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Le 10 migliori produzioni di Brian Eno

Da David Bowie agli U2 passando per Talking Heads e Coldplay, ogni volta che il non-musicista inglese ha messo le mani su un disco rock è successa una magia. Ecco i suoi grandi numeri da prestigiatore sonoro

Brian Eno

Se uno si chiama Brian Peter George St. John le Baptiste de la Salle Eno è facile che qualche cosa di particolare nella vita possa accadergli. Raggiunta l’età della ragione e tolti di mezzo tutti i nomi e cognomi che stanno tra Brian ed Eno, il nostro non perde tempo e inventa non un mestiere, ma un universo di possibilità. Tanto per cominciare riesce a diventare una delle figure più importanti della musica degli ultimi 50 anni senza essere un musicista.

Brian è stato parte parte fondamentale di una band che ha fatto storia, i Roxy Music, l’ha abbandonata dopo due dischi fondamentali, ha fatto combutta con intellettuali in musica come Robert Fripp, ha contribuito a traghettare David Bowie nel futuro, ha inventato la ambient music, ha reso giganteschi i Talking Heads, ha nobilitato con le sue intuizioni le canzoni di U2, Coldplay e moltissimi altri.

Autodefinitosi non-musicista sin dal 1970 (in quell’anno esce il suo trattato Music For Non-Musicians, pubblicato privatamente in 25 copie) il nostro ha sempre basato ogni mossa unicamente sulle sue idee rivoluzionarie e sul suo istinto, piuttosto che sul mero studio teorico. Date a Eno una tastiera e lui caverà da questa suoni inauditi senza sapere suonare lo strumento, mettendo in campo la sua inventiva, la sua sensibilità e la instancabile ricerca del nuovo. Chiudetelo in uno studio di registrazione con un artista e lui tirerà fuori da questi il meglio, lo guiderà e plasmerà le sue idee apponendo una firma inconfondibile.

È proprio sulle intuizioni messe a disposizione di altri artisti che si concentra questa classifica. La mano di Eno ha realmente contribuito a cambiare le sorti della musica moderna. Più di chiunque altro il produttore Eno è stato in grado di elevare il pop a forma d’arte. Non per niente si parla spesso di art pop quando si intravede il suo contributo (il lavoro di Eno è quello del produttore artistico, colui che guida un artista in tutte le scelte riguardanti la realizzazione di un album, dai primi demo alla registrazione, ben diverso dal produttore esecutivo, la persona che mette i soldi per il progetto, e ancora diverso dal produttore discografico, ovvero il capo dell’etichetta che pubblicherà il lavoro).

Ma in cosa consiste il “trattamento Eno” capace di rendere così riconoscibili e nobilitare tutta una serie di album che hanno fatto la storia? Lo scoprirete leggendo in dettaglio la classifica dei 10 migliori dischi che il nostro ha prodotto, cosa sarebbero stati senza e in cosa si sono trasformati grazie al suo magico tocco.

10.“Wah Wah” James (1994)

I James sono un gruppo brit pop di Manchester che lavora insieme a Eno al quinto album, Laid, un ottimo lavoro che non raggiunge però le vette visionarie del gemello Wah Wah, registrato durante le stesse session, ma diametralmente opposto al progetto principale. Eno rimane infatti affascinato dagli spunti sui quali in sala prove il gruppo si ritrova spesso a improvvisare: brani dalle atmosfere sperimentali, elettroniche e ambient, senza la preoccupazione di creare canzoni più o meno vendibili. Per mostrare l’altra faccia della band, quella più libera da pressioni e in pieno estro creativo, Eno forza quindi la mano affinché il gruppo pubblichi questi 23 bozzetti di musica in piena libertà creativa.

9.“Exile” Geoffrey Oryema (1990)

Eno si appassiona alla world music durante il lavoro con il trombettista Jon Hassell (due dischi realizzati insieme: Fourth World, Vol. 1: Possible Musics e Fourth World, Vol. 2: Dream Theory in Malaya) e la creazione della cosiddetta musica del quarto mondo, ovvero la fusione di componenti etniche e ambient. Questo tipo di feeling sonoro viene messo a disposizione del compositore ugandese Geoffrey Oryema che nel 1990 pubblica il suo Exile per la Real World di Peter Gabriel. Eno mette insieme la musica di stampo tradizionale di Oryema con larghi strali di elettronica ambientale e strutture più ritmiche rivestite da una patina psichedelica, a restituire immagini di un’Africa trasfigurata e onirica.

8.“The Pavilion of Dreams” Harold Budd (1978)

Già autore di un ottimo lavoro influenzato dal minimalismo di Terry Riley (The Oak of the Golden Dreams, 1970) il pianista statunitense Harold Budd trova la sua strada sonora grazie a Eno che non solo si occupa della direzione artistica ma pubblica anche The Pavilion of Dreams per la sua etichetta, la Obscure. Per creare il suono sul quale Budd baserà il resto della sua carriera Eno non fa altro che bagnare il piano del protagonista in ampi riverberi e rivestire il suono generale di un’atmosfera ovattata e sognante, con il contributo di un sax a richiamare le pagine più mistiche di John Coltrane. La collaborazione tra Eno e Budd proseguirà in due album in coppia realizzati nel 1980 (The Plateux of Mirrors) e 1984 (The Pearl).

