I pionieri (a volte trascurati) dell’era digitale: 10 album da ascoltare | Rolling Stone Italia
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I pionieri (a volte trascurati) dell’era digitale: 10 album da ascoltare

Da Stevie Wonder a Zappa, passando per Herbie Hancock e Kate Bush, un piccolo assortimento di artisti che hanno usato Synclavier e Fairlight, campionamenti e programmazioni quando pochi osavano farlo

I pionieri (a volte trascurati) dell’era digitale: 10 album da ascoltare

Stevie Wonder nel 1980

Foto: David Redfern/Redferns

Oggi siamo immersi quotidianamente in un universo sonoro digitale. Il computer pervade ogni attività, il campionamento è all’ordine del giorno, la musica si fa quasi solo con i preset la cui perfezione formale rende superfluo ogni altro intervento. Arrivarci non è stato facile e soprattutto ci sono stati pionieri che hanno provato a entrare in questo mondo a loro spese. Al solito, c’è chi ha vinto e rimane negli annali e chi ha perso (o pareggiato) e che nessuno ricorda. Ecco perché oggi sembra normale parlare di Peter Gabriel o della coppia Brian Eno-David Byrne come i primi ad aver usato determinati macchinari digitali, mentre gli altri vengono dimenticati. Vi proponiamo quindi un campione (appunto) di artisti che hanno sondato in tempi non sospetti un territorio fino ad allora inesplorato. Non a tutto è stata resa giustizia: fosse che fosse la volta buona?

Warp

New Musik

1982

I New Musik sono un caso clamoroso di band geniale che ha esercitato un’influenza notevole sulla scena inglese per le sue innovazioni e che però è stata dimenticata dalla massa. Eppure si sono distinti a fine anni ’70/inizio ’80 per una ricerca certosina sul suono digitale, tanto da farne una delle band synth pop più avanguardista del periodo. Non solo la Casio nel 1980 si è accaparrato un loro pezzo per le sue pubblicità sfruttando il testo di Living by Numbers che esclamava “Such a digital lifetime”, ma un signore come Michael Jackson prese in prestito le vocine pitchate di This World of Water per la sua P.Y.T. (Pretty Young Thing). Il leader Tony Mansfield divenne ben presto un esperto programmatore del Fairlight e perciò chiamato in alcune delle produzioni più in voga del periodo dell’esplosione digitale (ad esempio gli A-ha del primo album). Esclusivamente con questa macchina (trattasi quindi di uno dei primi dischi ad essere prodotto in questo modo) e con campionatori e altre diavolerie digitali, la band registra Warp, un capolavoro quasi insuperato del genere dove il synth pop si trasforma già in hyperpop (e tra l’altro il titolo del disco ricorda forse non a caso il nome della famosa etichetta di Aphex Twin). Come accade a tutti i visionari avanti rispetto ai loro tempi, Warp è stato un flop, ma di fronte a un guizzo come la doppia cover di All You Need Is Love dei Beatles (nello stesso tempo una versione fedele all’originale e un pezzo a sé stante) non possiamo che inchinarci al loro genio.

Never for Ever

Kate Bush

1980

Di Kate Bush e del suo avveniristico The Dreaming abbiamo ampiamente parlato qui: è un’opera in cui il suono digitale campionato viene portato all’ennesima potenza dal Fairlight e uno dei primi dischi ad essere suonato quasi interamente da un campionatore. Quello che però non molti sanno è che Bush è stata la prima in assoluto a utilizzare il Fairlight in un LP, prima ancora di Peter Gabriel. L’occasione è il 1980 con il disco Never for Ever, celebre per la hit Babooshka. La musicista trasforma un disco nato per solo pianoforte in una mistura tra passato e futuro, tra classico e moderno, dove il futuro ha la meglio (basti pensare a Egypt o All We Ever Look For). La stessa Bush suona le parti di Fairlight, ma per ora non è ancora “skillata” nel programmarlo. Si fa aiutare da Richard James Burgess, mente del grande gruppo synth pop Landscape e soprattutto uno dei produttori chiave del new romantic (il suono dei primi Spandau Ballet è farina del suo sacco). Il risultato è una Kaitlyn Aurelia Smith quarant’anni prima.

