perché sono vanitoso o presuntuoso».

Little Richard – nato Richard Penniman a Macon, Georgia nel 1932 – diceva il vero. Ha esercitato sul rock un’influenza incalcolabile. I Beatles hanno imparato da lui le loro grida estatiche e acute; James Brown ha detto che Richard è stato «il primo a mettere il funk al ritmo». In un annuario scolastico il giovane Bob Dylan scrisse che la sua massima ambizione era «unirsi a Little Richard» e quando aveva 9 anni David Bowie comprò un sax nella speranza di riuscirci. Pensate al periodo glam di Bowie, alle mosse di Mick Jagger, alle sinuosità psicosessuale di Prince: difficile immaginarli senza la stravaganza androgina di Richard.

Il giovane Richard è stato il più freak tra i grandi artisti rock’n’roll. La sua espressività sessuale non era stemperata dal fascino sudista di Elvis Presley, dalla furbizia di Chuck Berry, dalla cattiveria di Jerry Lee Lewis, dalla sensibilità pop di Buddy Holly o dalla genialità di Fats Domino. Il modo in cui ha tenuto assieme sessualità e spiritualità ha cambiato il modo in cui i musicisti comunicano il desiderio. Come ha detto Jimi Hendrix, «voglio fare con la chitarra quel che Little Richard fa con la voce».

“Tutti Frutti” (1955)

A-wop-bom-a-loo-mop-a-lomp-bom-bom! Little Richard ha scritto il più grande (e forse il primo) testo rock’n’roll della storia nel tentativo di descrivere a parole un fill di batteria che desiderava. Oppure la frase – questo lo ha detto in un’altra occasione – era il modo in cui rispondeva al suo capo quando faceva il lavapiatti alla stazione dei bus Greyhound di Macon. Era stato il produttore Bumps Blackwell a sentire una hit potenziale nel pezzo che Richard, frustrato, stava suonando durante la pausa di una session improduttiva. Blackwell aveva poi chiesto alla songwriter Dorothy LaBostrie di stemperare il testo in cui si offrivano utili istruzioni per fare sesso anale (“Se non ci sta, non forzarlo / puoi ungerlo, rendi la cosa facile”). E così Tutti Frutti passò dall’essere una canzone “esplicita” a semplicemente “allusiva”, ma bastava l’onomatopea di Richard per descrivere le gioie della carne meglio di qualunque vocabolo contenuto nel dizionario. E quando arrivano le ultime due sillabe puoi distintamente sentire i due corpi che, sbam, si uniscono.

“Long Tall Sally (The Thing)” (1956)

Se Tutti Frutti era nonsense lascivo, la seguente Long Tall Sally era basata su allusioni sessuali. Little Richard vede lo zio John che spia di nascosto Sally e dice che farà la spia a zia Mary, ma dal modo in cui canta la canzone è chiaro che sta dalla parte di chi se la spassa. Non si capisce bene che cosa stiano facendo i due, ma l’immagine della testa calva di Sally suggerisce che sta accadendo qualcosa di illecito o di bizzarro. Comunque non è roba da bravi ragazzi. Grazie a questa storia selvaggia Richard ha avuto il suo primo numero uno nella classifica R&B e il primo successo da top 10 in quella pop, e ha travolto generazioni di rocker, primi fra tutti i Beatles. Ha detto John Lennon: «La prima volta che l’ho sentita l’ho trovata talmente forte che non riuscivo ad aprir bocca». Paul McCartney l’ha studiata e l’ha suonata nelle prime esibizioni dei Fab Four.

“Slippin’ and Slidin’” (1956)

«Un altro tizio ha pubblicato Slippin’ e Slidin’ prima di me, era Eddie Bo, ha avuto successo a New Orleans. La settimana dopo è uscita la mia versione e ha annientato la sua, perché la sua non aveva ritmo, non aveva quella cosa che avevo io». Se si confronta questa palla infuocata rock’n’roll con lo shuffle R&B molto cool di Bo (intitolato I’m Wise) si comprende che cos’è quella cosa di cui parla Richard, il suo je ne sais quoi, anzi, il suo je ne sais woo. Jerry Lee Lewis e Johnnie Johnson (l’accompagnatore di Chuck Berry) erano pianisti melodicamente migliori, ma il fracasso percussivo di Little Richard è esattamente quel che ci vuole alla canzone, una botta ritmica che dà modo al batterista Earl Palmer di ricamarci sotto.

“Ready Teddy” (1956)

“Ready, set, go man go”. Pronti, partenza, via. Le parole d’apertura sono il colpo di pistola che dà il via a una corsa a perdifiato in cui il cantante e i musicisti sfrecciano l’uno accanto all’altro. Ogni strofa è essenzialmente un urlo a cappella punteggiato da scoppi di percussioni che portano alla frenesia sessuale del ritornello. John Marascalco e Robert Blackwell «mi hanno portato il testo e io ho inventato la melodia, ma all’epoca non avevo abbastanza cervello da chiedere la mia parte dei soldi», ha detto Richard a Rolling Stone nel 1970. «I soldi non li ho avuti, ma la libertà, quella ce l’ho ancora».

