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La guida definitiva alla discografia di Kendrick Lamar

La storia del predestinato del rap americano attraverso gli album imperdibili, i classici, i mixtape per chi vuole approfondire la materia. Com'è che quest'uomo riesce sempre ad alzare l'asticella?

La guida definitiva alla discografia di Kendrick Lamar

Kendrick Lamar, luglio 2022

Foto: Jason Koerner/Getty Images

Il mondo non era pronto per il genio di Kendrick Lamar quando il rapper è arrivato sulle scene, nel 2003. Mescolando atteggiamenti da duro di Compton con una visione delle cose sofisticata, che lo faceva sembrare molto più grande dei suoi 16 anni, K.Dot ci ha colpiti con la precisione chirurgica di una bomba intelligente. E man mano che è diventato più famoso non ha fatto altro che continuare ad alzare l’asticella.

Gli imperdibili: “good kid, m.A.A.d. city” (2012)

Quest’opera fondamentale, nata con la benedizione di Dr. Dre, ha presentato al grande pubblico il talento del genietto di Compton. Con una meravigliosa tonalità vocale alta, che lo fa sembrare un alieno cresciuto non su Marte ma in Rosecrans Avenue, Lamar offre un ritratto brillante della vita dei neri a Los Angeles. Coi suoi durissimi ricordi di violenza quotidiana, m.A.A.D. city è l’equivalente di un antistress: è uno sfogo per la rabbia sacrosanta di Kendrick e ha portato il discorso sul disturbo post traumatico da stress nel mainstream. Senza scendere a compromessi, Lamar trasforma il suo difficilissimo percorso di vita in un’opera d’arte e da classifica.

Gli imperdibili: “To Pimp a Butterfly” (2015)

Un capolavoro che evoca il libro di Harper Lee e i collage di Romare Bearden. La bellezza dell’arte di Lamar sta nell’unione tra metodo razionale e istinto passionale. La ricchezza della cultura emersa dalla lotta per i diritti civili è rielaborata da un tizio cresciuto negli anni ’90. Alright è diventato un inno di protesta, ribelle ma gioiosa, di una generazione, How Much a Dollar Cost è un’umanissima parabola sul karma, mentre Momma, ispirata al viaggio di Kendrick in Sud Africa del 2014, è un’ode sognante al continente in cui la vita ha avuto origine.

Gli imperdibili: “DAMN.” (2017)

Il terzo album su major somiglia a uno di quei film dei fratelli Coen ispirati al Vecchio Testamento. Duckworth ha qualcosa di religioso, un’allegoria sull’idea che gli esseri umani non possono cambiare gli eventi imprevedibili a cui sono predestinati per via di qualche capriccio di Dio, salvo che poi tutto cambi per una qualche circostanza fortuita. L’esplosiva XXX è un pezzo mesto sulla parabola di Giobbe che tocca argomenti come il controllo delle armi e condanna i peccati originali dell’America: genocidio e schiavitù. Damn, poi, ci rassicura (con delicatezza, ma senza un grammo di humour) che siamo in buona sostanza tutti condannati.

I classici: “Section.80” (2011)

Lamar concentra la sua visione del mondo nei 16 pezzi del disco di debutto per Top Dawg Entertainment. Trattano di tutto, dai problemi della sua generazione con distrazioni e iperattività ai piccoli momenti di gioia nella routine quotidiana fino alla bellezza naturale delle donne di colore. Fuck Your Ethnicity è piena di osservazioni taglienti che dimostrano che è uno dei predestinati del rap.

