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La guida definitiva agli album pop di Franco Battiato

Nel corso della sua carriera Battiato ha attraversato suoni sempre diversi, dalla classica al minimalismo. Nella nostra guida, gli album pop più belli della sua discografia, da 'L'imboscata' a 'La voce del padrone'

Foto: Getty Images

Nella sua carriera Franco Battiato ha toccato mondi e stili diversissimi: musica leggera, sperimentazione, elettronica, minimalismo, musica classica e contemporanea, opera. Il Battiato che i più conoscono è però quello pop, l’autore che per primo in Italia riuscì a vendere oltre un milione di copie con canzoni solo apparentemente orecchiabili e dai testi bizzarri, in realtà veri caleidoscopi di influenze e culture disparate. Pop sì ma mescolato con tutte le esperienze citate sopra per raggiungere un vero stato dell’arte.

È possibile stilare una classifica degli album pop di Franco, dal meno a fuoco a quello più importante, svelandone luci e ombre? E un compito arduo ma ci proveremo, con un avvertimento: anche il lavoro meno riuscito di Battiato contiene perle nascoste che vale la pena scoprire.

16. “Ferro battuto” (2001)

Un album saturo di suoni a volte urticanti, con canzoni mediamente deboli e ripetitive. Franco e il suo sodale Manlio Sgalambro, all’epoca impegnato nella scrittura dei testi, mostrano un poco di stanchezza e non riescono a proporre nulla che sia entrato nel novero dei classici del nostro. A fine disco ecco però che il panorama si illumina inaspettatamente con Il potere del canto, canzone mistico-futuristica basata su un trascinante ritmo elettronico, con la voce trattata del nostro e una melodia finalmente ammaliante. Il brano include anche una traccia fantasma (intitolata Öde) con un tappeto spaziale di tastiere, suoni ritmici e ipnotici che giungono da più parti.

15. “Apriti sesamo” (2012)

L’ultimo album pop di Battiato fino ai nostri giorni è anche quello maggiormente permeato dal pensiero della morte. In ogni brano c’è un riferimento a questa, con testi (gli ultimi scritti con Sgalambro) mai carichi di tristezza ma anzi luminosi nel loro dipingere la dipartita come passaggio verso altre dimensioni e nuove esistenze. Purtroppo a livello musicale Apriti Sesamo non offre particolari perle e va preso per quello che è: una collezione di canzoni lievi come brezza primaverile dotate di arrangiamenti sopraffini.

14. “Il vuoto” (2007)

Il vuoto è un album sereno che si muove tra arrangiamenti elettronici e classicheggianti, con la presenza di brani dolci e impalpabili come Niente è ciò che sembra (che darà il titolo al film diretto dal nostro), Tiepido aprile e Aspettando l’estate. Altrove Franco spinge sul pedale del ritmo (Il vuoto) risultando però non del tutto convincente. Ci pensa Stati di gioia, sul finale, a offrire un nuovo saggio di profonda spiritualità mista a umori nostalgici.

13. “Mondi lontanissimi” (1985)

Un lavoro ibrido, sospeso com’è tra rielaborazioni di vecchi brani (Il re del mondo), ripescaggi (I treni di Tozeur, Chan-son egocentrique) e alcuni esperimenti non del tutto riusciti (Risveglio di primavera, Personal computer). Quando però le canzoni sono a fuoco è un fuoco tra i più brillanti: No time no space, Via lattea, Temporary road e, soprattutto, L’animale sono gemme preziose, specie l’ultima, con solo voce, archi e pianoforte a mettere in scena una melodia perfetta. Il testo, come in molti altri brani del nostro, pone l’attenzione sull’elevarsi dalle passioni terrene per toccare dimensioni più alte.