“Heeby-Jeebies” (1956)

Le canzoni di Little Richard incarnano la ricerca di velocità del rock’n’roll e pure l’ottimismo, l’entusiasmo e l’inquietudine che ne derivano. Ma in questo pezzo frenetico, da non confondere con il classico di Louis Armstrong, sembra che Richard canti più velocemente del ritmo, come se il suo bisogno di velocità fosse fuori controllo. Non c’è da stupirsi che il più rock dei grandi soulman anni ’60, Otis Redding, abbia definito Richard «fonte di ispirazione». Si è anche esibito con la band di Richard, gli Upsetters, e ha iniziato a cantare professionalmente in un talent show facendo proprio Heeby-Jeebies. Ha vinto per 15 settimane di fila.

“All Around the World” (1956)

La definizione di rock’n’roll di Little Richard era piuttosto semplice: R&B veloce. «Lo suoni veloce ed è rock’n’roll, lo fai con un tempo normale ed è rhythm & blues». All Around the World è diversa dai pezzi frenetici e adrenalinici di Richard, ma pur essendo un po’ più lenta non è meno esuberante e sicuramente non è meno rock’n’roll. “Il rock’n’roll è qui per restare” era un motto diffuso nel 1956. All Around the World alzò la posta in gioco facendo capire che quel nuovo sound era un fenomeno globale, un fatto che Richard avrebbe presto contribuito a dimostrare andando in tour in Australia.

“The Girl Can’t Help It” (1956)

Di regola, Little Richard non aveva bisogno di altri vocalist. La sua voce aveva la potenza di un quartetto. The Girl Can’t Help It è l’eccezione che conferma la regola. In questo pezzo tratto dal film con lo stesso titolo con Jayne Mansfield (in italiano Gangster cerca moglie), Richard è impegnato in un call-and-response con una seconda voce anonima. Il beat oscilla – il pezzo era in origine destinato a Fats Domino – ma Richard spinge con la voce fino alla distorsione ed è questo lamento di gola che conferisce al disco la sua sessualità sfrenata.

“Rip It Up” (1956)

C’è della violenza implicita in Rip It Up, il secondo pezzo di Little Richard al numero uno della classifica R&B. Nonostante il titolo, si respira. Richard non urla, anzi, appoggia il suo falsetto sul coro, mentre la band swinga con disinvoltura. Gli artisti suoi coetanei l’hanno interpretata in un altro modo – la versione di Elvis Presley è più rock, gli Everly Brothers l’hanno trasformata in un hop – ma lo swing di Little Richard mostra la facilità con cui si misurava col jump blues, un tratto interessante di un rocker che sembrava andare sempre a tutta birra.

“Send Me Some Lovin’” (1957)

L’importanza di Little Richard nel rock’n’roll ha finito per oscurare il suo ruolo nell’evoluzione del soul. «Ha fatto tanto per la nostra musica», ha detto Sam Cooke nel 1962, e Otis Redding (come abbiamo visto) era un fan fatto e finito. Confrontare questa performance con le versioni di Send Me Some Lovin’ dei due grandi del soul citati significa apprezzare l’influenza di Little Richard. Nella dizione vellutata e fluida di Cooke si sentono tracce delle sue consonanti carezzate e delle sue vocali arricciate. E nei momenti più intensi di Richard si sente il futuro stile canoro di Redding.

“Jenny Jenny” (1957)

Non per sminuire l’interazione tra il sax tenore di Lee Allen e quello baritono di Alvin “Red” Tyler, ma Jenny Jenny è un meccanismo miracoloso, perfetto per consegnare al pubblico la più preziosa di tutte le merci del dopoguerra: il canto di Little Richard. È un suono che ha attraversato l’oceano ed è arrivato a Liverpool. «Mi piace imitare Little Richard, che ha una voce selvaggia, rauca, urlante, è come un’esperienza extracorporea», ha detto Paul McCartney, uno dei migliori imitatori dell’americano.

“Lucille” (1957)

Lucille è pazzia allo stato puro, con la batteria che picchia e i fiati che urlano. Fosse suonato da una chitarra, lo chiameremmo riff ed è esattamente il risultato ottenuto da Status Quo, AC/DC e Sonics quando hanno rifatto il pezzo, che era bello pesante anche nella versione dei Beatles. L’originale era un’altra cosa e il merito è di Little Richard, che urla come un uomo posseduto da un desiderio carnale che mai si realizzerà.

“Keep A-Knockin’” (1957)

John Bonham ha copiato l’intro di Earl Palmer a Keep A-Knockin’ per Rock and Roll dei Led Zeppelin, riconoscendo che questo singolo del 1957 è, beh, rock and roll. Si pensa sia una canzone di risposta allo shuffle di Smiley Lewis del 1955 I Hear You Knockin’, ma alla fine non è altro che rumore. Dopo l’introduzione di Palmer, Little Richard urla al suo ospite di andarsene via e parte in una gara rumoristica col sassofonista. Il rock’n’roll non è mai stato altrettanto chiassoso, forte, puro.