I classici: “untitled unmastered.” (2016)

Rispetto al precedente To Pimp a Butterfly, questo disco sembra un brutto doposbronza. Con le sue atmosfere free jazz e i suoi temi cervellotici, questa bella raccolta di outtake del 2016 è una rappresentazione perfetta del concetto di black cool. Il pezzo d’apertura, Untitled 101, è un caos meraviglioso in cui K.Dot fa una rivelazione apocalittica (“Le acque dell’Oceano sono evaporate, il fuoco distrugge altre maree / Il tabernacolo e la capitale sono sottosopra”) su un tappeto di basso tonante. Stabilisce subito il mood di un album che dimostra come gli scarti di Lamar siano migliori delle hit di tantissimi altri artisti.

I classici: “Mr. Morale & the Big Steppers” (2022)

L’attesissimo quinto album in studio di Lamar, il suo primo a cinque anni da DAMN., ha un titolo ironico che suona come quello di un musical di Broadway. Nei 18 brani, spalmati in 73 minuti, ci sono dramma, autoanalisi, domande a cui dare risposta. Se Auntie Diaries è uno dei suoi pezzi più personali e toccanti, parla della caparbietà di un famigliare trans, a dispetto dell’omofobia galoppante, We Cry Together è una disamina brutalmente onesta e a tratti umoristica della sua misoginia latente.

Per approfondire: “Y.H.N.I.C Hub City Threat: Minor of the Year” (2003)

Il flow di Kendrick nel primi mixtape del 2003 suonava particolarmente sincero in un momento caratterizzato da freestlye più generici. In Intro (Hova Song), K.Dot menzionava Creflo Dollar (un telepredicatore evangelico statunitense, ndt) e le rivolte per il caso di Rodney King con una cadenza talmente sicura da farlo sembrare più grande ed esperto rispetto ai coetanei. Era chiaro fin da allora che Kendrick era il futuro.

Per approfondire: “Training Day” (2005)

Qui, a soli 18 anni, Kendrick sembra avere già accumulato un’esperienza da veterano. In One Shot Kill rappa con disinvoltura su basi veloci, decisamente diverse quelle usate dai suoi contemporanei. In Good Morning America nomina Snoop e Tupac, vantandosi di essere il nuovo salvatore della West Coast.

Per approfondire: “No Sleep Til NYC” (2007)

Un omaggio sentito all’hip hop della golden age che mostra come Lamar abbia studiato diligentemente la storia. Per il suo terzo mixtape, Kendrick si fa aiutare da Jay Rock dei Black Hippy e spadroneggia con un flow pazzesco su basi storiche della scena newyorchese. In The Show confessa candidamente di voler vivere “come un caucasico nato con la camicia”. Ben presto sarebbe entrato nell’Olimpo dell’hip hop.

Per approfondire: “Kendrick Lamar EP” (2009)

Con una produzione molto evocativa e moderna, questo piccolo progetto mescolava forti vibrazioni emotive a lucide cronache di strada. In Wanna Be Heard Lamar rappa: “Sono della stessa pasta di Common e Gucci Mane”, mentre in Uncle Bobby & Jason Keaton rende omaggio a un amico chiuso in carcere e lo fa con una delicatezza straziante.

Per approfondire: “C4” (2009)

Il mixtape co-firmato con Lil Wayne è pieno di versi incendiari su basi prese da Tha Carter III dello stesso Wayne. In Best Rapper Under 25 Kendrick sputa fuori la rima: “Dite a mia mamma di non essere triste / Perché ero un killer / Hanno trovato il mio corpo e nello stomaco c’era la testa di un rapper”. In Mr. Carter 2 si definisce il “Dio dell’MC” mettendo in chiaro che con C4 si sentiva pronto a esplodere.

Per approfondire: “Overly Dedicated” (2010)

È il mixtape in cui Kendrick strizza l’occhio al mainstream, il suo lavoro più notevole prima dell’esplosione della fama mondiale. R.O.T.C. (Interlude) è una confessione cristallina con dentro l’energia di un film indipendente destinato a vincere un premio dietro l’altro e difficilmente si troverà un inno dedicato all’essere sopra le righe più populista di Michael Jordan, con Schoolboy Q.

Tradotto da Rolling Stone US.

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