I migliori pezzi dei Depeche che ha cantato Martin Gore | Rolling Stone Italia
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I migliori pezzi dei Depeche che ha cantato Martin Gore

Siccome oggi spegne 57 candeline, è bene ricordare che la mente dietro ai Depeche Mode non è il frotman, bensì quello che scrive tutte le canzoni (e ogni tanto le canta pure)

I migliori pezzi dei Depeche che ha cantato Martin Gore

Una cosa universalmente riconosciuta è che i Depeche Mode hanno un Signor frontman, Dave Gahan. Cosa già meno riconosciuta, specialmente da chi non è andato mai oltre Enjoy The Silence per conoscerli, è che se Dave Gahan è il sensualissimo braccio, è Martin Gore la mente.

È Gore ad aver scritto la stragrande maggioranza dei pezzi, e questo non si applica alle sole hit (pensate a una dei Depeche, l’ha scritta lui) ma alla miriade di perle in cui puoi imbatterti soltanto se ti metti lì e ti ascolti uno per uno i 14 album dal 1981 a oggi. Se poi includiamo i pezzi in cui da chitarrista Gore si fà voce principale e frontman, allora la posizione di Gahan si ridimensiona parecchio, tornando quantomeno sullo stesso gradino dei suoi compagni. Con la scusa dei 57 anni compiuti proprio oggi (auguri!), torniamo sulle cinque migliori fra queste interpretazioni cantate da Gore.

“The Things You Said” (1987)


Sesto album, 1987. La popolarità dei Depeche Mode è spaventosa, ma non è nulla se paragonata a quella di Michael Jackson o, chessò, Elton John. Giusto per citare due nomi a caso. Più volte durante la produzione e registrazione del nuovo album, soprattutto dai responsabili della Mute Records, Gahan e i suoi si sentono dire che “la loro musica dev’essere ancora più popolare, più commerciale” per accaparrarsi ancora più fan. Di risposta, la band sceglie ironicamente Music For The Masses come titolo del disco, ma ci mette dentro tutto fuorché un album per le masse. Come ha ricordato Gore più tardi: «Il titolo scherzava sulla non-commercialità dell’album». The Things You Said non è da meno, essendo una ballad spettrale tutta arpeggi e colpi di rullante rarefatti su cui Gore ulula di una delusione d’amore e della rabbia che solitamente viene dopo. Tutto l’opposto di una hit radiofonica.

“The Bottom Line” (1997)

Depeche Mode - The Bottom Line

Nonostante il fatto che tutte le canzoni di Ultra portino la firma di Gore (non è una novità), con il nono album nessuno dei Depeche Mode per la prima volta viene incluso nella produzione. Il che non è necessariamente un male, anzi. Prendiamo The Bottom Line e le sinuose strofe di un Gore canta sempre più in versione Anthony & The Johnsons mentre dei fraseggi scarni di contrabbasso gli strisciano fra i piedi. Forse una delle migliori canzoni di tutta la discografia dei DM.

“One Caress” (1993)

Depeche Mode - One Caress (Official Video)

I Depeche Mode e il blues: è un connubio che ormai è stato universalmente riconosciuto. Niente di più azzeccato per dare ai pezzi (Personal Jesus su tutti) quella pacca erotica che ti verrebbe di farti la cassetta delle lettere. Gore oltretutto è riuscito a fare anche di più, nascondendo i ritmi terzinati del blues anche dietro a insospettabili archi immacolati, come in quel tripudio di arrangiamenti orchestrali che è One Caress. Una roba che in Italia solo Battiato, ma senza tutta la parte del blues e del farsi il primo oggetto che capita a tiro.

“Damaged People” (2005)

DEPECHE MODE - DAMAGED PEOPLE

Come mai i pezzi che canta Martin Gore sono sempre downtempo, incantevoli, malinconici, struggenti ma nel senso più anglosassone del termine? Perché di frontman che canta i singoloni i Depeche Mode ne hanno già uno, il resto deve rimanere costante, al limite migliorare, ma mai cambiare ragione sociale. Nemmeno con gli anni Duemila la vena romantica si esaurisce e Playing The Angel rimane una perla nera di pop nobilissimo in mezzo a un mare di idiozie discografiche altrui.

“It Doesn’t Matter Two” (1983)


Si deve ad Alan Wilder, ormai ex membro da più di vent’anni, il merito di aver trovato nell’oscurità la la strada maestra dei DM, una teatralità dark con rimandi gotici che poi negli anni Martin Gore ha perfezionato fino a renderla 1) riconoscibile fra mille imitazioni e 2) eterna, completamente immune alla mutevole indole dell’industria pop contemporanea. Una celebrazione del buio, del nero, del cielo plumbeo dell’Essex: in breve, una Black Celebration. Se poi questa teatralità si traduce in un citazionismo operistico traslato nell’era dei sintetizzatori, ancora meglio. Alla voce soave del Gore servono giusto due controcanti di voci simulate al synth per fare di It Doesn’t Matter Two uno dei pezzi più influenti dell’album (forse) più influente di tutti gli anni Ottanta.

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