“Good Golly, Miss Molly” (1958)

Fedele alla massima di T. S. Eliot secondo cui gli artisti maturi non imitano, ma rubano, Little Richard ha fatto suo un tormentone usato da un dj del Sud chiamato Jimmy Pennick e ha sgraffignato l’introduzione al piano di Ike Turner per Rocket 88 di Jackie Brenston. «Mi è sempre piaciuto quel disco. Usavo il riff nel mio spettacolo, così quando si è tratto di trovare un’introduzione a Good Golly, Miss Molly l’ho tirato fuori ed è risultato perfetto». Eppure Good Golly, Miss Molly suona come un pezzo di Little Richard, con la sua voce che spinge pericolosamente.

“Ooh! My Soul” (1958)

«Elvis sarà pure il re del rock’n’roll, ma io sono la regina», ha detto Little Richard. A volte era cauto e a volte decisamente franco circa la sua sessualità. «Sono il fondatore dell’omosessualità», ha detto a John Waters, senza però ammettere alcunché. Per via della pettinatura alla Pompadour, del viso truccato, dell’esuberanza sessuale così poco macho Richard è stato un pioniere dell’androginia rock e Ooh! My Soul è la sua canzone gender bender. È il suono di Little Richard che seduce sé stesso e la risatina che arriva a un certo punto conferma che si trova irresistibile.

“Kansas City / Hey Hey Hey Hey” (1959)

Little Richard ha registrato due versioni del classico firmato da Lieber & Stoller nel 1955 Kansas City. La prima, piuttosto convenzionale, è simile all’originale di Little Willie Littlefield, ma è nella seconda che finalmente si sente la sua personalità quando irrompe in un “hey hey hey hey hey hey hey” urlato che viene bissato da un coro entusiasta. Prima della pubblicazione della seconda versione nel 1959 (più o meno nello stesso periodo in cui Wilbert Harrison ottenne un successo con un’altra cover del pezzo), Richard registrò Hey Hey Hey Hey Hey Hey, che parlava di “tornare a Birmingham”, con la stessa introduzione di sette note di Kansas City. Risultato: Little Richard riuscì a far sua Kansas City e a incassare i diritti d’autore quando i Beatles la interpretarono.

“By the Light of the Silvery Moon” (1959)

Nel 1956, Fats Domino inaugurò una serie di hit basate sul revival di vecchie melodie popolari, portando Blueberry Hill del 1940 in cima alle classifiche R&B e pop. Little Richard ne seguì l’esempio nel 1959 recuperando un pezzo risalente a mezzo secolo prima, By the Light of the Silvery Moon. È agile e si muove a botte di colpi di clacson, spinto da uno shuffle insistente. Il ritmo è divertente, ma il punto è il canto che evoca l’occhiolino sornione di Richard.

“Bama Lama Bama Loo” (1964)

È il primo tentativo di tornare alle origini. Dopo aver cambiato varie etichette a inizio decennio, nel 1964 Richard tornò alla Specialty e pubblicò questa pezzo nonsense farneticante. Le urla e il linguaggio evocavano Tutti Frutti, ma Richard era più vecchio e meno selvaggio. Ma era anche furbo e quindi riuscì a trasformare l’età in un vantaggio, rallentando il ritmo fino a trasformarlo in uno shuffle denso e pieno di groove.

“I Don’t Know What You’ve Got but It’s Got Me” (1965)

Ma entrata nella classifica pop, è l’ultima hit R&B di Little Richard. Si rifà però al soul anni ’60, non all’R&B dei ’50. Sembra un inno da chiesa lento e languido, diviso in due su 45 giri, dove Little Richard affronta lo stile sudista della Stax/Volt. Non sorprende che tiri fuori il meglio di sé. Richard evoca le sue radici gospel come non era mai riuscito a fare nei pezzi usciti per la Specialty.

“I Need Love” (1967)

Negli anni ’60 Richard incise per lo più per l’etichetta Okeh, tendando di navigare le acque agitate del soul. Ottenne un magro successo con Poor Dog (Who Can’t Wag His Own Tail), ma l’elettrizzante I Need Love è di gran lunga superiore. Non è andato da nessuna parte dal punto di vista commerciale, ma il 45 giri mostra Richard che cavalca l’onda di un uptempo sudista nella vena di Otis Redding. Fa suo quel sound e ci aggiunge un tocco di spettacolarità nei ritornelli esplosivi e catartici.

“Freedom Blues” (1970)

Come altre leggende del rock’n’roll, anche Little Richard ha avuto l’opportunità di entrare in contatto con un nuovo pubblico a cavallo fra anni ’60 e ’70. E così, ha firmato per Reprise nel 1970, ma si è rifiutato di dedicarsi al revival dei vecchi successi, una tentazione a cui Fats Domino non ha invece resistito. Si è buttato piuttosto nel vivo del caos di quell’epoca. Freedom Blues ha un groove profondamente sudista ed è in parte un invito all’azione a favore dei diritti civili e in parte uno specchio dei tempi. Colpisce non solo la performance appassionata di Richard, ma il modo in cui fa uso gli slogan della controcultura in un singolo che ancora oggi suona in modo favoloso.

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