7.“Viva la Vida or Death and All His Friends” Coldplay (2008)

Dopo il successo planetario ottenuto grazie ai primi tre album, i Coldplay arrivano al quarto carichi di tensioni interne, ma con un preciso scopo: portare la loro musica a compiere un balzo in avanti, concepire il lavoro non solo come una raccolta di nuovi successi, ma come qualcosa che possa elevare il loro pop in senso artistico. Quando si hanno progetti del genere c’è solo un uomo che può essere utile: Brian Eno. Il produttore riesce a rasserenare gli animi e a portare nelle nuove canzoni della band quella spinta avventurosa che mancava. Si ascolti a tal proposito il sommesso mantra, con piano e chitarra ambient, di Reign of Love o le aperture sinfoniche di Death And All His Friends, con tanto di lunga coda minimalista.

6.“No New York” Artisti Vari (1978)

Storica compilation che non vede l’apporto artistico diretto di Eno bensì il suo operato come scopritore di talenti nel sottobosco newyorkese della cosiddetta no wave, stile basato su un suono slabbrato e urticante, reazione alla presunta commercialità della new wave. Trovatosi nella metropoli americana per seguire i Talking Heads il nostro si imbatte in una serie di band che amano fondere trame free jazz e rock più intransigente. Affascinato da tale proposta Eno raggruppa i quattro migliori esponenti della scena (Contortions, Teenage Jesus and the Jerks, Mars, D.N.A.) in una raccolta che passerà alla storia. La grandezza di Eno si vede anche in esperimenti come questo, veri e propri documenti atti a portare all’attenzione di molti realtà sonore diverse.

5.“The Unforgettable Fire” U2 (1984)

Dopo il successo di War, terzo album della formazione irlandese, gli U2 sono a un bivio: continuare sulla strada del rock barricadiero o esplorare nuovi orizzonti? La band non ha dubbi, dimostrando grandissimo coraggio e voglia di mettersi in gioco Bono e i suoi soci si mettono alla ricerca di nuovi stimoli sonori. Come per i Coldplay qualche anno dopo, i quattro pensano che ci sia un solo uomo capace di spingerli verso direzioni più avventurose. Il lavoro con Eno riesce infatti a far raggiungere agli U2 una vetta artistica di assoluta eccellenza. Smussati gli angoli più aggressivi la band si presenta nel 1984 con un suono più maturo, sottilmente psichedelico e di grande atmosfera, senza però smarrire la passione originaria. Da quel momento U2 e Eno rappresenteranno un binomio inscindibile.

4.“Q: Are We Not Men? A: We Are Devo!” Devo (1978)

David Bowie era stato chiaro: “Questa è la band del futuro!”, aveva detto dopo avere assistito a un’esibizione dei Devo. Purtroppo i suoi svariati impegni gli impediscono di produrre l’album di debutto, compito che passa a Eno, il quale (pur con qualche tensione da parte dei musicisti che non sempre apprezzano le sue stranezze) prende il punk elevato a new wave dei cinque de-evoluti e lo infarcisce di bizzarrie sonore varie che trasformano le canzoni in vere schegge di follia robotica. Quasi dei Kraftwerk in salsa punk.

3.“1. Outside” David Bowie (1995)

Anche se stretto collaboratore all’epoca della trilogia berlinese Eno non si è mai addentrato nella produzione di un album di Bowie fino al 1995. L’uscita di 1. Outside spiazza tutti coloro che vedevano Bowie trascinarsi da qualche tempo in album dallo scarso mordente. Il disco arriva a sancire una vera rinascita, un concept album sci-fi noir che l’apporto di Eno rende una sorta di Sgt. Pepper’s cyberpunk, infarcito com’è di electro, noise, industrial, tecnno, jungle, trip-hop a condire un songwriting da urlo. Non sono semplici canzoni, sono piccoli universi nei quali esplodono continuamente nuovi mondi che vengono a galla e poi scompaiono, con così tante stratificazioni sonore da perdere la testa. L’anticipazione di un futuro che sarà sempre avanti.

2.“Ultravox!” Ultravox! (1977)

Gli Ultravox! (che in futuro perderanno il punto esclamativo) si presentano come gruppo punk, ma a dire il vero le loro influenze sono assai più variegate: Hawkwind, Roxy Music, Kraftwerk. Si tratta quindi di dare in pasto al pubblico affamato di lamette e anarchia qualcosa che non tradisca lo spirito che è nell’aria, ma allo stesso tempo mostri tutte le sfaccettature della formazione capitanata dal carismatico John Foxx. Eno si dimostra ancora una volta l’uomo giusto, colui che può riuscire far convivere l’impossibile. Per rendersene conto basta ascoltare le due sezioni della pazzesca I Want To Be a Machine, con chitarra acustica, violino crimsoniano su una pletora di sintetizzatori impazziti, voce drogata, chitarra reggae, basso saturo e un ritmo monolitico che procede come un carro armato.

1.“Remain in Light” Talking Heads (1980)

Il disco nel quale tutte le capacità di Eno quale produttore vengono magnificamente alla luce. Anche i Talking Heads come molti altri incontrati in questa lista hanno voglia di nuovi orizzonti per la loro musica. Brian, che già ha lavorato con loro per i precedenti due album, li porta alle Bahamas e li chiude in uno studio a suonare ininterrottamente, senza schemi, senza canzoni precedentemente composte, cercando solo di catturare le migliori idee di queste sessioni per poi lavorarle pazientemente in sala di regia, costruendo loop a partire dalle improvvisazioni per poi creare i brani su queste basi. E così avviene in questo indimenticabile concertato di afrobeat, elettronica, krautrock e funk. Remain in Light non è basato sugli accordi (spesso le canzoni ne hanno uno o poco più) ma sui ritmi, sui suoni e sulla voce schizoide di David Byrne. Una rivoluzione che consacra Eno come re dei produttori più all’avanguardia in ambito pop, un pop mai più così colto e multiforme.

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