Catch as Catch Can

Kim Wilde

1983

Sebbene tutti attribuiscano il primato nell’elettronica digitale a personaggi femminili di sicura fama intellettuale (vedi ad esempio Laurie Anderson), praticamente nessuno sa che una delle amazzoni dei campionatori è la (quasi) insospettabile Kim Wilde. Diciamo quasi perché Wilde già in Select del 1982 aveva alzato l’asticella dell’arte del synth pop. Con Catch as Catch Can del 1983 si stacca dal discorso teenager e pur rimanendo in assetto mainstream lo disintegra dall’interno accelerando il tutto come se fosse un missile sparato a mille in un cosmo a cristalli liquidi. È tutto veloce e potente, l’ansia di futuro giovanile è una bomba in procinto di esplodere. Ai confini con l’Italo disco, ma anche con nuove frontiere di pop industriale, Wilde armeggia con Fairlight ed Emulator, mentre il fratello Ricky come al solito alla produzione costruisce un’architettura fatta allo stesso tempo di preset e di programmazione tanto rigorosa quanto schizzata. Il disco spiazzerà tutti: il pubblico, che non riuscirà a trovare un singolo a cui affezionarsi, e la critica che sarà divisa tra detrattori del suono elettronico “inumano” e i pochi fan del nuovo corso. Sta di fatto che verrà promosso poco dalla casa discografica. Rimane comunque uno degli spartiacque più significativi tra il passatismo pop massificato e il futuro che abbatte la fredda macchina del mercato con le sue stesse armi. Digitali, si intende.

Journey Through the Secret Life of Plants

Stevie Wonder

1979

Il primo disco pop in assoluto in cui un campionatore digitale viene usato massicciamente è Journey Through the Secret Life of Plants di Stevie Wonder. Trattasi di un Computer Music Melodian, che nonostante i suoi 12 bit e la sua monofonia riesce a creare la magia sonora aliena che caratterizza l’album. Il disco nasce come colonna sonora per un documentario basato sul libro omonimo in cui si analizzano le piante in quanto soggetti capaci di comunicare con gli altri esseri viventi. Wonder scrive lo score basandosi sulla narrazione del regista, messa in una traccia guida che prevedeva i suoni d’ambiente del film, ma finisce per trasformare lo spunto del libro e del documentario in una personalissima ricerca spirituale che lo riallaccia al caos organizzato della natura. Alla fine il disco è altamente sperimentale, basti pensare alla weirdness naïf di Venus’ Flytrap and the Bug. La critica è perplessa, ma il gioco (con il Melodian) vale la candela tanto che risulta oggi anticipatore di roba score oriented come Visible Cloaks e compagnia, quasi new age punk prima del tempo. È anche il secondo disco in assoluto registrato interamente in digitale (il primo fu Ry Cooder, ma lo fece per registrare roba “conservatrice”, un’occasione persa che a Wonder non sfugge).

Future Shock

Herbie Hancock

1983

Herbie Hancock è stato sempre un fissato per le nuove tecnologie tanto da essere stato il primo ad usare l’Apple I per questioni musicali. Nel 1982, dopo aver provato il Synclavier nel disco Lite Me Up, decide di svecchiare il mondo del jazz entrando a gamba tesa con un disco ad alto tasso elettronico, con Fairlight, campionatori digitali e drum machine, inaugurando una nuova era. Il jazz elettronico di Future Shock è infatti non solo al confine con l’hip hop, ma anche al limite tra plastica e carne: con l’aiuto del basso e della produzione di Bill Laswell, Hancock definisce uno standard nello scavalcare generi e razze, tra world music dissociata, impro computerizzate ed esperimenti pseudoscientifici sul suono. Herbie parla infatti ad androidi, a umanoidi, ai manichini del video di Rock It, non certo alla sua era o alla sua specie. Assoluto apripista.

Identity

Zee

1984

Potevamo scegliere i Devo tra i primi gruppi a usare interamente i campionatori buttando via le chitarre. Nel 1984 pubblicano Shout che sarà il disco della crisi proprio perché registrato interamente con macchinari digitali (Fairlight ancora una volta). L’album esce nell’ottobre del 1984 portandosi dietro un anno e mezzo di travaglio. Prima, però, usciva un curioso disco di un formazione sconosciuta, gli Zee. Identity è il frutto dell’incontro sulla carta impossibile di Richard Wright dei Pink Floyd e di Dave Harris, cantante dei new romantic Fashion. Sono tra i primi a usare praticamente solo il Fairlight per tutto il disco, ad eccezione della voce umana. Il risultato è un album sintetico al limite dell’alienazione, ma in definitiva un esperimento di psichedelia digital, osando quello che i suoi colleghi (il Roger Waters di Radio K.A.O.S. e i Floyd di A Momentary Lapse of Reason) sperimenteranno solo molto più tardi. Il disco sciocca tutti, in primis i fan dei Pink Floyd tanto da subire una abiura non si sa quanto convinta dallo stesso Wright. Esperimento riuscito o meno, Identity è un tentativo coraggioso, forse unico nel suo genere, di attuare una automazione completa in musica: anzi, come da titolo, un’identità.