12. “L’imboscata” (1996)

L’imboscata è impreziosito da uno dei momenti più alti nella poetica musicale del nostro: La cura, un brano che tocca profonde corde dell’anima e diventa universale pur non facendo mai capire a chi Franco si stia rivolgendo. Chi sia il beneficiario della sua Cura. Ma non importa, il brano è un manifesto anche per ciò che non dice, lasciando all’ascoltatore il compito di creare da sé i significati. Il resto del disco spinge sul pedale del rock (Di passaggio, Strani giorni), salvo a tratti calare un poco di tensione con brani sempre ammalianti ma di minore impatto emozionale.

11. “Dieci stratagemmi” (2004)

Dieci canzoni che, come dice il titolo, sono anche stratagemmi per inventarsi modi diversi di concepire il pop; con ritmi dispari, rock duro, molta elettronica, un multi-linguaggio anche a livello di testi, con tratti in inglese, giapponese, tedesco… Dalla sghemba invettiva contro George W. Bush di Ermeneutica, alla potenza quasi metal di Tra sesso e castità, con in mezzo la sperimentazione di 23 coppie di cromosomi, la danzabilità di Apparenza e realtà e la levità de La porta dello spavento supremo. Sicuramente il migliore album di Franco dal 2000 a oggi.

10. “Caffè de la Paix” (1993)

Il Caffè de la Paix era il luogo parigino dove Georges Ivanovič Gurdjieff, colui che col suo pensiero mistico-filosofico influenzerà gran parte della carriera di Battiato, soleva riunirsi con i suoi adepti. Il disco è permeato del pensiero del maestro armeno, unito a quelli che sono gli interessi esoterici e spirituali di Franco, con rievocazioni di antiche civiltà (Atlantide), meditazione (Ricerca sul terzo), cenni storici (Delenda carthago) e poetici (Haiku, Lode all’inviolato). Il tutto in un disco che si avvale di un solido impianto rock (con Gavin Harrison dei Porcupine Tree e King Crimson alla batteria) ma che all’occorrenza sa svoltare verso profumi etnici e acustici.

9. “L’arca di Noè” (1982)

Dopo la sbornia di successo de La voce del padrone, nel 1982, un coraggioso Battiato se ne guarda bene dal seguire le tracce del disco milionario e svolta in una direzione più oscura, presagendo la futura fine del mondo e l’avvento di una nuova Arca per salvare chi lo meriterà (per Franco coloro che hanno compiuto un cammino di consapevolezza di sé). A tre canzoni iniziali pregne di umori apocalittici, con il vertice della possente L’esodo, seguono una serie di altri brani più leggeri. Finale positivo con Voglio vederti danzare, dedicata al potere della danza, un modo anche divertente per salvarsi dal Diluvio.

8. “L’ombrello e la macchina da cucire” (1995)

Uno degli album più particolari di Battiato, qui all’esordio della collaborazione con Manlio Sgalambro. L’ombrello e la macchina da cucire non contiene successi o brani di facile presa ma musiche austere dal solido impianto elettronico, piene di suoni sintetici a fascinosi. Un disco difficile, con testi carichi di immagini nostalgiche unite a pregnanti citazioni filosofiche, che si riesce a penetrare dopo molti ascolti e che ripaga con la magia di suoni e melodie astratti e stravaganti che catturano cuore e cervello.

7. “Orizzonti perduti” (1983)

Un lavoro all’epoca passato un poco sottotraccia, in realtà forse l’album più intimo di Battiato, ancora rivestito di colori elettronici a tinta pastello, mai invadenti e sempre avvolgenti. Con lo struggente La stagione dell’amore a fare da apripista e una serie di altre canzoni che si muovono tra la rievocazione di ricordi di gioventù e invettive contro la società moderna, colpevole di avere allontanato l’uomo dal contatto con sé. Per fuggire a ciò Battiato lo dice esplicitamente: Ci vuole un’altra vita.

6. “Come un cammello in una grondaia” (1991)

Un album che si muove tra la rielaborazione di quattro cantate di compositori classici (Beethoven, Wagner, Martin, Brahms) e altrettanti brani che definire canzoni è riduttivo, pregne come sono di apertura verso le alte sfere della conoscenza spirituale. Si tratta in realtà di vere e proprie preghiere in musica, con il picco de L’ombra della luce, uno dei vertici di Battiato, un vero inno trascendentale scritto in sei mesi, pezzetto dopo pezzetto, al termine delle sue meditazioni. Insieme a questa svetta Povera patria, commovente invettiva contro il potere affidato a “gente infame che non sa cos’è il pudore”. Solo voce, pianoforte, un velo di tastiere e l’orchestra per un album tanto profondo quanto umano.

5. “Gommalacca” (1998)

Le mille facce di Battiato che nel suo cammino si adagia sulle morbide spire dell’orchestra e poi arriva a rendersi fautore di un sound modernissimo, debitore del lavoro dei coevi Bluvertigo (nel disco è infatti presente Morgan al basso) ma al tempo stesso totalmente personale. Rock ad alto tasso adrenalinico ed elettronica fusi in un magma ribollente con Shock in my town, inno cyberpunk che esplode con fragore nel ritornello. Gommalacca inanella altri momenti deflagranti (Il mantello e la spiga, Quello che fu) alternati al romanticismo battiatesco di Casta diva, É stato molto bello o Vite parallele. Per ultimo Shakleton, dieci minuti di psichedelico viaggio polare, con il nostro novello esploratore di astratte lande sonore.

4. “Patriots” (1980)

Come il precedente L’era del cinghiale bianco anche Patriots è un album nel quale il profumo di terre lontane è tangibile: la Russia del capolavoro Prospettiva Newsky, Venezia-Instambul, le strofe arabe di Arabian song. Ma Patriots è anche il ritmo leggero di Up patriots to arms, che in realtà è una feroce invettiva contro la stupidità latente della società e che non risparmia realmente nessuno. I sette brani dell’album mettono a punto un suono che troverà pieno sbocco l’anno successivo con La voce del padrone.

3. “L’era del cinghiale bianco” (1979)

Nel 1979 Franco Battiato opera una svolta epocale passando da album che si muovono tra musica elettronica e contemporanea a una forma di pop assolutamente inedita per l’Italia che fonde ritmiche squadrate di stampo new wave con sapori classicheggianti e suggestioni esotiche. Basta l’incipit del brano che da il titolo al disco, con il suo penetrante violino e i suoi “profumi indescrivibili” per catapultare l’ascoltatore verso paesaggi d’altre realtà, con melodie indimenticabili (Il re del mondo, Stranizza d’amuri) che offrono un modo nuovo, raffinato, colto ed elegante, di fare pop.

2. “Fisiognomica” (1988)

Il perfetto connubio tra arte pop e spiritualità. Fisiognomica è quasi un miracolo di equilibrio nel quale le melodie struggenti di Franco si fondono con la sua ricerca interiore e con un amore smisurato per la terra madre di Sicilia. E ti vengo a cercare, la title track, Secondo imbrunire, Nomadi (firmata da Juri Camisasca), Il mito dell’amore, Veni l’autunnu, Zai saman sono perle incastonate in un’unica collana di meraviglie. A fine album ci pensa poi L’oceano di silenzio a trasportare l’ascoltatore in una dimensione ultraterrena, dove spirito e materia si fondono per dar vita a una commovente preghiera al proprio dio interiore.

1. “La voce del padrone” (1981)

Vetta di classifica scontata ma doverosa con l’album più centrato di Battiato. Un successo straordinario, che lascia sbigottito per primo il suo autore e che per una volta mette insieme orecchiabilità e alta cultura. Franco riesce a fare canticchiare all’Italia intera concetti profondi come il centro di gravità permanente del suo mentore Gurdjeff, ma è l’album intero a essere così fitto di link che portano a una moltitudine di suggestioni e conoscenze che a sviscerarle tutte servirebbe un’enciclopedia.
Da Summer on a solitary beach a Sentimiento nuevo, passando per Bandiera bianca, Gli uccelli, Cuccuruccuccù, Segnali di vita… le sette canzoni de La voce del padrone sono servite in un gustoso piatto di melodie perfette e fini arrangiamenti che inanellano l’album pop perfetto, ieri come oggi.

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