Adventures in Modern Recording

Buggles

1981

Se c’è un capoccione ad aver spinto a tavoletta per la digitalizzazione campionata della musica di oggi questo è Trevor Horn. Il leader dei Buggles infatti è noto per aver forgiato il suono dei pronipoti producendo gente come Frankie Goes to Hollywood, Propaganda e soprattutto Art of Noise, che erano praticamente un gruppo fantasma sostituito dalle sue macchine di ultima generazione. Ma già nei Buggles è fra i primi a usare il Fairlight nel secondo album del duo, Adventures in Modern Recordings, il cui titolo è un evidente manifesto. Il campionamento diventa diffuso e sostanziale, anticipando i futuri esperimenti applicati alle produzioni di Horn. Il sodale Geoff Downes lascia la band per unirsi agli Asia durante le registrazioni e appare solo in alcuni brani alle tastiere. L’album è a tutti gli effetti una prova solista di Horn che ne approfitta per mettere a punto un curioso esempio di progressive elettronico (facendo tesoro dei suoi recenti trascorsi negli Yes). Una piccola grande previsione sulle future tendenze della musica mondiale, soprattutto in questo periodo storico che stiamo vivendo (Orange Milk docet).

X-traordinaire

Gina X Performance

1980

Inghilterra, Stati Uniti e Australia monopolizzano il mercato dei primi campionatori digitali, ma in Europa c’è un rivale in grado di competere sia dal punto di vista sonoro che da quello – fondamentale – economico. Meno dispendioso degli altri, il PPG Wave System permette di editare, campionare e manipolare digitalmente come se non ci fosse un domani. Pionieri di tale aggeggio usato in maniera massiva sono i tedeschi Gina Kikoide e Zeus B. Held, autori dell’inno assoluto transgender No GDM, che ancora infetta i club di tutto il mondo con un sound tipo Moroder sotto Halcion. Con la loro ragione sociale pubblicano il disco X-traordinaire nel 1980, proiettandosi in avanti rispetto ai loro coevi ancora fermi all’analogico (pare che il PPG in loro dote sia un prototipo non ancora in commercio). Questa ventata di futurismo porta il duo ad abbandonare le atmosfere stile Marlene Dietrich drogata per abbracciare uno stile più “sparato”, anfetaminico, e in definitiva proto hyper, spaccato di una società a venire, che consuma e si consuma alla velocità della luce. Una curiosità: Ivan Cattaneo ruberà di sana pianta il brano Weekend Twist per farne Italian Slip, title track del suo album più avveniristico, ma non sappiamo con certezza se anche lì ci sia traccia del PPG.

Jazz from Hell

Frank Zappa

1986

La visione di Frank Zappa è avanti anche per i suoi collaboratori. A un certo punto diventa complicato sottoporre parti strumentali complessissime a poveri cristi che non gliela fanno più e sudano sette camicie (un esempio lampante è la conversione al new romantic di Terry Bozzio e Warren Cuccurullo, finalmente liberi di suonare in modo “semplice” nei Missing Persons dopo una vita di virtuosismi forzati). Decide allora di comprare un Synclavier DMS, avveniristico campionatore digitale che gli permette di eliminare ogni elemento umano e di fargli suonare anche le partiture più impossibili. Esaltato da questa possibilità, Zappa registra un disco che (a parte St. Etienne) entra negli annali della musica impossibile da suonare se non da una macchina, come testimonia la contorta G-Spot Tornado (anche se poi ci hanno provato gli orchestrali nel live The Yellow Shark). E che in fondo anticipa anche una certa IDM cervellotica e incastrata, se non proprio post umana.

Technodelic

Yellow Magic Orchestra

1981

I raffinatissimi e mostruosi musicisti della Yellow Magic Orchestra della premiata ditta Sakamoto-Hosono-Takahashi sono tra i primi a usare a cannone le apparecchiature digitali. Technodelic rappresenta lo stato dell’arte di un nuovo approccio sonoro. La macchina usata è giapponese: trattasi di un LMD649 della Toshiba/EMI, il primo sintetizzatore PCM mai creato. Caratteristica del disco è di concentrarsi sulla tecnica del looping e quindi del campionamento “frammentato”: un capolavoro assoluto di preveggenza di quella che sarà la tendenza principe dei decenni a venire. Il disco farà proseliti, facendo sì che tutti gli altri act synth pop giapponesi usino la succitata macchina, che diverrà presto un trademark dello stile nipponico nel mondo.